10 marzo 2009

"Acido solforico" di Amélie Nothomb


di Gianni Quilici


Amélie Nothomb parte da una situazione presente nei paesi opulenti: il reality televisivo e la partecipazione (emotiva) del pubblico; e lo estremizza.
Immagina, infatti, che questo si svolga in un campo di concentramento, che abbia come protagonisti kapò ed internati, rastrellati nelle strade di Parigi, che non solo siano trattati duramente, ma che vengano uccisi davvero.
L'idea del reality non è originale, lo è invece avere scelto il campo di concentramento, ossia la Memoria più atroce e terribile, che il '900 dovrebbe aver lasciato in eredità nella coscienza di ciascuno.

Qui la Nothomb gioca su due elementi:
da un lato sui rapporti nel campo di concentramento tra vittime e carnefici e sui rapporti delle vittime tra loro; dall'altro sui telespettatori, (e l'opinione pubblica), visti attraverso l'audience.

Il mondo dei telespettatori, che diventa la società tout court, ha soltanto un volto, non tante sfaccettature.
Il pubblico -ci fa capire la Nothomb- ha bisogno di identificazione-partecipazione nello spettacolo e, poiché l'identificazione-partecipazione si consuma rapidamente, ha bisogno di stimoli sempre più forti, che lo eccitino, che lo sorprendano fino a coinvolgerlo direttamente. Quindi quanto più lo spettacolo è atroce e diretto tanto più sale l'audience. Il pubblico tuttavia non si riconosce, condanna gli altri (spettatori), si fa innocente.

Quella che ne viene fuori è una rappresentazione ideologica o, se vogliamo, è il sentimento che la Nothomb proietta su una società la cui complessità si riduce a tal punto che la fa diventare completamente omologata, incapace, cioè, di esprimere individualità, rivolta.

Dove invece la scrittrice scava (psicologicamente) è nei rapporti che si intrecciano nel campo di concentramento. Due sono i protagonisti, intorno ai quali scorrono gli altri: la bellissima Pannonique (definita nel campo CK2 114), colei che cerca, sperimentando(si), di conservare intatta la sua purezza, autonomia di giudizio e che, per questo, catalizza in sé amore, ammirazione, consenso, ma anche gelosia, risentimento; e la kapò Zdena, che trova la forza della propria identità nella sua capacità istintiva di picchiare, insultare, imporre, non provare pietà, e, per questo, viene odiata da spettatori e internati, ma che, innamorandosi ossessivamente di Pannonique, cambia e con un colpo di scena.....

Acido solforico è un romanzo che nasce da un'ideologia: l'individuo può essere oggi facilmente manipolato, senza che lo creda e lo pensi; e tuttavia esiste anche una minoranza, che vive criticamente... in molti casi la sua impotenza.
Quanti oggi in Italia rifiutano, infatti, “Il grande fratello” o similari non solo per ideologia, ma perché non vi provano piacere? Una minoranza forse, ma larga.

Ecco il limite che trovo nel romanzo di Amélie Nothomb: che Pannonique non abbia quella complessità simbolico-dialettica, che possa condensare efficacemente questo “rifiuto”, pur avendo una sua credibilità e coerenza; ma soprattutto manca una figura del “male”: non lo sono né quella ingenua della kapò, poco credibile nella sua conversione, né quella diabolica televisiva (come lo era, per esempio, in Truman Show, Christof, il creatore dello show, colui che dirige)

Un romanzo che ha tuttavia una sua originalità con alcuni punti di rilievo (Pannonique che grida il suo nome, Pannonique che accusa gli spettatori di essere loro i veri colpevoli, gli assassini.

Amélie Nothomb. Acido solforico. Traduzione di Monica Capuani. Pag. 131. Voland. € 13,00