26 settembre 2010

"Spiare cenni arcani di partenza”: le Parole di Antonia Pozzi

di Davide Pugnana

Antonia Pozzi aveva grandi occhi scuri. Sembravano occhi fabbricati dalla natura per accogliere il dolore, in un fondo di estrema grazia. Non erano gli occhi di Alda Merini lavorati dal disincanto ironico, né quelli lucidi di perfezione di Marguerite Duras, la bambina nata nel Vietnam del Sud. Molti ritratti fotografici ci mostrano Antonia seduta sopra una roccia di montagna, una piccola viaggiatrice, fasciata di solitudine all’ombra di pareti altissime. E in quella penombra, lo scintillìo degli occhi da fanciulla in fiore sembravano riflettere un paesaggio che non vediamo, un al di là inaccessibile come gli infiniti leopardiani: una landa lucidata dal vento, percorsa da fremiti di luce e silenzi, da suoni e lontananze.

Quando lo stesso obiettivo la seguiva nelle stanze della casa, l’arco delle labbra si contraeva; diventava un ferita sottile, un taglio sotto la linea netta del naso; gli occhi si pietrificavano in due laghetti marmorei, come quelli delle nobili donne del Bronzino. Il suo sorriso ricordava la disperazione vitale e la feconda malinconia dei sorrisi di Silvia Plath. Come la bella poetessa americana in lotta contro gli anni Cinquanta, anche Antonia si è uccisa presto, a soli ventisei anni, rompendo la campana di vetro che nutriva la sua sensibilità e permetteva alla sua vena artistica di non perdere la lucidità necessaria per trasformare la vita in parole, “asciutte e dure come sassi o vestite di veli bianchi strappati”.

“Vivo la poesia come la vene vivono del sangue”, scriveva un’Antonia ventenne nel suo diario. Era nata nel 1912, in una Milano brillante di spregiudicatezza ed eleganza, che tanto piaceva a Stendhal; era caduta nelle trame di un romanzo familiare subito biforcato: una madre distante, presa da impegni mondani, e una Antonia bambina che ripiegherà il suo affetto su di un padre che amava portare l'intelligenza della figlia nella società milanese come un fiore all’occhiello; che interveniva con mano pesante sui suoi scritti, censurando tanta parte della sua storia intima, e, nel contempo, dava in pasto agli amici la pubblicazione del suo diario in poesia.

Quel paesaggio che non vediamo nelle foto fa parte di una toponomastica lombarda che si snoda dalle sponde del Ticino alle valli montane di Lecco, con un fuoco spaziale bel delimitato: Pasturo, il luogo d'intensità, reale e magico, nel quale Antonia si rifugia per leggere e scrivere, tra boschi di aceri e abeti, tra sentieri che portano fin sulle cime più alte. Anche lei, come Emily Dickinson, potrebbe dire: “L’infinto ha la latitudine di casa” . Ma in questo spazio scriverà cose meravigliose: le sue liriche nascono da un talento artistico - e critico - figlio di un tempo biologico brevissimo, ma di un'altrettanta precocità espressiva e una profondità di pensiero affini a precedenti illustri, nella storia dei giovani cari agli dèi, quella delle libere comete luminose alla Rimbaud.

La storia della vita di Antonia è stata segnata da una precoce aspirazione alla morte e da una acutissima percezione della malinconia, trasformata spesso nella coscienza dello scorrere fuggitivo del tempo, sentito come epifania della inconsistenza e della friabilità della vita. Un’immagine poetica fissa questa precarietà, questo intimo doloroso: “Fermi sugli argini/ reggeremo lanterne/ a esplorare/ il pericolo dei ponti” (Morte di stagioni). La malinconia delle nature creative mostra questi due volti: una cifra che, nel processo conoscitivo, si nutre dello Stimmung, ossia della vertigine di gioia e dolore che porta a scrivere esplorando bordi sfrangiati e abissali, con in mano una “lanterna”; e, parallela o alternata, una spinta (umana) autodistruttiva, un fuoco che può portare alla morte anche la più resistente delle Fenici. E, infatti, Antonia morirà suicida a ventisei anni, trascinata da una malinconia lacerata e inavvertita, dolce e stremata, oscura e luminosa. Nelle sue poesie, e in misura ancora più immediata e intensa nei suo diari, si coglie questa linea umbratile e inafferrabile: una tristezza elegiaca che avvolge il nocciolo inesorabile della disperazione come destino di vita, come motore della creazione e come orizzonte fatale.

Se entriamo nel mondo ctonio dei suoi diari - questi custodi dell’interiorità, come li definisce Eugenio Borgna - scopriamo giacimenti di bellissime riflessioni sulla vita e sul tempo, sull’arte e sull’amore. Le pagine dei suoi quaderni si leggono col batticuore, e lasciano straziati: siamo attraversati e investiti da una cascata di emozioni e di speculazioni temerarie, ancorate a tematiche esistenziali roventi, isolate da una scrittura limpidissima. Qui, tutta la cultura e la formazione di Antonia si aprono a ventaglio, sotto la luce della grande lezione mitteleuropea: Rilke, Pound, Valery, Eliot, l’amato Flaubert (al quale dedicherà la sua tesi) e soprattutto il Mann di “Tonio Kroger”. E’ dall’incontro con questo romanzo lirico, ricco di dialoghi sull’arte e di confessioni, che Antonia comincerà a riflettere sulla funzione dell’artista, sulla sua condizione, sul nesso difficile tra arte/vita; si chiederà se l’artista sia o no “colui che non arriva alla vita, ma colui che va oltre la vita”; si darà una risposta: “non si può cogliere una fogliolina sola dell’alloro dell’arte sans la payer de sa vie”, fino all’identificazione con Tonio: “Io sono adesso come Tonio Kroger nella tempesta, sono appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole. Forse - chissà - l’età delle parole è finita per sempre.” Al massimo della chiusura il massimo dell’apertura, un passaggio nodale e contraddittorio, come vuole la malinconia creativa: su questa affermazione negativa si costruisce il percorso si scavo e di ricerca poetica di Antonia Pozzi.

Le sue poesie - oggi edite da Garzanti nella collana Gli Elefanti, col titolo “Parole” - sono il diario più intenso della sua anima. In esse è possibile seguire le figure (le proiezioni dell’io lirico) che la malinconia assume, i suoi timbri, il suo alfabeto simbolico, la sua bellezza ferita e assorta. Montale rimase così colpito da questi versi così lucidi e maturi, da abbandonare la sua solita pacatezza critica: “.” Anima di eccezionale purezza e sensibilità, che non poté reggere il peso della vita, Antonia Pozzi richiede una lettura che faccia vivere in noi gli sviluppi che essa conteneva e non espresse che in parte”; e ancora: “voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina

Proprio da appoggi interni sembra nascere la sua ‘parola’ lirica, che tante volte diventa tema poetico e interlocutrice privilegiata: “Parole - vetri/ che infedelmente / rispecchiate il mio cielo - /di voi pensai / dopo il tramonto / in una oscura strada / quando sui ciottoli una vetrata cadde / ed i frantumi a lungo / sparsero in terra lume - “ (Riflessi).

Ma se vogliamo capire alcune molle generative di questa parola artistica - parola che Antonia voleva flessibile e trasparente, punta di roccia e morbido tessuto insieme - dobbiamo spostarci sul terreno della saggistica, dove si muovono i giovani insonni e i sognatori di paradisi perduti di Mann e Musil, e dove le donne di provincia inventate da Flaubert, cariche di desideri ed evasioni, animano le ore di lettura del bueno retiro di Pasturo. Nell’ultimo anno della sua vita, la lente critica di Antonia si sposterà ad un libro di Huxley,Eyeless in Gaza”, sul quale scriverà un saggio. Di queste pagine ci interessa un passaggio, illuminante per capire le polarità del genio malinconico di Antonia, il suo vivere ( e scrivere) nel mezzo della frizione e dell'abrasione tra la vita e la morte: “Questo tema del sangue - scrive - ci introduce direttamente nel mondi di Eyeless in Gaza, di Sansone cieco al mulino con gli schiavi, che nelle profondità delle su tenebre coscienti esplora il mistero della vita, giù fino all’analisi del suo sangue e di quello dei fratelli, giù fino al disgregamento fisico e spirituale della personalità in atomi vitali indifferenziati e poi, da questo smisurato mare sotterraneo, a capofitto, in uno slancio deliberato, di nuovo nella vita, nell’amore della vita - anche se questa dura una notte sola e l’indomani sarà la morte (anzi, proprio nella morte accettata e cercata in nome di quella vita riconosciuta concreta e assunta a idealità, sta la resurrezione del mondo dell’intellettualismo apatico, il riscatto del pensiero nel gesto).”

Un topos su tutti, una delle più belle immagini poetiche della nostra tradizione, ci accompagna dentro gli occhi di questa grande poetessa: in quel paesaggio visitato da luci e ombre, dove la parola ha il dovere di essere più forte del dolore e dove forze e pulsioni si agitano sfavillanti accanto a piccole cose che scalpellano; dove l’io vive come un “velo d’acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata”; e dove il tempo si fa sabbia, scivola, dilegua, scompare, ma lascia in noi “nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi”, trovati solo a prezzo di guardare passaggi segreti, scie, smarrimenti di rotte sbagliate, qui l'io lirico, come una nave, corre per cogliere tutti i possibili “cenni arcani di potenza“ : “Io vengo da mari lontani -/ io sono una nave sferzata/dai flutti/dai venti-/ corrosa dal sole - macerata dagli uragani - / io vengo da mari lontani/ e carica d’innumeri cose/ disfatte/ di frutti strani/ corrotti/ di sete vermiglie/ spaccate - / stremate (…)io sono una nave/ una nave che porta/ in sé l’orma di tutti i tramonti/ solcati sofferti - (…)Risogna la nave ferita/ i primissimo porto -/ che vale/ se sopra la scia/ del suo viaggio/ ricade/ l’ondata sfinita?” (Il porto).


Tre poesie di Antonia Pozzi:

"Sorelle, a voi non dispiace..."

Sorelle, a voi non dispiace
ch’io segua anche stasera
la vostra via?
Così dolce è passare
senza parole
per le buie strade del mondo -
per le bianche strade dei vostri pensieri -
così dolce è sentirsi
una piccola ombra
in riva alla luce -
così dolce serrarsi
contro il cuore il silenzio
come la vita più fonda
solo ascoltando le vostre anime andare -
solo rubando
con gli occhi fissi
l’anima delle cose -
Sorelle, se a voi non dispiace -
io seguirò ogni sera
la vostra via
pensando ad un cielo notturno
per cui due bianche stelle conducano
una stellina cieca
verso il grembo del mare.

***

"Grido"

Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono -
essere senza ieri
essere senza domani
ed acciecarsi nel nulla –
- aiuto –
per la miseria
che non ha fine –

10 febbraio 1932


***

"Voce di donna"

Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.

Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo -
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.

Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore;
Che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.

Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.

18 settembre 1937