14 marzo 2010

"Figlie con e senza madri" di Anna Vezzoni


di Luciano Luciani

La nostra editoria non ama il racconto e tende a considerarlo quasi un genere minore, al più un esercizio di apprendistato letterario rispetto al “padre nobile” della narrativa, il romanzo.
Non c’è direttore di collana che non storca la bocca davanti a una raccolta di racconti, che non aggrotti pensosamente la fronte quando l’autore, chiunque sia, alle prime armi o già famoso, gli propone un’antologia di narrazioni più o meno lunghe… Eppure, il racconto, legato strettamente alle tradizioni orali, ai miti e alle leggende, ha radici antichissime che affondano in profondità nella notte dei tempi della letteratura del genere umano. Esso, il racconto, costituisce quasi un organo vitale del nostro essere biologico: il narrare è strettamente connaturato all’esistenza stessa dell’uomo.

Raccontare storie è intraprendere un cammino verso un territorio condiviso e oggettivo dove s’ incontrano le conoscenze, le emozioni e i valori che forniscono senso all’esistenza, tanto di chi racconta quanto di chi ascolta o legge. È narrando che gli uomini entrano in comunicazione tra loro e imparano a conoscere più e meglio se stessi e il mondo circostante. E, per condurre questo cammino, è il racconto il modo più naturale, perché il suo sguardo è sempre personale, soggettivo e quindi selettivo, parziale, di scorcio…
Come ha detto Domenico Starnone il racconto permette di “aggiustare il tiro” invece di abbandonarsi alla “folla dei fatti”…

Tutte caratteristiche che ritroviamo nelle 29 brevi storie che ci propone Anna Vezzoni nel suo Figlie con e senza madri, la sua seconda raccolta di racconti dopo Anime d’ali strappate, pubblicata dieci anni fa a conferma di quella che potremmo definire una vera vocazione per la narrativa intensa, concentrata, che non ama, però, il procedimento a effetto del colpo di scena finale, dell’esplosione nelle ultime righe che sorprende e spiazza il lettore, la cosiddetta “metamorfosi dell’impensato”…

Anna Vezzoni privilegia piuttosto il finale interlocutorio, sospeso, problematizzante che non risolve la questione al centro della storia, ma la ripropone, l’allunga, sollecita ulteriori domande, propone ancora altri interrogativi, complica e non conclude.

Protagoniste assolute di tutte le storie di Anna, le donne, distribuite su tre generazioni, su tre fasce d’età: donne anziane, le nonne; donne adulte; donne giovani, adolescenti, giovanissime, bambine e alle prese con vicende di violenza fisica o psicologica; di malattia; di un’infelicità quotidiana legata alla dimensione domestica e al microcosmo familiare; storie di incomprensioni tra le generazioni, tra le culture, tra le classi sociali diverse.

Il tempo dei racconti corrisponde a questi nostri anni affacciati sul precario balcone del terzo millennio: un presente in cui sembra essersi consumata, dissolta qualsiasi idea di solidarietà – di classe, di genere, meno che mai familiare o semplicemente tra persone – per lasciare campo a una grande irrimediabile solitudine. Le protagoniste decidono, scelgono, sbagliano, complicano o talora, di rado, raddrizzano le proprie esistenze sempre da sole. I loro compagni, gli uomini, a cui l’Autrice riserva solo ruoli marginali, intrisi di mediocrità se non di negatività sono sempre lontani, distratti, non all’altezza, inadeguati.

Attenzione, però! Non vorrei con le mie parole aver suscitato l’impressione di un libri “a cielo chiuso” che, sempre e comunque, programmaticamente esclude dal proprio orizzonte la speranza nella possibilità di un tempo, se non migliore, almeno diverso dalla ruotine quotidiana, dal monotono e avvilente tran-tran dei giorni sempre uguali a se stessi.

Così Caterina, nel monologo interiore di Messaggio (p.77-79) non accetta più il suo ruolo, il suo destino di casalinga e sceglie, da sola, sola perché gli altri non capirebbero, di affrontare la conoscenza del mondo grande e terribile, ma comunque nuovo, “altro” rispetto a una vita piatta e sempre identica. Mentre Irene, la protagonista eponima delle due pagine del Giorno che Irene ha fatto la peperonata conclude la sua chiacchierata con se stessa, “Irene ha l’abitudine di parlare ad alta voce quando è sola”, scegliendo una maternità tardiva difficile e contraddetta, ma desiderata, voluta che acquista via via consapevolezza nei gesti ovvii, quotidiani della preparazione del cibo.

La lettura che l’Autrice compie della realtà non privilegia solo desolazioni emotive o debacle esistenziali: sa evidenziare anche – e direi bene, sono, a mio parere, le pagine migliori del libro – la complicata alchimia dell’attrazione fisica, il dare e ricevere dell’amore sensuale, il gioco sottile della seduzione fatto di silenzi più che di parole, di istinti e pulsioni che prescindono totalmente dal ragionamento, dalle comunicazioni, dalle sovrastrutture ideologiche (Il mio, il suo e – qualche volta – il nostro, p.82). oppure, con misura e ironia sa riportare alla luce il difficile processo del riconoscimento dell’umanità dell’altro (Incontrarsi, p.89)

Mi auguro poi di non aver sollecitato l’impressione di pagine magari calligrafiche ma autoreferenziali, tutte percorse da palpiti, vibrazioni rintocchi emotivi, turbamenti e struggimenti di tanta scrittura new age al femminile. In Figlie con e senza madri il rimedio, il confronto con la storia, anche con la Grande Storia, quella con la s maiuscola è costante e direi, anzi, che ne costituisce l’elemento caratterizzante e più originale soprattutto in tempi di preoccupante decadimento delle passioni civili.

Così ritroviamo le memorie degli anni Cinquanta, quelli poveri ma belli; il ricordo della Resistenza, una grande vicenda popolare che se cambia gli assetti politici, non è riuscita a trasformare nel profondo le vite e i modi degli uomini e delle donne; il “calore di fiamma lontana” dalla stagione delle lotte giovanili e il sequestro Moro; l’eco di guerre recenti e geograficamente vicine e in un racconto brevissimo, fulminante, C’è (p.92), l’orrore dei rapporti economici ineguali tra il Nord satollo del mondo e il Sud affamato.

Tutto questo e tanto altro ancora lo troviamo nell’ultima raccolta di racconti di Anna Vezzoni, Figlia con e senza madri, testimonianze di come, oggi, praticare una scrittura sensata e alta voglia dire occuparsi della fragilità umana, contrastare la perdita dei ricordi, l’elusività, la pigrizia dei luoghi comuni: in una parola indagare sulle ragioni della inabitabilità del nostro presente.

E Anna lo fa, con lo sguardo lucido e gli occhi asciutti, riservando la giusta dose di pietas solo a chi la merita: certi bambini, impegnati nella titanica fatica di crescere; certi anziani, certe figure marginali, erratiche (I belli e i brutti, p.87; Incontrarsi, p.89; Monologhi da marciapiede, p.94) metamorfiche… si presentano male, ma sono capaci di un’umanità più vera, sincera, profonda.

Senza appello, senza remissione Anna denuncia e condanna qualsiasi forma di violenza: da quella palese, bestiale che compare in Purezza, il primo racconto, a quella che si manifesta in forme più sottili, più raffinata di abuso e sopraffazione, annidata nei rapporti interpersonali, nelle famiglie, nel senso comune diffuso, nel microfascismo di tanti supernormali… E tutto questo la nostra Autrice lo fa con grande abilità narrativa, rivendicando sempre per i suoi personaggi un diritto all’opacità, ben consapevole che la condizione di tutti quanti noi è composita, multipla, contraddittoria e che un eccesso di trasparenza e nettezza non può che condannare all’impoverimento umano e di conseguenza artistico.

Così, del “gran guazzabuglio del cuore umano”, Anna ci descrive, ci racconta anche gli anfratti riposti, gli interstizi meno evidenti e illuminati, i retropensieri, le incertezze e le ambiguità che sovrintendono alle incertezze e alle decisioni.
E per rispondere al laborioso compito di raccontarci fuori e dentro, dentro e fuori un presente incattivito, incanaglito, con grande perizia l’Autrice taglia e rimonta i suoi materiali narrativi in maniera sempre nuova, originale, personale. E passa, senza fatica, il lettore quasi non se ne accorge, dalla descrizione oggettiva in terza persona al monologo interiore; dal dialogo alla confessione; dall’effusione lirico/sentimentale ai modi comunicatici dell’intervista. Ora assumendo il punto di vista e il linguaggio infantile, ora quello adulto, ora quello stereotipato e convenzionale della casalinga, ora quello più elaborato e consapevole delle signore borghesi…

Perché, altrimenti, come tutti sappiamo, le storie raccontate male aiutano i cattivi a vincere.


Anna Vezzoni, Figlie con e senza madri, Florence Art Edizioni, Firenze 2009, pp. 120, Euro 13,00