05 giugno 2011

"La musa discreta e gentile di Antonio Peretti" di Luciano Luciani



L’Italia intellettuale della prima metà dell’Ottocento ha conosciuto uno strato relativamente largo e a volte vivace di letterati, insegnanti, avvocati, amministratori di buona cultura e di non spregevole educazione: una borghesia degli uffici non ricca economicamente, ma colta, moderata, liberale e destinata a diventare la matrice della classe dirigente dell’Italia unitaria. Molti suoi esponenti offrirono buone prove di sé nel corso delle vicende risorgimentali, ma non a tutti, ovviamente, è toccato l’onore della fama politica, artistica, letteraria. Alla più gran parte – anche se di una qualche notorietà tra i contemporanei – è stato riservato uno sconsolato destino di oblio. Pochi quelli che hanno conosciuto una grandezza pari oggi ad una nota a pie’ di pagina. Sulle dita di una mano si contano i grandi e i grandissimi ancora conosciuti, letti, meditati. Non appartiene di sicuro all’ultima categoria Antonio Peretti, letterato, giornalista ed educatore emiliano di qualche merito poetico e civile e di qualche fama ai suoi tempi, ma oggi dimenticato. Vissuto in tempi complicati, duri e difficili con dignitosa coerenza non rinunciò mai alla libertà della sua ispirazione e all’impegno civile che cercò costantemente di far convivere con un’educazione classicheggiante e una delicata vena elegiaca e sentimentale.


Nato nel 1815 a Castelnuovo Monti nel Reggiano, figlio di un notaio impiegato nell’amministrazione dello stato, Antonio Peretti studiò in seminario, ricavandone più motivi d’insoddisfazione che stimoli a una piena crescita culturale ed umana. Certo è che nel 1834 abbandonò gli studi in filosofia presso i Gesuiti di Reggio per passare al Convitto Legale della città emiliana e laurearsi in diritto a Modena nel 1839. A questo punto della sua vita sentì prepotente la vocazione alla scrittura, per cui si cimentava in tutti i generi letterari: poesia, prosa, biografie, melodrammi… Sua ispiratrice – siamo nell’Ottocento romantico! – Adele Curti, “milanese, poetessa e fanciulla d’alto sentire”, più anziana di lui di qualche anno e malata, probabilmente di quello che veniva allora chiamato il “mal sottile”. La differenza d’età e la malattia consigliarono la Curti – che doveva spegnersi nel 1845 – a rifiutare le profferte amorose, spinte fino al matrimonio, del giovane avvocato che, tra l’altro, appena laureato aveva messo da parte codici e pandette per dedicarsi anima e corpo alla letteratura. I suoi versi e le sue prose venivano pubblicate con un certo successo di pubblico sul “Giornale Letterario-Scientifico modenese”.


Erano molto apprezzati soprattutto i suoi testi poetici, che sapevano intelligentemente miscelare sensibilità romantica, educazione classica e la scottante attualità politica del tempo: “le sue poesie si leggevano avidamente da tutti al loro primo apparire, ed era una furia a strapparsele di mano l’un l’altro, a ricopiarle, a stamparle”. Non contento, il Nostro scriveva biografie erudite di reggiani illustri e tentava, senza particolare fortuna, le ardue vie della tragedia e del melodramma.

Una sua Beatrice di Tolosa fu musicata dal maestro di cappella della corte ducale, Angelo Catelani, compositore di qualche fama in quegli anni: la rappresentazione, però, prevista per l’autunno del 1840 nel regio teatro di Modena, fu bloccata per la morte di Maria Beatrice Vittoria, moglie di Francesco IV, despota feroce e accanito persecutore di liberali.

La facile vena poetica del Peretti trasse allora spunto da questa scomparsa per alcune strofe dense di umana pietà verso la defunta duchessa: tanto bastò perché Francesco IV, in un breve volgere di giorni, “valutando non solamente il talento e l’applicazione letteraria dell’autore, ma bensì anche la rettitudine e religiosità dei suoi sentimenti”, nominasse il Peretti “nostro Poeta di Corte”. Come mai il duca emiliano definito con sarcasmo dal Giusti “Tiberio in diciottesimo”, “tirannetto da quattordici al duetto”, per quell’incarico di qualche prestigio scelse proprio un letterato in odore di liberalismo? Forse per sollecitare con questa nomina dissidi e divisioni all’interno del campo liberale e segnatamente tra quella “intellighenzia” che il sovrano sapeva irriducibilmente ostile dopo la sanguinosa repressione del 1831? E perché il Peretti in fama di intellettuale all’opposizione accettò tale nomina? Si trattava di un nodo intricato di ragioni in cui intervenivano senz’altro una giusta ambizione male indirizzata, problemi economici familiari a cui l’appannaggio ducale metteva in parte riparo, poi l’idea, generosa e ingenua insieme, di riuscire dall’interno a stemperare le durezze della politica ducale. Fu, comunque, una decisione sofferta che, da subito e negli anni a venire, doveva costare cara al Peretti: non mancarono al suo operato critiche, anche di amici, che lo amareggiarono e particolarmente doveva segnarlo il duro giudizio espresso a proposito di questa vicenda proprio dalla Adele Curti.


Tant’è. Il 21 ottobre 1840 il Peretti diviene la voce poetica ufficiale del ducato di Modena. L’anno dopo gli muore il padre e il nostro letterato deve lavorare in maniera indefessa per mantenere la numerosa famiglia. Scrive per il “Museo artistico-letterario” di Torino, collabora ad alcune “Strenne”, pubblicazioni miscellanee poetico-letterarie, edite a Monza, a Milano per i tipi dell’editore Vallardi, a Reggio: di quest’ultima un critico severo ed esigente come Terenzio Mamiani dirà che “ogni cosa, grazie a Dio, in questo libro è italiana: i pensieri, lo stile, i temi, le storie”. Sempre nel 1841 fonda il “Silfo”, un periodico letterario, artistico e teatrale che diviene una tribuna per il rinnovamento della cultura e si distingue per i suoi spiriti polemici nei confronti dei retori e degli accademici. Scrive il libretto di Carattaco, melodramma musicato sempre da Catelani e nel 1843 è nominato prima segretario dell’Accademia Atestina di Belle Arti e poi, nello stesso istituto, professore di storia e mitologia. Non pago di questa intensissima attività, trova il tempo per pubblicare il “Buon Umore”, un almanacco umoristico che durò per ben tre anni e che per le sue critiche ai settori più reazionari della società modenese gli procurò non pochi nemici. Conflittuali i suoi rapporti col potere: l’occhiuta censura ducale, nonostante il suo ruolo pubblico, non esita a tagliargli gli articoli che apparivano sull’ “Educatore Storico” di Giovanni Sabbatini, poi soppresso nel ’48.

E’ il periodo più felice della breve vita di Antonio Peretti: è letto, apprezzato, si tiene conto del suo lavoro. Ama una nobile signora sposata e anche la sua vita privata contribuisce a porlo al centro della vita mondana modenese. Interviene autorevolmente a favore degli asili infantili e in un opuscolo, Case di lavoro, caldeggia l’impegno verso i settori meno fortunati della società. E scrive versi, tanti versi, su tutto. Non c’è argomento dell’attualità, della politica, della cultura, addirittura dell’economia che il Nostro non tratti e non canti: le strade ferrate, le Casse di risparmio, le Case di lavoro, fedele a un programma di poesia di circostanza, ma sempre improntata a sensi liberali e civili. Un impegno di sensibilizzazione ai temi della modernità fermo e coerente, il suo, nonostante il ruolo ufficiale: “Peretti, colla nobile audacia del proprio genio, del sapere, del carattere riuscì ad imporsi al principe che aveva fatto impiccare Ciro Menotti”. Si racconta che lo stesso feroce Francesco IV abbia risposto così ad un cortigiano che si sforzava di mettere in cattiva luce il Peretti, facendo riferimento alle sue idealità politiche: “Si figuri se non so che Peretti è un liberale! Ma almeno da lui conosco la verità: da lei non sono mai sicuro di venirla a sapere!”


Ma il clima politico del Ducato era destinato a peggiorare ancora. In contrasto con gli entusiasmi nazionali che precedettero il ’48, il nuovo duca Francesco V, subentrato al padre nel gennaio 1846, scelse invece di trasformarsi nell’alfiere degli interessi austriaci in Italia: prima respinse l’invito a far parte della Lega doganale italiana, poi firmò un’alleanza militare con l’Austria che prevedeva la presenza di truppe imperiali nel territorio emiliano. Un atteggiamento provocatorio destinato a durare fino al marzo del ’48, quando il duca di Modena fuggì ingloriosamente per rifugiarsi nei territori austriaci: a Modena si costituisce un governo provvisorio guidato da Giuseppe Malmusi, che proclama le province di Modena, Reggio e Guastalla unite allo Stato sardo, rappresentato da Carlo Ludovico Sauli d’Igliano. Nel frattempo, i volontari modenesi si battono a fianco dei toscani e dei napoletani: una fase entusiasmante della storia d’Italia a cui non manca il sostegno della musa di Antonio Peretti, che precede, prepara a si inserisce a pieno titolo in quella grande stagione politica. La sua poesia è sempre meno d’occasione, mentre in maniera sempre più marcata si caratterizza per tematiche patriottiche e civili.

Il Peretti afferma che Se non è libera, è una vergogna/ la poesia (A Beatrice Levi, 2 febbraio 1848) e questa convinzione ispirerà tutta la sua produzione a venire con le naturali oscillazioni imposte dalla complicata temperie politica del periodo: gli entusiasmi per Pio IX destinati ad andare delusi in breve volgere di mesi: – Né libera e forte l’Italia sarà/Se agogna lo scettro ciascuna città./Ciascuna è una gemma che il cielo ne dona/Per render più bella la nostra corona:/Chi cinger la deve fia scelto da Pio;/Nessun v’ha dritto. L’Italia è di Dio! (Licenza del dramma “Maria la schiava”, 1 aprile 1848) – si intrecciano con la passione nazionale espressa dal tripudio cromatico della bandiera italiana: Rosso i prodi a guerra invita,/Verde è speme, il bianco è amor…/E’ il vessil d’Italia unita/Il vessillo tricolor! (La bandiera nazionale, 1 aprile 1848); la gioia per l’entrata delle truppe piemontesi nel territorio dei ducati – O giovinette, che al veron sedute/brillate in mezzo ai fiori e a’ lieti panni,/le schiere che tra noi sono venute/non son gli sgherri de’ nostri tiranni;/d’Italia pugnerai per la salute,/dividerai con noi gioie ed affanni:/gettate a questi prodi e nastri e fiori,/ché portan la coccarda a tre colori… (Per l’arrivo in Modena d’un corpo di truppe piemontesi, aprile 1848) – si mescolano con la riflessione storico-politica intorno alla morte e al sacrificio di Mario Pagano, giurista e martire della repubblica partenopea del 1799: Di serva vita indocile/nuovo Caton morivi;/ma del tuo sangue scorrono/ancor fumanti i rivi;/e tra la plebe e il trono/vortici immensi sono. (A Mario Pagano, novembre 1848).

A’ rinnegati itali duci impreca/chi de la Secchia beve e de la Parma;/Freme Romagna minacciosa e bieca,/Etruria s’arma… Guerra, Guerra, perdio! – L’italo acciaro/niun fia che a’ l’odio del tedesco rubi:/tuoni il concavo bronzo, e il primo sparo/sciolga le nubi (L’anno 1849, 26 febbraio 1849)… Soltanto un anno più tardi, gli accenti poetici del Peretti che si sono prima adeguati alle durezze del momento storico-politico, si fanno sconsolati – Ed or che pei fraterni odi gelosi/ricade Italia in servitù straniera (A Teodolinda Boccolari, giugno 1849) – e con versi tanto convenzionalmente letterari quanto commossi non gli resta che rendere omaggio alla figura di Ugo Bassi guerrier di Cristo e de l’Italia (Gli ultimi istanti di Ugo Bassi, luglio 1849).


Dopo “l’anno dei portenti” e le delusioni del ’49, si apre un periodo oscuro per il letterato emiliano: sul suo animo pesano sia la sconfitta delle speranze quarantottesche, sia la nostalgia della sua terra. Nell’estate del ’48 Francesco V è rientrato a Modena, da cui era fuggito alle prime avvisaglie della bufera politica; nel 1850 richiama i Gesuiti e affida loro il governo dell’istruzione pubblica e della vita culturale. Sono tempi incattiviti, avvelenati dalle vendette e dalle rappresaglie contro tutti coloro che in qualche modo avevano favorito i tentativi nazionali e costituzionali: quale spazio potava rimanere per un mite intellettuale dalla vena cordiale e liberale? Peretti preferisce l’esilio e il Piemonte costituzionale lo accoglie, insieme alla “meglio gioventù” italiana di allora, prima a Pinerolo, ispettore delle scuole elementari, poi a Novara: trova un’attività finalmente stabile e più consona alle sue competenze presso il Collegio Nazionale di Ivrea, dove a partire dal 1853 è professore di storia e quindi preside.

Certo la sua Modena gli manca e non poco: unica consolazione, poter rievocare persone, luoghi e scenari cari con Ferdinando Ruffini, compaesano e compagno d’esilio. Si trascura. Beve: ama soprattutto i liquori, Chartreuse e Bon Savoyarde e si può dire che non tolga mai il sigaro di bocca, fumandone 20/25 al giorno. Tarchiatello e robustissimo, la sua salute ne avrebbe senz’altro guadagnato se si fosse limitato negli uni e negli altri. Ipocondriaco col timore delle malattie e religiosissimo per tradizione familiare, vive appartato, pago delle modeste gratificazioni proprie dell’insegnamento e del rapporto con i giovani. A cui si aggiungono rare passeggiate negli incantati paesaggi dei villaggi e laghetti che circondano Ivrea e frequenti visite presso la libreria del libraio Curbis, il Vieusseux del Canavese.

La letteratura e la poesia restano le grandi passioni della sua vita, ma l’ispirazione di un tempo, così facile e fervida, sembra essersi esaurita: negli anni d’esilio produce un solo testo significativo, una ballata, I Marchesi d’Ivrea, l’unica di un progetto che ne prevedeva ben quattro, più volte stampata e ristampata e portata al successo in tutta Italia dalla recitazione dell’attrice Adelaide Tessero. Nella primavera del 1858, in occasione di una visita ad Ivrea di Costantino Nigra, allora segretario del conte di Cavour, che nelle sue parole sembrava annunciare ai presenti entusiasti l’imminente riscatto della patria italiana, il Peretti reagisce con un silenzio carico di presentimenti: non avrebbe rivisto la sua terra, non avrebbe festeggiato il compimento di quell’unità d’Italia che pure aveva spesso cantato con versi ispirati e commossi.


Tra gli affetti privatissimi del letterato emiliano spicca quello per Louisa Grace Bartolini, una signora irlandese, amica dell’Italia e ben addentro agli ambienti artistici politici e letterari, conosciuta nel 1847 e cantata in un sonetto nell’ormai lontano ’48: Alte e agili forme; ardente e nera/Pupilla; ingenuo riso e treccia bruna; /Dotta ed umil, tenera e forte; altera/Di tua virtù, non de la tua fortuna… (A miss Louisa Grace, 1848). La donna non corrispose mai completamente ai sentimenti intensi e profondi del poeta modenese e il semplice cameratismo a cui costrinse la passione del letterato fu per lui motivo di sofferenza e frustrazione e contribuì a intristirne gli ultimi anni. Nell’autunno del 1858, un’ultima visita a Pistoia, luogo di residenza della Grace Bartolini, serve solo ad acuire il senso di scacco e solitudine che ormai circonda tutta l’esistenza di Antonio Peretti.

Muore ad Ivrea il 23 novembre del 1858.



Luciano Luciani

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