29 settembre 2022

"Piccolo sillabario di pensieri inutili" di Maria Pia Pieri

 

di Marisa Cecchetti

       Il contesto in cui prendono vita i racconti di Maria Pia Pieri, nella raccolta Piccolo sillabario dei pensieri inutili, è racchiuso prevalentemente tra due vie di Lucca, via Galli Tassi e via San Paolino, tranne aprirsi per arrivare a Barga o su una cima della Apuane, con una puntata in Calabria, un viaggio del ’73 sulla costa dalmata e uno alle Canarie.

       Questo hortus conclusus, questo spazio volutamente limitato, porta la scrittrice a posare lo sguardo su abitudini e comportamenti intorno a lei, quasi li osservasse con una lente di ingrandimento.

       Ognuno di noi ha delle manie più o meno evidenti e dichiarate, e Maria Pia le mette a fuoco, non per esprimere un giudizio, ma per fissare oggettivamente, quasi come se scattasse una fotografia. Lo fa con garbo, quello che appartiene alla sua educazione ed alle tradizioni storiche della città, il garbo lucchese.  

         Non c’è mai la risata, ma un sorrisino stampato costante che va dalla bocca agli occhi furbi, un sorrisino di ironia sottile, un umorismo diffuso che nasce dai contrasti più palesi: indimenticabile la figura di una donna che dice di non interessarsi dei fatti degli altri, e invece sposta continuamente la sedia da un balcone all’altro di casa sua: “Allora, mi faccia cominciare dal principio: lo vede, abito qui al terzo piano di questo piccolo condominio, un appartamentino con due terrazzi, uno davanti e uno dietro. Qui si svolge la mia vita. A seconda dell’ora del giorno mi sposto dall’uno all’altro e qualche volta lo devo fare di corsa per non perdere quello che succede fuori”

       Questa capacità di sorridere di certe stranezze comportamentali non rientra nel castigat ridendo mores, non c’è assolutamente una intenzione moralistica, anche perché Maria Pia Pieri racconta di sé e del marito con lo stesso registro, magari portandoci nella loro vacanza del ’73 sulla costa dalmata, un’avventura tragicomica; o ci porta in un suo breve soggiorno di lavoro alle Canarie, partita con due costumi da bagno in valigia, nella sicurezza del sole  e del caldo, invece tremante di freddo e implorante la pelliccia. Che arriva quando non serve più, in una tappa del viaggio di ritorno.

       Magari si prende in giro per la sua distrazione mentre cerca per terra, carponi, una boccettina che invece sta tranquilla in un angolo del cassetto come sempre; o sottolinea la sua nostalgia e il suo amore per i vecchi semafori, che allo scattare del rosso le concedevano un momento di tregua per darsi un po’ di trucco.

       Il suo sguardo scende dentro i personaggi, ne coglie lo stato d’animo attraverso piccoli gesti o lo scambio di poche battute. Questa disposizione alla apertura fa da contrasto allo spazio limitato, lo estende, sottolinea la ricerca e il desiderio di contatti umani, di conoscenze, la curiosità davanti al nuovo, all’originale, come l’evento dei Comics che invade pacificamente la città, con i mugugni di parecchi residenti, che invece a lei porta gioia.

       Lucca, percorsa a piedi o in bicicletta, scoperta nella sua bellezza ma anche negli angoli più nascosti, rivive il passato nei racconti di Maria Pia Pieri, col recupero di figure scolpite nel ricordo dei più anziani: il carbonaio, l’ombrellaio, i negozi artigiani ormai scomparsi, sostituiti dalla produzione omologata.

        Anche il Covid entra nel racconto, nella prima e nella seconda fase, quando gli spazi si chiudono davvero, si chiudono le porte, magari aprendo le finestre per cantare alla speranza, prima che la delusione galoppi.

        Tuttavia niente toglie alla nostra scrittrice il sorriso, il bisogno di rifugiarsi nella parola educatamente irridente, per sdrammatizzare, per alleggerire ogni peso che la vita pone sulle nostre spalle. 

Maria Pia Pieri, Piccolo sillabario dei pensieri inutili, Tralerighe Libri, 2022, pag. 136, € 15,00.

25 settembre 2022

"La voce d'oro di Mussolini" di Sandro Gerbi

 

   Lisa Sergio, la donna che visse tre volte

 di Luciano Luciani

        Ogni sistema politico, segnatamente se autoritario, usufruisce sempre di una volenterosa pletora di sostenitori interessati a laute prebende, incarichi ben remunerati, uffici visibili e di qualche prestigio: burocrati vogliosi di accelerare la propria carriera, altrimenti lenta; docenti desiderosi di cattedre importanti; militari alla ricerca della propria occasione; giornalisti ambiziosi… 

       Ed è a quest’ultima categoria professionale che appartiene Lisa Sergio (1905-1989) “la donna che visse tre volte”. Fiorentina di nascita, ma figlia di un’americana e un napoletano, rimasta ancora bambina orfana di padre, mantiene con la madre rapporti sempre freddi e contrastati. 

        Dalla sua biografia, ricostruita con un paziente lavoro di scavo da Sandro Gerbi, redattore culturale del “Corriere della sera” e del “Sole – 24 ore” fattosi storico del Novecento politico letterario, apprendiamo che Lisa parla perfettamente il francese e l’inglese e che inizia la carriera giornalistica scrivendo su piccole testate in lingua inglese rivolte alla numerosa comunità di lingua anglosassone presente in Toscana. 

      Fervente fascista, trasferitasi a Roma, grazie all’amicizia di Guglielmo Marconi, lavora come giornalista per l’Ufficio stampa del governo, per il quale cura la traduzione in inglese e in francese dei discorsi di Mussolini trasmessi via radio. È di questo periodo della sua vita, intorno alla metà degli anni Trenta, sia una breve liaison con Galeazzo Ciano, destinato a diventare un astro di prima grandezza nel firmamento del regime, sia un’indiscussa notorietà all’estero al punto da essere conosciuta come “the golden voice of Rome”. 

        Una fama che le attira le attenzioni della polizia politica fascista che guarda con sospetto le sue frequentazioni con gli ambienti giornalistici inglesi e statunitensi soprattutto dopo la guerra d’Etiopia. Ragion per cui nel 1937 Lisa si trasferisce negli Usa, va a lavorare per la rete radiofonica NBC, fa amicizia con Eleanor Roosvelt, moglie del presidente degli Stati Uniti e nel corso del secondo conflitto mondiale collabora con l’emittente WQXR, realizzando commenti e interviste di segno marcatamente antifascista. 

         È il suo contributo allo sforzo bellico americano, così solerte da meritarle prima la cittadinanza americana, poi, alla fine degli anni Quaranta, addirittura il sospetto di essere una simpatizzante comunista con il conseguente suo isolamento umano e professionale. Insignita nel 1947 della Legion d’onore francese per il suo apporto alla causa del movimento France-Libre di Charles de Gaulle, sceglie di rimanere negli Stati Uniti, prima nel Vermont, poi a Washington dove vive di conferenze e collaborazioni giornalistiche. Esauritasi la stagione della paranoia anticomunista, la Sergio viaggia spesso per conto dello State Department, un dicastero nordamericano simile al nostro Ministero degli Esteri, ed entra nelle grazie della corte di re Hussein di Giordania. Nell’ultima parte della sua esistenza si avvicina alla Chiesa episcopale per la quale cura fino alla scomparsa, avvenuta nel 1989 una serie di trasmissioni settimanali di argomento religioso.

       Figura sfuggente, enigmatica, quella di Lisa Sergio. Ma, ci interroga l’Autore, la sua vita è solo riconducibile alla categoria del puro e semplice opportunismo? Oppure, come sostengono alcuni, la Sergio è una mitomane perennemente impegnata a rivedere, correggere, e quindi confondere, la narrazione della propria vita? O Lisa è una falena  attratta dalla luce del potere, sempre però così abile da evitare di bruciarsi del tutto le ali?

       Una biografia emblematica di un tempo intricato e terribile questa di Sandro Gerbi, che allo scrupolo documentario unisce la passione del giornalista di razza per le complicatezze della Storia e la complessità del cuore umano.

 Sandro Gerbi, La voce d’oro di Mussolini. Storia di Lisa Sergio la donna che visse tre volte, Neri Pozza Editore, 2021, pp. 221, Euro 18,00

23 settembre 2022

" La frattura" di Giovanna De Angelis

di Marigabri

«La distruzione, come molte pratiche infantili, è un esercizio meticoloso che richiede tempo e pazienza»

       Prima arriva il tradimento. Poi la malattia. È la storia di Francesca, giovane donna sposata con Cosimo, un ex compagno di liceo, un rapporto stabile o almeno consolidato, insomma una donna che ha tutte le carte in regola per essere appagata e serena. Magari non proprio felice, no, ma nemmeno così insoddisfatta da intraprendere una relazione sessuale con Diego,un coetaneo (siamo alle prime pagine), intellettuale come lei ma che non le piace poi neanche tanto.

Allora, perché?

       Non lo sappiamo di preciso (ma Francesca lo sa?); sappiamo soltanto che la sua vita sta andando a rotoli, lo vediamo pagina dopo pagina, assistiamo con un certo disagio a questa china precipitosa, a questa solitudine irragionevole e definitiva.

       A nulla servono le attenzioni a distanza di madre e suocera (che sono tra loro amiche e di cui leggiamo a tratti la corrispondenza); a nulla serve il ritorno del marito dopo la crisi, perché la frattura si fa profonda, diventa un male più grande, forse definitivo.

       Francesca continua imperterrita per la sua strada, il dolore non la ferma, anzi. Forse le insegna che quando serve bisogna andare fino in fondo. Dentro la conoscenza di quella frattura, nel buio del proprio male. Ma non per soccombere, no. Per espellere con forza tutto ciò che è arrivato a maturazione.

      Altro non si può dire, se non che il coup de théâtre finale è sorprendente e liberatorio anche per chi legge. (E tuttavia, sappiamolo, non ci libera dal male).

      Romanzo doloroso, anche perché la pubblicazione postuma e la morte prematura di Giovanna De Angelis lo rendono testimonianza unica del suo talento e del suo temperamento.

Giovanna De Angelis. La frattura. Elliot

16 settembre 2022

"Promesse" di Bryan Washington

 

di Giulietta Isola

“Amare una persona significa lasciare che cambi quando ne ha bisogno. E lasciare che se ne vada quando ne ha bisogno. E questo non la rende meno casa.”

        Bryan Washington è giovane ma ha già guadagnato una certa credibilità in Patria ed all’estero, ragiona su temi molto contemporanei quali questione razziale, privilegio bianco, gentrificazione, identità . 

       Tutto questo assieme alla casa editrice NN mi hanno spinto alla lettura di una storia nella quale l’utilizzo di una lingua viva fatta di dialoghi brevi ed immediati è molto funzionale, ma non mancano riflessioni su omosessualità, relazioni, rapporto fra culture e comunità diverse, luoghi che cambiano, immigrazione e possibilità . 

       Come dice il traduttore nella postfazione “ Egli – Washington- ci sta davvero chiedendo di metterci nei panni dell’altro, di cui non sapremo mai tutto, ma di cui percepiamo l’unicità “. Benson e Mike vivono assieme a Houston. Il primo è un educatore afroamericano e malato di HIV, abituato da sempre ad avvertire il pregiudizio sulla propria pelle, è uno di quelli che si è sempre sentito diverso e non accettato a prescindere dalla sua sessualità. 

       Mike è nelle stesse condizioni, giapponese, cuoco, anche lui ha una famiglia complicata che li ha rifiutati ed allontanati, i due condividono una storia di mancanze, alcolismo, abbandoni, violenza con la quale devono venire a patti e credere che un cambiamento sia possibile. “Tutto cambia, mi dice. Il cambiamento non è né buono né cattivo. E’ solo cambiamento.” Sono costretti a separarsi, Mike parte per Osaka per assistere il padre morente con il quale non ha rapporti da molti anni e lascia Benson a casa in compagnia della madre Mitsuko costernata per la sua assenza. Seguiremo i due protagonisti rispettivamente nella cucina di Houston ed in un bar di Osaka, sono loro a raccontarsi, le loro voci si alternano nella storia intervallata da flashback sul proprio passato, ognuno col suo carico di incomprensioni, solitudini, abbandoni. 

       Si svelano i sentimenti, si mostra il dolore, ci si avvicina e allontana. I loro rapporti complicati e sfilacciati da mancanza di parole, incapacità di capirsi davvero, segreti e rifiuti, ci fanno capire che fra i due la distanza è solo meramente fisica. Promesse è come un dolce a strati dal sapore intenso ed anche se la questione razziale non è il fulcro della narrazione pervade tutta la storia. 

       Washington rende sulla pagina le complesse implicazioni di un pregiudizio vissuto in un quotidiano contaminato dalla discriminazione, ma butta qua e là cenni sul tanto discusso privilegio bianco e sul pregiudizio razziale, lo fa con noncuranza come se non fosse importante, ma ce lo mostra fortemente radicato e sul coming out non ci sono personaggi schierati pro e contro ma solo indifferenti e negazionisti e ciò ferisce ancora di più. 

        Molte domande senza risposta, ma anche molta vita in queste pagine, relazioni imperfette e scelte irreversibili, uomini e donne che «fanno il possibile» ma qualche volta non è abbastanza, c’è l’amore che cambia e tanti gesti che lo spiegano perché molto spesso le parole mancano o ingannano o non sono quelle più giuste e adatte a piegare le trasformazioni , le esitazioni, i silenzi, i sentimenti. 

       Il giovane Bryan Washington mi ha fatto leggere un libro che mi è piaciuto molto per i personaggi imperfetti , per l’intimità e per le cose che non sono dette ma che si sentono, la sua lingua equilibrata mai banale lo hanno reso serio e delicato. Bravo.

“Mike non mi ha mai promesso niente. Le cose le ha sempre fatte o non fatte. Ha sempre sostenuto che le promesse non sono che parole, e che il significato delle parole dipende solo da come ti comporti.”

PROMESSE di BRYAN WASHINGTON NN EDITORE

 

13 settembre 2022

"Occhiatina a San Pietro e altre fughe “di Enzo Guidi

 

di Elisa Bertoni

       Occhiatina a San Pietro e altre fughe è una raccolta di trenta racconti che colpiscono per l'estro creativo e la fecondità verbale con cui Enzo Guidi gioca con la lingua. 

       Leggere i suoi racconti è come entrare in un fantasmagorico teatro “che ha il languore/ di un circo/prima o dopo lo spettacolo”, per usare le parole di Ungaretti nella poesia I fiumi. A volte sono i personaggi ad imprimersi nella mente del lettore come maschere caricaturali che paiono uscire dalla pagina. 

        E' il caso di Rubino e Frankie del primo racconto, il più lungo ed articolato della serie che dà il titolo alla raccolta. Essi sono tratteggiati con maestria dall'autore tanto che al termine della storia si vorrebbe che le loro avventure continuassero. Appaiono clown un po' svampiti e strampalati, ma nello stesso tempo sognatori determinati, pronti ad affrontare viaggi con mete irreali alla Sussi e Biribissi, degni di Rabelais per le pantagrueliche abbuffate finite in un ben poco edificante ed inarrestabile vomito nel sacro tempio della cristianità a San Pietro. Questa comicità plautina non si esaurisce tuttavia in una grassa risata condita di frivola spensieratezza, perché il clown non esita a trasformarsi in un Pierrot con la lacrima disegnata sul volto nella chiusa elegiaca del racconto.

      Altre volte si entra nella stanza con gli specchi deformanti della memoria, per cui il baccalà lesso può acquistare lo sgradevole sapore di carne di cobra, oppure la deformazione può avvenire nella naturalezza con cui si presenta al lettore un evento tutt'altro che comune: “una mattina io e mio padre decidemmo di portare mia madre dall'esorcista”. 

        C'è poi la stanza dell'illusione per cui una fontana, da simbolo di una attesa concretizzatasi finalmente in esperienza straordinaria, svanisce dando la netta sensazione di non esserci mai stata. 

       Ci imbattiamo infine nella stanza della trasformazione in animale, così cara alla letteratura, da Apuleio a Collodi e Kafka, solo per citare alcuni autori rappresentativi. Nel racconto Licteratu alla Coop, Licteratu, amico scrittore dell'io narrante, ma nello stesso tempo suo chiaro doppio per il “fanatismo istintuale per la scrittura”, “gemello oscuro, ossessivo e importuno eppure così necessario a completare i miei momenti di sconforto” diventa all'improvviso un pipistrello dalla natura ben diversa rispetto al più noto Dracula-Nosferatu. “Licteratu è davvero un pipistrello solare: più ilare che macabro, un pipistrello mediterraneo all'ora del giornale radio e dell'abbronzatura...al tempo del bagno in mare e della caprese. Ilare come il pipistrello del proverbio: mezzo topo e mezzo uccello”.

        Il racconto centra alcuni aspetti fondanti della scrittura di Guidi: innanzitutto la gustosa comicità nel dissacrare i momenti di rito della cultura nazional-popolare. Non secondaria è poi la riflessione sul ruolo dello scrittore. Così come l'alcione di Baudelaire era specchio del poeta, il pipistrello solare diviene simbolo dello scrittore, mezzo topo e mezzo uccello dotato di una doppia natura che lo porta in volo nel cielo, ma col bisogno di squittire sulla terra, apparentemente disadattato all'uno e all'altra, eppure perfettamente integrato nel suo disadattamento, mentre sta per terminare il suo romanzo fra “sibili di metallo fuso e aspri miasmi autobiografici” come una sorta di futurista romantico che si nega quando si afferma. 

         Centrale in questo teatro di racconti sono proprio le parole stesse, che diventano funambolici equilibristi o spericolati trapezisti come aerei che volteggiano nei cieli e possono di colpo precipitare sulla terra. Il flusso di coscienza ben riconoscibile in Blia diviene una sorta di narrativo blob, originato da uno zapping sulle esperienze di vita, che unisce la scelta al caso creando spettacolo. Lo afferma Guidi stesso: “ci sono già state cose così che accadono come parole”. La parola da essere emissione di suono portatrice di significato diventa accadimento, fatto, mentre le cose paiono svaporare in parole. 

       Il binomio cosa-parola diviene così inscindibile in Guidi, dal momento che non c'è parola che non sia cosa e cosa che non sia parola. Non stupisce quindi che i giochi di parole, come quello tra “importanza” e “portanza” nel racconto Festa dell'aria, abbiano la sinistra magia di interagire con la realtà, facendo collassare un aereo. E così pure in Pesce i pesci avevano “pescato” il protagonista ad esagerare, per il fatto che aveva osato pronunciare due parole inutili (guepière e interfaccia), costringendolo a fargli vivere il contrappasso della loro punizione, in un tragicomico dominio ittico sulla presunzione umana: “i pesci che dominavano il mondo col loro sguardo vitreo e allarmante, col loro silenzio sapiente, misterioso e leggero, ora lo condannavano a boccheggiare come un pesce fuor d'acqua, perché lo avevano pescato per l'ennesima volta a fare due parole”. Parole che diventano anche patetico bisogno di pedagogizzare risolvendosi di fatto in incomunicabilità: “Si fermò per essere ascoltato e, mentre parlava, con la punta del piede cominciò a tracciare nella ghiaia bagnata quelle poche linee. Voleva spiegare in modo semplice e cristallino l'ineludibile, l'ineffabile fatalità del limite”. Con le movenze di un neo-Cristo, profeta del nichilismo, il protagonista di Aloigi incorre in una scontata sconfitta perché il bisogno di esprimere l'ineffabile lo rende inascoltato e inascoltabile. Vincere il limite con la parola che è costruita con il limite sonoro o grafico della sua stessa natura è un paradosso che rende i personaggi come donchisciotte imprigionati nella costante “attesa dell'inestimabile, della superiore specialità, della visione più grande e terribile”. La parola e la scrittura restano tuttavia salvezza, in quanto riescono a dare sfogo al rovello dei pensieri che si aggrumano impietosi nella mente dei protagonisti: “E così camminare è quasi un voler fronteggiare il pensiero... canticchiare il proprio rovello in una tiritera lenitiva che regola sordamente passo e respiro, mentre scorrono vicino gli impercettibili pericoli della città torva e repressa, in quel nulla che accade intorno sempre allo stesso modo poco rassicurante”. 

      E parte di una cura è anche la “logorrea nel vuoto” praticata da Bavetto, nell'omonimo racconto: pronunciare il suo nome veniva percepito come “parola-larva alla guida di altre larve di parole”. Bavetto riusciva a curare la paura della vita e della morte con un terrore ancora più grande, quello del silenzio. Per questo il suo trattamento consisteva “nel far parlare le persone fino all'esaurimento” mentre lui rimaneva sempre in silenzio. La sensazione era quella di trovarsi “in caduta libera nella vacuità insopportabile del nulla”. La parola rassicura temporaneamente dalla paura dell'esistenza ma per paradosso sarebbe l'assenza di parola ad essere risolutiva.

       La spettacolarizzazione della sua scrittura si ottiene dunque in molteplici modi, grazie a personaggi caricaturali e a deformazioni della memoria, ad un uso dirompente e vitale delle parole, fino ad una comicità che nasce spontanea nello sguardo ironico e sornione con cui si osserva la realtà ed i suoi costumi: “l'inferno è un caseggiato urbano di prossima demolizione. Occhiaie vuote di finestre, infissi sdruciti su un involucro cadente al fondo di una piazza. Dentro inaspettatamente il centro estetico “Paradiso Fitness” modernissimo ed elegante”. In questa satira dissacrante della modernità non è strano scoprirvi un Dante fruitore della palestra che gioca a palla in modo coatto, trovando lì un suo spietato contrappasso rispetto alla sacralità del suo nome e del suo ispirato viaggio della Commedia. 

       Guidi sa cogliere nella realtà quel contrasto paradossale che la rende risibile, come nel racconto Durren...matt?, in cui l'ilarità da nano boschereccio di un personaggio svizzero, incontrato per caso dal protagonista, crea stupefazione perché nessuno avrebbe potuto crederla in sintonia con l'“austera fama letteraria” di Ignazio Silone, di cui dichiara di essere molto amico.

        Non stupisce dunque quello che si legge nel racconto Graffito di Udo: “Nonostante il dramma, lo spettacolo continuava”. Se la morte di Tenco non fermò il festival di Sanremo, niente, nemmeno l'assurdità della vita, potrà fermare la scrittura-spettacolo di Guidi capace di creare racconti che con la carica eversiva di un sagace umorismo, con l'uso sapiente e funambolico delle parole hanno il potere di interrompere la percezione di insensatezza che è l'esistere. L'importante, come si legge In cella, è “scrivere tutto”. La ricerca di una narrativa è un imperativo irrinunciabile per l'autore: “scrivere tutto”, una follia necessaria alla vita, una prigione che libera.

Enzo Guidi. Occhiatina a San Pietro e altre fughe. Maria Pacini Fazzi.Euro 15