01 dicembre 2009

"Americani a Roma nella prima metà del XIX secolo"


di Luciano Luciani


Per tutto il Settecento e buona parte dell’Ottocento il Viaggio in Italia ha costituito un momento centrale nella formazione culturale ed umana di ogni letterato europeo degno di questo nome. E se, a questo riguardo, restano giustamente celebri i libri delle peregrinazioni e delle esperienze lungo l’intero arco della penisola di Goethe e di Stendhal, meno indagato risulta invece il fascino che il nostro Paese ha esercitato in questo periodo sui gruppi intellettuali degli allora giovanissimi Stati Uniti.

I primi a muoversi da oltre Atlantico, attratti dal “sogno d’Arcadia”, come lo ha definito Van Wick Brooks in un suo famoso saggio, furono i pittori: Benjamin West, autore di quadri allora assai celebrati negli Stati Uniti – il Wolfe’s death, per esempio, e il William Penn’s Traty with the Indiano – e Washington Allston, poeta e pittore, autore di ritratti e tele di soggetto biblico.

Poi vennero gli scultori: e furono soprattutto loro ad eleggere Roma a luogo privilegiato per l’ispirazione artistica. La città dei papi offriva, infatti, oltre agli insuperati modelli di stile del passato e a quelli di una scuola di scultura, la neoclassica, rinomata ed imitata in tutta Europa, anche le migliori condizioni materiali possibili di vita e lavoro: affitti modesti; maestranze specializzate competenti e poco costose e facilmente reperibili; modelle e modelli di grande bellezza e largamente disponibili… E poi soprattutto l’opportunità di lavorare accanto al famoso Bertel Thornvaldsen, illustre scultore, danese d’origine ma romano d’adozione, rigoroso continuatore ed interprete della dominante sensibilità neoclassica e della lezione del Canova.

Presso questo maestro, che aveva scelto Roma come sua patria “estetica”, si formarono due importanti scultori statunitensi. Horatio Greenough e Thomas Crawford: il primo, sostenitore della funzionalità nell’arte e nell’architettura, frequentò gli ambienti artistici romani e fiorentini e non nascose mai la simpatia e il rispetto con cui guardava al processo nazionale unitario dell’Italia; il secondo, dai suoi studi a Roma ricavò scelte formali nettamente indirizzate in senso neoclassico, che trasfuse in un apprezzato Orfeo; nel monumento equestre a George Washington e nella famosa Armed Liberty.

Crawford fu più che un simpatizzante per la causa italiana: a Roma nei mesi inquieti che precedettero la Repubblica romana si arruolò nella Guardia civica e - racconta la giornalista e scrittrice Margaret Fuller - per partecipare alle esercitazioni di questo corpo militare volontario e popolare non esitava a trascurare la disciplina artistica, i cui studi lo avevano portato in Italia.

Assieme a loro meritano di essere ricordati altri scultori americani presenti a Roma nella prima metà del secolo: Hiram Power, divenuto molto noto negli ambienti artistici europei per un’opera, La schiava greca (1843), in cui fu vista la Grecia sottomessa al dispotismo turco e William Wetmore Story, oltre che scultore anche poeta e studioso del folklore romano.

Il primo scrittore americano di fama internazionale a visitare l’Italia fu Washington Irving, anche se nei suoi Tales of a traveller non riuscirà quasi mai ad andare oltre una serie di immagini piuttosto convenzionali.

Toccherà a James Fenimore Cooper, il creatore delle saghe dei pellirossa del settentrione del nuovo continente, fissare sulla carta, in un organico e completo libro di viaggio, le impressioni, vivacissime e complete di una lunga permanenza nel nostro Paese. Infatti, all’interno di un soggiorno in Europa durato ben sette anni (1826-1833) che lo portò in Inghilterra, Francia, Paesi Bassi, Germania e Svizzera, Fenimore Cooper trascorse quasi due anni in Italia, percorrendola in lungo e in largo, tra l’ottobre del 1828 e la primavera inoltrata del 1830.
Visitò e soggiornò anche per lunghi periodi a Firenze, Pisa, Livorno, Genova, Napoli, Roma, Venezia, colpito dal paesaggio italiano, meglio di altri seppe apprezzarne la bellezza, la luminosità, i modi della sua umanizzazione, il rapporto, allora ancora armonioso tra uomo e ambiente naturale. E’ proprio in virtù di questa disposizione d’animo che riuscì ad abbandonarsi con pienezza al godimento estetico offertogli sia dagli scenari naturali,sia da musei e gallerie d’arte, interessandosi anche all’urbanistica delle città, alle opere d’ingegneria civile, ponti, strade, piazze, mura che gli suscitarono rispetto ed ammirazione.
Programmaticamente alieno da interessi politici, il suo diario di viaggio non spende molte parole intorno alle tensioni politico-nazionalistiche che agitavano allora il nostro Paese. Eppure, lo scrittore della frontiera, da vigoroso assertore qual era della democrazia americana, non poteva non aver percepito, non aver colto il disagio, le sofferenze della parte più consapevole e avanzata del nostro popolo. Su queste questioni il suo silenzio ci appare strano, eccessivo… fino all’ultima lettera del suo viaggio in Italia, quando con grande lucidità scrive: “La natura sembra aver destinato l’Italia ad essere una sola nazione. La gente che parla la stessa lingua, un territorio circondato quasi tutto dall’acqua, o separato dal resto d’Europa da una barriera di grandi montagne, l’estensione, la storia antica, la posizione geografica, e gli interessi, sembrerebbero tutti direttamente tendere a questo unico fine… Prima o poi, inevitabilmente l’Italia diventerà un solo Stato: è un risultato che ritengo inevitabile, anche se non si sa ancora bene come potrà avvenire…Se non ci fossero grandi eventi politici per indebolire l’autorità dei governi attuali, l’educazione sarebbe il processo più sicuro, anche se lento. Ad ogni modo, nessun popolo dovrebbe fidarsi degli stranieri per raggiungere i propri fini politici… e se io fossi un italiano che vuole l’unità, non guarderei al di là delle Alpi in cerca d’aiuto”. L’uomo della frontiera aveva la vista lunga.

Tra questi “passionate pilgrims”, appassionati pellegrini dell’Italia, “paese solare e insieme romantico” (A. Lombardo) merita di essere ricordata Margaret Fuller, giornalista, intellettuale insieme raffinata e combattiva, scrittrice provocatoria e di successo.
Nata a Boston nel 1810, dopo aver ricevuto un’eccellente educazione – conosceva, infatti, il latino, il greco, il tedesco, il francese e l’italiano – era entrata in contatto prima con la cultura di Harvard, poi con gli ambienti del Trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson, Henry D. Thoreau e Nathaniel Hawthorne, un movimento filosofico-letterario-estetico che, richiamandosi soprattutto a Schelling ed Hegel, sosteneva un idealismo panteistico e romantico che considerava l’uomo e la sua divinità al centro dell’universo. Direttrice dal 1840 al 1842 del periodico “The Dial”, rivista che si faceva interprete e propagandista di questa nuova sensibilità, aveva fatto parlare di sé pubblicando nel 1844 Un’estate sui laghi, disincantato reportage di un lungo viaggio all’ovest, luogo di trasformazioni formidabili e non sempre positive, e soprattutto La donna nel XIX secolo, uno dei testi più importanti nella storia del femminismo americano dell’Ottocento. Nel 1846 Margaret Fuller partiva per l’Europa per un “grand tour” estetico-politico-culturale. Tocca prima l’Inghilterra e la Scozia dove conosce Carlyle, Wordsworth e l’esule Giuseppe Mazzini. Visita poi la Francia e qui incontra George Sand – “ Donne come la Sand parlano ora, né si lasceranno zittire” – e Adam Mickiewicz, poeta e patriota polacco che da allora le sarà amico e confidente. Nel febbraio del 1847 è in Italia, che visita in lungo e in largo: Genova, Livorno, Napoli. Poi Roma, Firenze, Ravenna, Bologna, Venezia, Milano… Di nuovo Firenze, di nuovo Roma, per fermarsi.

Puntuali e sempre capaci di cogliere con grande perspicacia i processi collettivi in atto tanto nel senso comune, quanto nelle coscienze individuali, in quel tormentato periodo della storia d’Italia, dall’ottobre 1847 a luglio 1849 Margaret Fuller spedisce al “Tribune” di New York diciassette corrispondenze esemplari, “inviata per caso” in uno dei fronti più drammatici della rivoluzione europea del ‘48-’49: quello della Repubblica romana assediata e piegata dallo strapotere delle armi francesi.
Commosse e partecipi le parole della sua ultima lettera (luglio1849) : “Sì, il 4 luglio, il giorno festeggiato con tanta gioia nel nostro paese, è il giorno dell’entrata dei francesi in Roma…! Ieri ho visitato i luoghi delle battaglie. Era terribile anche soltanto vedere le rovine del Casino dei Quattro Venti e del Vascello, dove francesi e romani erano stati per tanto tempo così vicini; frammenti di preziosi stucchi e di affreschi erano ancora appesi alle travi tra gli squarci fatti dai cannoni, ed era terribile pensare che vi erano rimasti dentro e vi avevano combattuto degli uomini, quando già erano una massa di rovine…
Più che mai mi ha colpito l’eroico valore del nostro popolo – lasciate che lo chiami così ora e sempre; poiché, dovunque io vada in futuro, un’ampia parte del mio cuore rimarrà per sempre in Italia. Spero che i figli di questo popolo sempre riconosceranno in me una sorella, anche se non sono nata qui”.
Poi, rivolgendosi ai lettori americani del “Tribune”, il cui editore Horace Greeley si era spesso mostrato solidale con la causa italiana: “Mandate soldi, mandate incoraggiamento, riconoscete come capi e governanti legittimi gli uomini che rappresentano il popolo, che comprendono le loro necessità, che sono pronti a morire o a vivere per il loro bene… Mazzini lo conosco, conosco l’uomo e le sue azioni, grandi, pure, costanti, un uomo a cui soltanto l’epoca futura potrà rendere giustizia, quando mieterà il raccolto del seme che egli in quest’epoca ha seminato. Amici, compatrioti, e voi amanti della virtù, amanti della libertà, amanti della verità state all’erta; non riposate ignavi nella vostra vita così facile, ma ricordate che “L’umanità è una sola e pulsa con un grande, unico cuore.”

Appena un anno più tardi, nel luglio 1850, in un terribile naufragio, davanti a Fire Island, l’oceano doveva sommergere la Fuller, il marito Giovanni Ossoli, conosciuto a Roma, e il figlio Angelino di neppure due anni. Un tragico destino in cui doveva andare smarrito e per sempre anche il manoscritto di quella Storia della Repubblica Romana a cui Margaret intendeva affidare il compito di continuare negli Stati Uniti la battaglia per la libertà del popolo italiano.



Per Roma e l’Italia “lette” con occhi americani nei primi decenni del diciannovesimo secolo rimandiamo a due bei lavori:
James Fenimore Cooper, Viaggio in Italia 1828-1830, Nistri-Lischi, Pisa 1989, introduzione, traduzione e note a cura di Angelina Neri, da cui abbiamo tratto il passo di J.F.Cooper; Margaret Fuller, Un’americana a Roma 1847-1849, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1986, a cura di Rossella Mamoli Zorzi, a cui dobbiamo la traduzione del brano conclusivo di Margaret Fuller.