03 settembre 2009

da "Dialoghi con Leucò" di Cesare Pavese


di Emilio Michelotti

UN GIOCO FRA L’ESSERE E IL NULLA
Emilio Michelotti ha liberamente tratto questa sorta di poemetto
dai Dialoghi con Leucò di Pavese, un capolavoro del ‘900,
una rivisitazione, un rovesciamento di alcuni miti greci.
L’autore dello scempio è cosciente del sacrilegio compiuto
ma, paveseanamente, ha tirato dritto con caparbietà.



PROEMIO

Sulla terra ormai fatta pietosa si dovrebbe invecchiare tranquilli,
di storie senza giustizia e pietà, dei vecchi destini, nulla rimane.
Rimane il torrente, la rupe, la nuvola, l’orrore. Rimangono i sogni. Ogni cosa ha un destino.
Ma allora gli dèi che ci fanno? Vennero tardi, il mondo è più vecchio di loro.
Già riempiva lo spazio di sangue e godeva, prima che il tempo nascesse.
La bestia e il pantano eran terra d’incontro di uomini e dèi.
Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?

La sorte dell’uomo è mutata. Altre mani ora tengono il mondo.
Non puoi più mischiarti alle ninfe delle polle e dei monti,
alle figlie del vento, alle dee della terra. E’ mutato il destino.
Faranno di te come un’ombra, ma un’ombra che rivuole la vita e non muore mai più.
Tutti distrusse la smania di potere ogni cosa. Che per nascere occorre morire,
lo sanno anche gli uomini. Non lo sanno gli Olimpici, perché non esistono: sono.

NE’ L’UNO NE’ L’ALTRO
E’ un mattino d’estate. Un ragazzo si bagna, si tuffa e rituffa.
Male gli prende ed annega. Dovrà attribuire agli dèi la sua fine,
oppure il piacere goduto? Né l’uno né l’altro. E’ accaduto qualcosa,
cui daranno poi un nome gli dèi. Così ogni volta che il caos trabocca alla luce.
Dove finisca sgomento e cominci la fede è difficile dire.
Non sarà meglio, ai mortali, finire così, che nella bestia incappare,
o nell’albero, o bue divenire che mugge, serpente che striscia, fontana che piange?

ARTEMIDE: IL SELVAGGIO E IL DIVINO
Tu sai cos’è l’orrore del bosco quando s’apre una radura notturna?
Quando le cose escon dal buio, selvagge, intoccabili, un fiore è come una belva,
non ha nome, è divino, terribile.
Non c’è dio sopra il sesso. C’è la bacca, c’è l’urlo, la morte, la terra vorace,
la solitudine, l’acqua. Il selvaggio e il divino cancellano l’uomo.
Puoi dire che Artemide abbia dietro di sé, nel pantano, lasciato la voglia bestiale,
l’informe furore sanguigno che l’ha generata? La selvaggia ha un riso breve,
un comando che annienta. E nessuno le ha mai toccato il ginocchio.

UN EGEO TUTTO INTRISO DI SPERMA E DI LACRIME
Oh, Saffo, sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte.
E’ morire a una forma e rinascere a un’altra. E’ accettare, accettare, se stesse e il destino.
Ma non senti il tedio, l’inquietudine del mare? Qui tutto macera e ribolle senza posa.
Ricorda chi nacque quaggiù, quella che non ha nome, l’angosciosa,
che sorride da sola: il mare è sua sostanza e suo respiro.

PREDESTINATI ALLA SCELTA
Vale la pena fare una cosa ch’era già fatta quando ancora non c’eri?
Vorrei essere il più sozzo e il più vile degli uomini, purché
avessi voluto quello che ho fatto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro.
E’ febbre che si chiama destino, il timore, l’orrore.
Nulla eravamo: anche le voglie del cuore, il sangue, i risvegli
sono usciti dal nulla. Il desio di scampare al destino
è destino esso stesso, o Edipo.

GLI UCCISORI DEI MOSTRI VERSARONO SANGUE FRATERNO?
Ma gli dèi sono giovani, quasi come te, uomo. Quello
fu un mondo di mostri e del caos, Prometeo? Dei Titani e degli uomini,
delle belve e dei boschi. E’ il mondo di lotta e di sangue che ha fatto chi sei.
Dio è sempre chi vince. Finché l’uomo-titano combatte e tien duro
può ridere e piangere. Se pietà si fa gesto, questa è vittoria:
salvare gli altri a sue spese. Tu sei tutto nel gesto che compi.
Voi sarete i Titani, tra poco, voi mortali, o immortali, non conta.

SBRANARE IL DIO, FARSI DIO

Ciò che è stato sarà, ma Orfeo non sa della morte che farsi.
Cercava un passato che Euridice non ha. Su ogni foglia intravide
un barlume di cielo. Più nulla importò di colei che seguiva. Cercava piangendo
non lei ma se stesso. Si ascoltava. Non ebbrezza travolge la vita, né morte
ci rende più umani. Si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare
un destino. Però non si vince la notte, si perde la luce.
Purché le donne di Tracia non sbranino il dio

LA VIOLENZA E IL SACRO

Se l’Uomo-lupo fosse tuo simile, non mancherebbe che l’urlo
e rintanarsi nei boschi. Avremmo dei giorni che, se il dio ci toccasse,
saremmo alla gola di chi ci resiste. Sole, a salvarci, le mani e la voce.
Ma non avremmo timore del sacro, né d’altro che uguaglia ai signori del cielo,
speranze e rimorsi svaniti. Quello che prima era scelta, era voglia,
ti si scopre destino. D’un tocco leggero t’inchioda laddove sei giunto.

Il sacrificio: fanno bene i padroni a mangiarci il midollo

Bagna e spruzza, ragazzo. Basta il vitello ucciso dai ricchi. Se piove, piove per tutti.
Se una volta bastava un falò per far piovere, un vagabondo bruciato
per salvare un raccolto, quante case e padroni bisogna incendiare, quanti
per strade e per piazze ammazzarne, prima che torni giustizia e per dire la nostra?
I padroni e gli dèi son fatti così, bisognava ammazzare ogni tanto qualcuno per farli godere.
Ora non ne han più bisogno. Siamo in tanti a star male che gli basta guardarci.
Fanno bene gli dèi a lasciarci patire.

L’ORIZZONTE DELLA CADUCITA’
Immortale è chi accetta l’istante, chi non teme la morte, chi non spera di vivere.
Lo sono i vecchi dèi che il mondo ignora, sprofondati nel tempo come pietre nella terra.
L’immortale Calipso di morire non spera, né spera di vivere. Quasi non resta
di lei che la voce del mare e del vento. L’isola vibra di rimbombi marini
e di stridi d’uccelli. C’è nell’aria un arresto, un’antica tensione, una presenza scomparsa.
Ma Odisseo non sfugge al rimpianto, ha portato un’altra isola in sé, mutata,
perduta, in silenzio, e racchiusa nel fondo.

Oltre il tempo, si vive. Senza ricordi come la lepre,
il lupo, il cervo. E si fugge, s’insegue, sempre.
E’ il vivo crepuscolo di un mattino perenne, una luce
che vien dall’interno, un vigore non intaccato dai giorni. Che cosa
può far solitudine in questo inumano silenzio? Delle prugne fra il verde
più azzurra è quest’acqua. Ti sciogli in stille e brusii, nella voce
del lago, nei ringhi del bosco. Rinato, il fuggiasco guarda la quercia
e nemmeno sa se esiste, né l’oggi aggiunge qualcosa al suo ieri.
Sente il bisogno di stringere a sé un sangue caldo e fraterno.
O Diana selvaggia, concedigli questo!

INFANTICIDA PER TROPPO AMORE

C’è una verginità delle cose che più del rischio spaventa: le vette dei monti, il mare profondo.
Era giovane il mondo, giorni come chiare mattine, notti
di tenebra spessa. Di volta in volta, i prodigi eran mostri, erano fonti,
erano uomini o rupi. Violarono i monti, varcarono il mare,
distrussero mostri. Ed uno vide i suoi figli sacrificati da madre furente.
Medea non piangeva. E sorrise soltanto quel giorno. Giasone
pretese giacere con lei, la maga. S’accorse poi che aveva a che fare
con carne mortale e allora, altrove cercò di essere dio.

IL DIO UCCIDE PER GIOCO

A Tebe nacque, il più giovane di tutti gli dèi. E’ un dio di gioia.
Chiunque lo segue lo acclama. Uccide ridendo. Lo accompagnano
i tori e le tigri. La sua vita è una festa crudele. Chi gli resiste s’annienta.
S’incontra nei vigneti a costa lungo il mare, nell’ora lenta
che la terra dà il suo odore. Un odore rasposo e tenace, tra il fico e il pino.
Quando matura l’uva, e l’aria pesa di mosto, saltano capre
tra il bosco e la vigna. Sulle cime, di notte, compaion le stelle.

LA CADUTA DEGLI IDOLI

Questo figlio del monte che comanda col cenno, non è più
come i vecchi signori – la Notte, la Terra, il Cielo o il Caos. C’è una legge e una mente.
A te piace che lasci le vette e vada a farsi uomo tra gli uomini? Che si compiaccia
di vigne, donne e città? Non sarebbe signore se la legge che ha fatto non potesse interromperla
Dimentichi forse che visse nei tempi fuggiasco su un’isola a mare, lì morì e fu sepolto.
Prima l’uomo, la belva e anche il sasso erano dio. Ci voleva la fuga, la grossa empietà
del confino fra gli uomini, quando ancora era bimbo e poppava alla capra; lo star
fra le belve, le parole e le leggi dei popoli, il dolore la morte e il rimpianto.
Il bambino rinato divenne signore vivendo tra gli uomini.
Non essendo più il mondo divino, la parola di chi sa di patire
e si affanna e possiede la terra, rivela le sue meraviglie, ama violare i silenzi.
Non sono che poveri vermi, costoro, ma tutto fra loro è imprevisto e scoperta.
Si conosce la bestia, si conosce l’iddio, ma nessuno sa mai il fondo dei cuori.

L’ETERNO CICLO DEL GRANO E DEL VINO

Senza i mortali che cosa sarebbero i giorni. Ciò che da loro è toccato
tempo diventa. Diventa azione. Attesa e speranza. Anche il loro morire è qualcosa,
come i vigneti che han saputo piantare su questa collina. Di brutti
pendii sassosi han fatto un dolce paese. Dove spendono fatiche e parole,
lì nasce un ritmo, un senso, un riposo. Chi direbbe che nella loro miseria
abbiano tanta ricchezza? Per loro io sono Demetra, un monte selvoso e feroce,
sono nuvola e grotta, signora son dei leoni, di biade e di tori. di rocche murate,
la culla e la tomba, la madre di Core. Dovremmo aiutarli di più, essergli accanto
nella breve giornata che godono. Io non so come, ma i nostri doni
diventano ambigui. E anche tu, Dioniso, fai scorrere del sangue innocente.
Tutta la loro ricchezza è la morte, e il sangue è come il frumento
e il vino con cui li nutriamo, esaltiamo. Icario questo ha pensato: il vino è il mio sangue.
Vendemmiava, pigiava e svinava come un folle. Per primi, su un’aia,
vedono schiumare del mosto. Ne spruzzan le siepi, i muri, le vanghe, poi
sbranano Icario al posto di un capro, sotterra lo mettono
perché nasca altro vino. Lui stesso lo vuole, e la figlia
s’impicca nel sole come grappolo d’uva.

Dobbiamo insegnare agli uomini questo racconto, insegnargli
un destino che intrecci col nostro. Così moriranno e avranno vinta la morte,
come il grano e la vite discendon nell’Ade per nascere.

IL DILUVIO

Nessuno, come le bestie selvatiche, sa capire che muore e guardare la morte.
Ci diremo che non tutti potremo sparire, se no che senso l’essere nati avrebbe?
Ed anche diremo che se violata fosse la vita, bastato sarebbe quello a punirci.
Ma è proprio questo il diluvio: morire e sapere che non resta nessuno a saperlo.


NEL TEDIO, A UN PASSO DALLA FELICITA’

Se penso a una cosa passata, mi pare di esserlo stato, contento.
Eppure raramente lo sono: esistenza, noia vuol dire e fastidio.
Sola ricchezza è dar nome alle cose che le fanno diverse, eppur familiari
come una voce che da tempo taceva. E’ solo un istante, simile
a tanti del passato ma inedito, a farmi d’un tratto felice. Potrò mai fermarlo?

Guardo lo stesso ulivo degli anni, ed è come amico che dice d’attesa parole.
A volte di un passante lo sguardo, la pioggia che insiste da giorni, d’uccello
uno stido, o nube di certo già vista. Quell’attimo rende la cosa un modello.

Ma gl’istanti non sono la vita. Volessi ripeterli perderebbero il fiore.
Stanno a due passi da noi la noia e le cose immortali Il sacro e il divino
sono nel letto, sul campo, davanti alla fiamma, insieme con noi.

EPILOGO

Chi dice il vero s’accontenta. Siamo noi a mentire
ché non abbiamo mai visto del Centauro il mantello
o sull’aia il colore del sangue d’Icario.
Io, per me, credo l’albero e il sasso profilati nel cielo
fossero dèi fin dall’inizio. E che furon prima
le voci di terra, fonti, radici, le serpi.
Se il demone congiunge la terra col cielo,
deve uscire alla luce dal buio del suolo.
Se mentirono quelli che videro cose tremende
e nemmeno stupivano, anche tu, quando dici
“è mattino” o “vuol piovere”, hai perduto la testa.
Non chiedo se furono prima le parole o le cose.
E se credo ai corpi imbestiati, ai sassi viventi,
ai sorrisi divini, a parole che annientano,
credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito.


Cesare Pavese – Dialoghi con Leucò ( 1947)– Introduzione di Sergio Givone- 1999 - Einaudi