15 aprile 2009

Giorgio Scerbanenco e la “scuola dei duri” all’italiana


di Luciano Luciani


Il romanziere che portò il poliziesco italiano all’altezza dei problemi complicati, difficili, inediti per il nostro Paese, della società industriale, facendo compiere a questo popolarissimo genere letterario un veloce e definitivo balzo in avanti, era… un russo. O meglio un ucraino. Si chiamava Giorgio Scerbanenco ed era nato a Kiev, nel 1911, da padre russo e madre italiana; la rivoluzione sovietica, in cui era morto il padre, aveva costretto la sua famiglia a trasferirsi in Italia. Così Scerbanenco vive prima a Roma, poi a Milano dove lavora come operaio: prima fresatore, poi magazziniere, fattorino… Autodidatta, studia di notte, legge moltissimo e ha modo di farsi una cultura frequentando la biblioteca milanese del Castello Sforzesco. Forse è proprio questa formazione accidentata e realizzata tutta all’interno di ambienti culturalmente deprivati che lo spingerà a scrivere in maniera piana, cordiale, accessibile a tutti.

All’inizio sono storie d’amore ambientate nell’America degli anni Quaranta e pubblicate su riviste femminili. Lavora per i periodici Rizzoli e collabora ad alcuni diffusi periodici “rosa”: “Novella”, “Bella”, “Annabella”, per cui tiene una rubrica diventata famosa, La posta di Adrian dove i lettori, in maniera diretta, esplicita gli espongono i propri casi personali… E sono spesso i casi difficili di vite difficili, quelle della gente comune che tenta, attraverso le lettere inviate a uno sconosciuto redattore di un settimanale, di esprimere la propria angoscia, se non urlare la propria rabbia. E’ a contatto in questi materiali densi, veri, caldi di vita vissuta e di dolori sofferti che Scerbanenco matura il nucleo della propria ispirazione “noir”, una modalità del racconto poliziesco particolarmente dura, amara, cinica, disillusa.

Nasce così, nel 1966, Venere privata, un romanzo ‘di genere’ del quale è protagonista un personaggio fuori dal comune, nuovo per la nostra narrativa poliziesca, Duca Lamberti, eroe disperato, con un’ombra terribile alle spalle e tanto desiderio di giustizia: un personaggio caro a Scerbanenco che ritroviamo anche nei romanzi successivi, Traditori di tutti, 1966 che vince il Grand Prix de Littérature Policiére, I ragazzi del massacro, 1968; I milanesi ammazzano il sabato, 1969. E poi la torrentizia produzione di racconti antologizzati in Milano calibro 9, pubblicato sempre nel 1969, anno della sua morte, e nel Centodelitti, 1970.

In Scerbanenco la lezione di Chadler si radicalizza e la detective story perde definitivamente i connotati della scrittura tranquillizzante e del raffinato gioco intellettuale. Certo, anche nei romanzi di questo scrittore “il delitto non paga”, ma il suo detective non ha nulla dei saccenti e arroganti investigatori della Christie o di S. S. Van Dine: è piuttosto un personaggio sempre disposto a rimettersi in gioco, in nome di un’umanità in cui, malgrado tutte le delusioni e le sconfitte, continua ancora a credere. Si attenuano fin quasi a sparire le distinzioni tra buoni e cattivi: l’innocenza non esiste più, non esistono più gli innocenti. Tutti, in qualche modo, siamo responsabili della corruzione, del degrado, del marcio che ci circonda.

Il “giallo” diventa nero, anzi “noir”.
Col “noir” ogni margine di serenità scompare in virtù di una scrittura martellante, incalzante che tende a dare il senso della assoluta precarietà cui è ridotta la vita. Nel “noir” il crimine non è più l’eccezione, ma la regola: il delitto è nient’altro che un terribile specchio dei tempi. Non è un caso che questo particolare tipo di romanzo poliziesco si sia affermato a partire dagli anni della “guerra fredda”, una stagione allucinata che ha tenuto a lungo il mondo col fiato sospeso, con la sua tremenda, irrazionale minaccia di un olocausto planetario. Anche la fantasia nera di Scerbanenco è amara, cinica come la vita offerta da una certa Milano, affollata, torbida, impietosa e allucinata: capace solo di improvvisi squarci di tenerezza che non sono sufficienti, però, a diradare il senso di oppressione, ad alleggerire l’impressione di un malessere diffuso.

Con i romanzi e i racconti di questo russo trapiantato in Italia nasce la “scuola dei duri” italiana, una via italiana al giallo realistico in ritardo di trent’anni rispetto ad Hammet e a Chandler. Duca Lamberti, però, non è un investigatore privato, un private eye come Sam Spade e Philip Marlowe: è un medico radiato dal suo Ordine professionale a causa di una lontana vicenda di eutanasia e condannato a scontare tre anni di carcere. Uscito di galera, non potendo esercitare, accetta per vivere di occuparsi di casi delicati in cui è richiesta sia la sua competenza di medico, sia la pazienza e l’abilità di un detective d’azione. Scopre così “di che lagrime grondi e di che sangue” la sua opulenta città, cosa si nasconde dietro la facciata di perbenismo della ricca borghesia milanese: connivenze con l’industria del crimine, immoralità dilagante, corruzione degli ambienti che contano e delinquenza dei giovani rampolli della “Milano-bene”. Le indagini condotte da Duca Lamberti, a fianco dell’amico commissario Carrua, rappresentano una sorta di viaggio agli Inferi, al termine del quale il protagonista potrà riscattarsi e tornare a pieno titolo nella società. L’ultimo romanzo della serie, infatti, I milanesi ammazzano il sabato, 1969, vede la riammissione di Duca Lamberti nell’Ordine dei medici.

La radice del grande successo di questo autore – ha osservato Raffaele Crovi - consiste nel fatto di aver scelto come protagonisti - sia come testimoni, sia come vittime - gli emarginati. In una società come quella italiana che cominciava a trasformarsi in senso consumista, gli irregolari di Scerbanenco apparivano come gli ultimi esseri umani braccati e sperduti in una specie di labirinto, ma ancora capaci di irradiare la luce e il calore di passioni che i più sembravano aver colpevolmente dimenticate.