18 settembre 2009

“La coscienza di Zeno” di Italo Svevo


di Gianni Quilici

Ha senso parlare de “La coscienza di Zeno”, considerato, secondo una non recente indagine demoscopica, il maggior romanzo italiano del Novecento, su cui i più noti e grandi tra i critici italiani ( e non solo) hanno speso intelligenza, fatica ed acume?

La risposta istintiva sarebbe “non ha senso”, se non ci fossero “due spinte propulsive”, che mi fanno pensare che forse lo ha.

La prima: un classico, come è divenuto Svevo, rimane quasi sempre “imbalsamato” dal suo essere o tale. C'è sì un valore dato, ma questo, ogni volta, deve essere, dal lettore, conquistato.

Tanto più questo accade, seconda ragione, con quei classici che assurgono anche a pietre miliari scolastiche. La scuola spesso fa odiare i classici con il contributo di insegnanti che non li sanno trasmettere e, in certi casi, dei classici stessi, che hanno una vitalità troppo complessa o nascosta o datata.

Soprattutto molti autori vengono “insegnati” attraverso la critica della loro opera e letti, comprensibilmente, molto parzialmente. Svevo probabilmente è uno di questi. Quanti studenti hanno letto interamente “La coscienza di Zeno” ed, in ogni caso, qual è in quel momento la loro capacità di afferrarne i molteplici sensi?

Lo confesso: a me era successo di leggere, da auodidatta, a poco più di 20anni tutta (o quasi) l'opera di Svevo: i romanzi e i racconti, tranne “La coscienza di Zeno”, che avevo lasciato perdere, non mi ricordo le ragioni, nel momento in cui Zeno, respinto da Ada e da Alberta, decide di sposare Augusta.
L'ho ripreso con qualche scetticismo: “Ce la farò ad arrivare in fondo a queste 400 pagine con i tempi che corrono?”

Il primo aspetto che mi ha colpito: la felicità narrativa.
Contrariamente a ciò che pensavo, “La coscienza di Zeno” mi ha portato con sé, mi ha tolto il sonno, mi ha divertito, elettrizzato, mettendomi in corpo la voglia di continuare.
Mi sono chiesto perché. Mi sono dato due risposte: mobilità ed introspezione, che rimuginandoci sono diventate una sola. Una mobilità introspettiva.
Infatti i fatti sono una mescolanza tra i comportamenti e i pensieri di Zeno. Mobili, creativi, sorprendenti, divertenti. La sorpresa nasce dalla qualità dei pensieri di Zeno, che spesso smaschera il comportamento, sdoppiandosi.

Ecco che nasce una secondo aspetto, una parola: il teatro. La vita come teatro. Un teatro a due dimensioni. Quello che si recita all'aperto, che si vede; quello che si vive dentro, che non si vede, ma di cui Zeno è, almeno in parte, consapevole. Non un teatro ideologizzato come quello di Pirandello, dove il protagonista spesso incarna una filosofia dell'esistere: uno nessuno e centomila, così è se vi pare, il gioco delle parti. Un teatro che nasce di per sé, dal flusso della narrazione, senza volontarismi.

Ci sarebbe qui un terzo aspetto, un concetto abusato fin troppo per insisterci più di tanto: una sottile ironia, che spesso fa sorridere, ma anche fa ridere sonoramente. Ed è l'ironia che consente a Svevo di prendere le distanze da Zeno, di sorridere con lui e oltre lui. Di essere, cioè, più vasto del personaggio (memorabile), che ha creato.

Ci sarebbero poi altri temi, che da tempo circolano nella critica sveviana e di cui i testi scolastici sono pieni: Svevo come interprete della crisi della borghesia ( ma, nota Luigi Baldacci, rimane “un borghese che si libera”) come distruttore del romanzo tradizionale (e, senza essere un avanguardista, è certamente vero, perché è gioiosamente libero dalle strutture formali del romanzo ottocentesco).

Ciò che fa di Svevo un grande narratore è però forse un'altra parola: personaggi. La profondità, l'articolazione, la padronanza che dimostra nel trattare i personaggi. Sia quelli più significativi nell'economia del romanzo, sia i marginali e marginalissimi. Pensate a Guido: dolce, buono, talentuoso, infantile, sprovveduto, egocentrico, irresponsabile, vittimista, donnaiolo, compagnone; ed anche a come questa immagine di Guido cambi, agli occhi di Zeno, con il succedersi dei fatti. Oppure, del tutto marginale, il ritratto vivissimo della zia Rosina, con il suo faccione grinzoso di vecchia signora, che prende per affronto, riscaldandosi subito, quello che per Zeno voleva essere un complimento.

C'è infine un'ultimo aspetto, riassunta da un a parola utilizzata da quel critico-scrittore vorace che è Franco Cordelli: fraternità. Svevo è uno scrittore fraterno, perché ha compreso chi siamo noi uomini e donne su questa terra, ne ha rappresentato la precarietà-malattia e l'irriducibilità ad una possibile ed interminabile comprensione-guarigione. In più con una geniale conclusione ha aperto una panoramica sul male più grande che gli uomini associati potevano temere ieri, e possono temere oggi di più, sempre di più: la guerra. Con dolore, ma senza moralismi, perché Zeno dalla guerra in corso ci sta guadagnando. Con una geniale conclusione, infatti, Zeno diventa Svevo ed è nella statura del personaggio che lo può diventare. Lo diventa con una diagnosi-profezia delle più amare, lucide e devastanti. Ed è ciò che la scienza e la politica, quella che ha a cuore l'umanità, oggi ti dicono: inquinamento, sovraffollamento, impossibilità di controllare gli ordigni di distruzione di massa, catastrofe inaudita di questo Pianeta, la Terra ritornata una nebulosa priva di parassiti e di malattie.
Esattamente questo oggi è all'ordine del giorno. Zeno-Svevo come uomo tra gli uomini lancia il suo grido all'umanità, un'umanità che vede lucidamente lanciata verso l'autodistruzione. Per amore, per fraternità.

Italo Svevo. La coscienza di Zeno. "I corvi", Dall'Oglio.