26 aprile 2025

"Morire di pena" di Alessandro Trocino

 


In carcere si muore

di Giovanna Baldini

      In carcere si muore per suicidio, per disattenzione, indifferenza o superficialità di quel corpaccione che è l’istituzione carceraria. Quasi mai di morte naturale.

        Lo spiega bene il libro di Alessandro Trocino, Morire di pena. Che è un resoconto dettagliato di dodici casi di suicidi, o presunti tali, avvenuti nelle prigioni italiane negli anni recenti, dal 2020 al 2024.

Lo scrittore, che è anche giornalista del “Corriere della Sera”, espone la drammatica storia di dodici persone perlopiù giovani, che, per svariati motivi, in gran parte legati alle difficoltà di una vita familiare complicata e spesso insostenibile, sono stati condannati per reati di tossicodipendenza, spaccio, furto e rapina. L’esperienza del carcere per alcuni di loro ha acuito le fragilità psichiche di queste persone, alcune molto giovani o appena maggiorenni, spingendole dopo molte, moltissime richieste di aiuto rimaste inascoltate, al gesto estremo.

       L’autore, oltre alla gravità delle vicende raccontate, alcune delle quali non hanno ancora concluso l’iter giudiziario, mette in evidenza non solo le condizioni pessime in cui versano gli istituti penitenziari italiani, ma anche l’impermeabilità della struttura stessa, immodificabile del sistema burocratico. L’ottusità di chi ci lavora, la ferma convinzione, nel rapporto crudele di custodi e custoditi, di punire, anche in modo irrazionale e violento, chi è condannato a scontare una pena che dovrebbe “tendere alla rieducazione”. Tutto ciò toglie, a chiunque legga questo libro, ogni speranza di miglioramento del sistema carcere, come è oggi.

      Così si viene a sapere di magistrati di sorveglianza disattenti e di altri sensibili e presenti, di dirigenti che negano la verità dell’accaduto in nome dell’istituzione, di luoghi in cui l’assistenza psichiatrica è garantita tre ore alla settimana e in altri una volta ogni tre settimane. Insieme a tale situazione desolante del sistema giudiziario italiano, spicca forte la vita difficile delle persone raccontate, la loro fragilità, “era fragile come un cristallo di Boemia”, dirà il magistrato di sorveglianza di Donatella (p.124), e l’impossibilità fisica e psichica di affrontare l’esistenza da sole. E su tutto il dolore inconsolabile delle famiglie, delle madri, quelle straniere soprattutto, quelle lontane: come la madre di Hafedh che in Tunisia si era separata dal figlio, venuto a cercar fortuna in Italia. Era un bravo ragazzo, l’aveva trovata la fortuna, aveva mandato anche i soldi alla madre per comprare una casetta, ma in un carcere italiano, non ancora trentenne ha trovato la morte.

       Un libro, questo di Alessandro Trocino, che esce in un momento critico, in cui l’attenzione di molti, intellettuali e semplici cittadini è rivolta alla condizione delle persone detenute, condizioni disumane e civili, sanzionate ripetutamente dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, dovute al sovraffollamento ormai ingestibile e di grave pericolosità. Le ragioni di questo degrado sono da attribuire a un governo che mette al primo posto una politica securitaria, al di sopra di ogni altra possibilità di soluzione: a oggi, sono 25 i suicidi dei detenuti dall’inizio dell’anno.

Quindi le storie di vita raccontate in Morire di pena sono oltremodo interessanti da conoscere e direi necessarie. Quella del carcere è, infatti, una realtà sconosciuta, oscura e nascosta. Che tende all’oblio.

 Alessandro Trocino, Morire di pena 12 storie di suicidio in carcere

Editori Laterza, 2025, pp 163, euro 14,00

24 aprile 2025

" Perché leggo? Perché scrivo?" di Luciano Luciani

 

 


di Luciano Luciani

       Non c’è occasione nel corso della giornata, in cui mi capiti di poggiare gli occhi su qualcosa di scritto o stampato, che io non rivolga un pensiero grato e reverente alle buone suorine dell’Ordine delle Adoratrici del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo. 

      E come mai un agnostico inveterato, per non dire di peggio, come chi scrive queste note, dovrebbe essere riconoscente a religiose lontane nel tempo e nello spazio? Perché a Roma, nella prima metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, fu proprio nel loro piccolo asilo/scuola elementare / più un fazzoletto di giardino tutto aiuole e fiori davanti alla basilica di Sant’Agnese fuori le mura sulla via Nomentana, che imparai e leggere e a scrivere… Fu un miracolo! Un’Epifania! Come dare la vista a un cieco… Io, allora, ho visto la luce e mi sono gettato indiscriminatamente su qualsiasi cosa di scritto attraversasse la mia esistenza e da allora non ho più smesso. 

      Iniziai dalle sterminate praterie dei fumetti – “Il Corriere dei Piccoli”, “Topolino”, “L’Intrepido”, “Il Monello”… -  per poi passare al giornale quotidiano ”Il Paese”, che portava a casa mio padre tornando dal lavoro, e quindi ai libri… Ho memoria del primo libro, mio tutto mio, perché acquistato, ancora fanciulletto, mettendo da parte i quattrini necessari, entrando in una libreria, scegliendo autore e titolo: I figli del capitano Grant di Jules Verne… Forse di quel romanzo non capii proprio tutto tutto, ma conservo il ricordo di una percezione ampiamente positiva circa quel piccolo evento personale e di come, da allora in poi, la lettura sia sempre stata un atto del tutto individuale e anarchico: qualcosa di assolutamente mio, altrettanto assolutamente privo di metodo e sistema. 

      Attività “in solitaria”, quella della lettura, che, praticata e ripraticata nel tempo, con ogni probabilità ha finito per influire anche sul carattere, spiegandone incertezze, timidezze, introversaggini e pure una certa resilienza ai guasti della vita. Concordo con Montesquieu: “Non ho mai provato un dolore che un’ora di lettura non abbia contribuito a dissipare”.

     Atto necessariamente più faticoso la scrittura, e disagevole. Bisogna abituare il polso e la mano, tenerella, alla fatica del vergare carta… Ed ecco, allora, l’allenamento costituito da pagine e pagine di puntini, astine, quadratini, cerchietti, casette… Azioni noiose, penose addirittura, ma propedeutiche all’arte antichissima di esprimere idee con segni grafici convenzionali. Mi piace scrivere: l’ho sempre fatto. Percepisco che il mio cervello comunica meglio con le mani che con la lingua. “Perché la carta è un filtro, una carezza tra le mie parole e gli occhi dell’altro. Perché mi odio meno scrivendo che parlando Perché mentre scrivo posso correggere, e scoprire le parole a una a una e nulla m’interrompe mentre vado loro incontro” (Héctor Abad Faciolince, scrittore colombiano contemporaneo).

17 aprile 2025

" Free Love" di Tessa Hadley

 


di Giulietta Isola

“Era un venerdì di fine estate così bello che quella sera, nel sedersi al tavolo da trucco, Phyllis Fischer lasciò aperta la finestra sul giardino. Phyllis era china in avanti, in sottoveste, i gomiti appoggiati sul tavolo da toilette per guardarsi meglio, e avvertiva la brezza lasciva sulle sue spalle e l'odore di sapone sulla pelle nuda. A quarant'anni possedeva ancora una fascino vibrante e inquieto.”

       Questo incipit è scritto da un'autrice sapiente, attenta a dettagli simbolici che fanno capire ben più di quanto venga detto. Phyllis abita in un quartiere borghese, è il risultato dell'ambiente in cui vive, che la condiziona fortemente e la rende altrettanto prevedibile e rassicurante, non è affatto un caso che Tessa Hadley ci presenti prima l'ambientazione rispetto alla protagonista. Ma quella sera il mondo di Phyllis sta per cambiare drasticamente. Lei è "solo" la moglie di Roger, madre di Colette e di Hugh, ha scelto, come tante altre donne, di badare alla casa e crescere i figli, i suoi impegni sono sempre mondani. 

      L’ospite a cena in quel venerdì del 1967 è Nicholas Knight, Nicky, il figlio ventenne di cari amici di Robert. Un figlio del suo tempo, poco simpatico, contrario al sistema e vagamente comunista, aspirante giornalista e scrittore. Prima della fine della serata Phyllis e Nicky si scambiano un bacio senza rendersi veramente conto di ciò che sta accadendo. E’ la premessa di una svolta epocale, non una storia clandestina; ma la rinascita di Phyllis, per la quale Nicky è solo la chiave che apre la prima porta per un mondo nuovo, dove la protagonista potrà assistere e anche prendere parte a una maggiore libertà dei costumi, alla revisione dei ruoli familiari tradizionali, alla messa in crisi di tutte quelle maschere sociali che hanno tenuto in piedi salotti, cene, ritrovi borghesi. 

         Phyllis se ne va di casa, si adatta a vivere dove e come capita, assume nuove abitudini. La rinuncia alla tranquillità borghese, il distacco dalla famiglia sono grossi cambiamenti dettati forse da egoismo, illogicità, irrazionalità che la donna deve compiere da sola. La Phyllis cambiata, trasformata, povera ma felice e soprattutto autentica, libera da un incongruo perbenismo, mi è diventata molto simpatica. Dall’altra parte Nicky, che vuol essere anticonformista , si dimostra immaturo, egoista, ipercritico, molto più imbrigliato di Phyllis. E lei, un po' amante e un po' madre, è comprensiva, lo lascia sbagliare anche se è gelosa delle altre donne e teme il momento in cui lei sembrerà troppo vecchia agli occhi di Nicky. 

       Tutti questi elementi sono trattati da Hadley con profondità e rendono Free Love un gran bel romanzo scritto benissimo e degno di essere letto. Ma molto significativa e preziosa è anche l'attenzione rivolta dall'autrice agli altri personaggi: seguiamo Roger, Colette e Hugh nel loro reagire all'assenza di Phyllis, nel loro ricominciare da soli. E scopriamo anche i loro segreti. Sì, perché anche l’ insospettabile Roger ha nascosto per anni una verità sconvolgente. 

       E proprio sul non detto, sui bisogni taciuti, sulle frustrazioni rabberciate in qualche modo fino all'implosione che Tessa Hadley costruisce un romanzo che incanta, disincanta e poi di nuovo lascia storditi. Una lettura contro le convenzioni sociali per sentirsi, finalmente, liberi di essere....

FREE LOVE di TESSA HADLEY BOMPIANI EDITORE

 

14 aprile 2025

"Ai margini di me stessa" di Marta Cozzoli

                                                              foto di Gianni Quilici
di Gianni Quilici

Marta Cozzoli è stata un'insegnante di Lettere a Lucca di grande competenza didattica che ci ha lasciato nel gennaio del 2023.
Con questo esile libro "Ai margine di me stessa",  Marta Cozzoli si rivela poetessa vera, capace di colpire cuore e intelligenza con una poesia ricca di straficazioni formali e contenutistiche.
 

          "Ai margini di me stessa" racconta, infatti, sia il perdersi di un mondo contadino, dalla Cozzoli tanto amato, che la solitudine e il dissolvimento del proprio io nella società post-moderna, sull'onda di tutta la più grande letteratura contemporanea. E lo fa attraverso versi sobri nel lessico ed essenziali nella misura, che si scandiscono secondo una musicalità centellinata parola per parola, nella suggestione forse della lezione del primissimo Ungaretti, ma con una leggerezza morbidamente femminile. 

        Una poesia intensamente narrativa, percorsa da immagini limpide, che diventano talvolta grandi metafore sul senso dell'esistenza e nello stesso tempo illuminanti aforismi. Pensiamo a versi come questi che sintetizzano felicemente l'evidenza e la velocità dell''immagine con la profondità intellettuale del concetto sotteso :

 "La traccia delle cose/ si vede solo/ nel lampo breve/ di una luce/ cruda/".

La visione del mondo che ne scaturisce è disillusa, ma senza alcun compiacimento, nuda e dialetticamente aperta alle esperienze e sorprese del mondo, come in questi magnifici versi:

 "Voglio vestirmi/ di parole,/ cogliere persino/ l'ombra/ dei fantasmi".
 

        In definitiva con Ai margini di me stessa ci troviamo di fronte ad un piccolo-grande libro di poesie limpide e armoniose, realistiche e metaforiche, narrative e filosofiche, che meritano di andare oltre la nostra città, che meritano di rimanere.                                          

 


Marta Cozzoli "Ai margine di me stessa. il filo, pagg. 65, € 12,00.

01 aprile 2025

" Taji, una donna ribelle" di Inaam Kachachi

 


L’insostenibile nostalgia dell’esilio

di Giovanna Baldini

Personaggi e interpreti:

Taj al-Muluk, irachena, in esilio;

Widyan, irachena, in esilio;

Mansur al-Badi, palestinese, in fuga da Gerusalemme, in esilio per sempre.

                              Una storia struggente, quella raccontata in Taji, una donna ribelle di Inaam Kachachi, di due donne che la grande Storia fa incontrare in esilio. In fuga dal loro Paese perché le guerre, le rivoluzioni, le ingerenze delle potenze straniere nel periodo postcoloniale del “secolo breve” impediscono una vita pacifica e un minimo di benessere.

       Attraverso percorsi personali complicati, dopo aver viaggiato nel mondo, da Baghdad fino a Karachi, Taji, la giornalista bellissima e libera arriva a Parigi, si ferma, cambia identità e prova a costruirsi una vita francese accanto a un uomo importante che non ama, ma che la protegge.

      L’altra donna, Widyan, esule in Europa, arrivata anche lei a Parigi, con gravi problemi di adattamento per la sua ipoacusia, un giorno, per caso, incontra quella Taj al-Muluk che diventerà l’unico punto fermo della sua vita fino alla vecchiaia. Subito si riconoscono, due donne arabe, irachene, di età e formazione diverse, di carattere profondamente differente:  diventano amiche. Per tutte e due l’altra è una zattera di salvezza e in un rapporto difficile, quasi di amore-odio, non si lasciano più.

       Si raccontano il passato: un po’ vero e un po’ favoloso e incredibile quello di Taji, donna ribelle nel mondo musulmano degli anni Quaranta del secolo scorso, annunciatrice radiofonica a Baghdad, intervistatrice di importanti politici  del tempo, affascinati dalla sua figura.

       Molto scarno, rimosso doloroso, impossibile da condividere, invece, il passato di Widyian, la quale soprattutto ascolta incantata i racconti  straordinari di Taji, che un tempo era diventata la protetta del re Faysal  omaggiata e rispettata dai funzionari di corte e anche dal popolo.

       Mediante i racconti della ormai signora Champion, già avanti nell’età, e i ricordi cartacei, conservati religiosamente, il lettore viene messo a conoscenza di tutti i passaggi politici dell’Iraq dalla monarchia alla rivoluzione di Saddam Hussein. È la distruzione del mondo familiare, sociale e culturale di Taji che apprende la notizia a Parigi e perde per sempre la speranza del ritorno.

       Nel libro la donna diventa così l’emblema di tutti coloro che sono stati costretti a lasciare la propria patria per stravolgimenti politici. Quel mondo medio-orientale che anche oggi è in subbuglio e non dà alcuna garanzia di stabilità.

       Quasi ogni giorno le amiche si vedono, si incontrano per un tè, intanto parlano  e passano la giornata. Dalle loro chiacchiere il lettore percepisce lo strazio di una vita senza più radici identitarie, senza futuro, dove l’unica cosa  che rimane è la loro amicizia.

       Taji prova a vivere di nuovo, si sposa, ha due figli, il suo forte carattere la sostiene, ma ha perso il grande amore, quello che sembrava a portata di mano, Mansur al-Badi, e mai dimenticato.

      Dall’altra parte del mondo, infatti, a Caracas, ormai residente con moglie e figlie e un buon lavoro, egli lascia passare i giorni dell’esilio, come se aspettasse di rivedere da un momento all’altro l’amore della sua vita, l’unico, Taji, che il destino ha separato, inaspettatamente.

     Il protagonista maschile, un po’ in ombra, lontano e in disparte, è, però, sempre presente nelle conversazioni delle amiche, come richiamo del cuore. Torneranno a incontrarsi i due amanti, che amanti non sono mai stati?

     Widyan, invece non ce la fa a vivere in esilio. Rinuncia per sempre all’amore, alle sue passioni, praticamente alla vita, dopo che in patria episodi violenti l’hanno allontanata dal fidanzato.

     Reale è solo il mondo dei ricordi, quello vissuto prima; irrealizzabile la speranza del ritorno a casa; inutile il passare del tempo. Per i tre personaggi la vita vera è altrove.

     Taji e Mansur si scrivono lunghe lettere d’amore e progettano di incontrarsi, Widyan a ogni angolo di strada vede Yussuf che l’ha raggiunta a Parigi e la ama ancora.

       Ma il romanzo non descrive soltanto il dramma della condizione degli esuli, è anche un resoconto puntuale e dettagliato della vita irachena degli anni Cinquanta del secolo scorso. La vita culturale è rappresentata dalla figura della giovane giornalista Taji, donna indipendente e ribelle, mentre quella sociale e politica si scopre attraverso i cambiamenti che i protagonisti devono affrontare: il licenziamento, la chiusura della redazione…

      Su piani diversi in Paesi diversi, Iraq, Iran, Palestina la scrittrice Inaam Kachachi narra i grandi travolgimenti politici che sconvolsero quel mondo nella seconda metà del secolo scorso. E si arriva fino alle soglie del Duemila, quando i nostri personaggi, ormai vecchi e canuti continuano a sognare.

     Il libro è anche uno specchio dell’anima dei protagonisti.

    Considerazioni intime, riflessioni esistenziali, rimandi e citazioni della antica poesia araba o del Corano sono espresse con un linguaggio poetico di una sensibilità a noi sconosciuta risultando  molto coinvolgenti.

    Voglio dire che immergersi nella lettura di opere straniere e, in questo caso, guardando verso il vicino medio-oriente fa bene all’anima e apre la mente.

 

Inaam Kachachi, Taji, una donna ribelle, Collana Gli altri, traduzione dall’arabo di Elisabetta Bartuli, pp. 360, euro 20,00