11 dicembre 2011

"Domenico Barbaja, il principe degli impresari" di Luciano Luciani

La sera del 19 ottobre 1841 c’era spettacolo al teatro San Carlo di Napoli. All’improvviso, la bacchetta del direttore d’orchestra s’arrestò a mezz’aria, i cantanti interruppero i loro virtuosismi e lentamente sul palcoscenico calò la tela, mentre il pubblico, ammutolito, si allontanava dalla sala: questa la reazione dei partenopei amanti della musica e del bel canto alla notizia della morte, avvenuta nella sua villa di Posillipo, del grande impresario teatrale Domenico Barbaja, uno degli uomini più ricchi, famosi e potenti del suo tempo al punto da essere considerato dalla voce popolare il vero “viceré” di Napoli…

E pensare che le sue origini erano state, invece, modestissime…

Nato a Milano nel 1778, Domenico si era dovuto accontentare di una posizione assai dimessa nella scale sociale: sguattero in una taverna dei bassifondi. Ma il giovane Barbaja, che mal tollerava la modestia della sua condizione e sentiva, prepotente, un innato talento artistico e musicale, anelava, con l’ardore e la tenacia dei suoi vent’anni, a cogliere l’occasione propizia che gli avrebbe consentito l’inizio di un’ascesa sociale destinata negli anni a diventare irresistibile.

I suoi non rari detrattori raccontano che un giorno, per soddisfare i capricci di una ragazzetta dai costumi un po’ liberi e di un personaggio di qualche rinomanza politico-mondana in quegli anni napoleonici, capitati per caso nella sua bettola in cerca di sensazioni nuove, il Nostro preparasse per loro un intruglio dal colore indefinibile e dal discutibile sapore. Era la “barbajata”, un mix tra cioccolato, panna e caffè che se godette di una fama effimera, ebbe, però, il merito di attirare nel locale altre personalità e altre donne generose delle proprie grazie. La taverna divenne di moda, Domenico Barbaja fece delle conoscenze preziose e, soprattutto, con abilità e determinazione, seppe profittarne. Nemmeno un anno più tardi, l’ex sguattero godeva dei benefici dell’appalto dei giuochi d’azzardo nel ridotto del teatro della Scala, faceva un sacco di soldi e viaggiava in carrozza per le strade milanesi circondato dalle raffinatezze e dai conforti di una vita particolarmente agiata. Ma l’amore per la musica non lo abbandonava e il teatro gli era ormai entrato nel sangue: almeno quanto gli erano diventati insopportabili le brume lombarde e il freddo di Milano. Così, l’antico garzone scelse di muoversi verso la luce e i colori del sud e di stabilirsi in una villa a Posillipo, a Napoli, allora una delle capitali europee dell’arte e della musica. E qui si immerse nella vita mondana e affaristica di quella città, destreggiandosi abilmente tra i nostalgici dell’esule Borbone e i fautori del giovane Murat. Questo sino a quando, rientrato a Napoli Ferdinando, le nuove esigenze politiche gli imposero un rapporto d’amicizia e collaborazione con il tiranno ancora sospettoso e guardingo.


Nel 1816 il teatro San Carlo era chiuso: un incendio l’aveva distrutto. Dinanzi a quelle rovine, tutti i giorni, all’ora consueta del passeggio, il Barbaja faceva sostare la sua carrozza e si immergeva in pensoso raccoglimento guardando la facciata dell’edificio, ora desolata come una vedova in gramaglie.

Cosa andava mai considerando quell’uomo straordinario? Forse di cogliere l’occasione per accattivarsi definitivamente le simpatie del re, tali da obbligarlo a relegare tra i ricordi destinati a cadere nel nulla qualche tiepida tresca del suo suddito col passato regime? Sì, probabilmente la sua vanità lo sollecitava in questa direzione, ma certo non andava disgiunta da una profonda passione per l’arte, una sincera attrazione per il palcoscenico, un’acuta sensibilità per la musica e il canto, nate e alimentate durante il soggiorno milanese presso la Scala.

Come altrimenti potremmo spiegare nel Barbaja quello amore per il bello e quell’intuito originalissimo che gli rese agevole presagire in cantanti e compositori, all’inizio appena della loro carriera, future celebrità o autentici geni; e organizzare in Italia e all’estero stagioni artistiche e musicali fortunate e pregevoli?

Fu così che un giorno, dopo un’ ennesima, approfondita riflessione dinanzi ai relitti melanconici del San Carlo, egli si presentò al re, offrendosi di far ricostruire a proprie spese il teatro. Con il consenso del sovrano, il Barbaja si pose all’opera e nello spazio di dieci mesi il Real Teatro San Carlo fu di nuovo in piedi, pronto ad accogliere spettacoli per i quali il suo ricostruttore e impresario era determinato a impegnare, insieme con il massimo sostegno finanziario, gli accorgimenti più degni della più raffinata sensibilità artistica e del buongusto. Ma probabilmente non si trattava solo di questo: un osservatore attento e perspicace come Stendhal colse in pieno la natura politica di quel mecenatismo, insieme imprenditoriale e regale, e assistendo alla solenne riapertura dopo l’incendio del 1816, non esitò a definire il Teatro, con sapida immagine, un coup d’état.

Dopo la gestione magnifica del San Carlo, Barbaja assunse poi quella di altri teatri cittadini, sino ad estendere la sua diretta ingerenza nelle imprese teatrali di altre città italiane e all’estero. Una oculatissima sovrintendenza, la sua, che riuscì a trarre dai locali il massimo attivo, mentre i giuochi d’azzardo e un’intensa attività edilizia continuarono a fornire al Barbaja larghi proventi: il che, insieme con l’incondizionata protezione del sovrano, fece dell’accorto impresario, in breve tempo, l’individuo più blandito, temuto e potente del regno. Barbaja, infatti, volle sempre al suo fianco artisti di prima grandezza, che egli, guidato da uno speciale fiuto, scovava in ogni parte d’Italia. Riuscì a catturare, e poi a tiranneggiare e viziare in sette anni di feconda collaborazione, Gioacchino Rossini. Successivamente stabilì un lungo sodalizio con Gaetano Donizetti, terminato nel 1838, quando il grande compositore bergamasco lasciò la sua città d’adozione contrariato per la censura del suo Poliuto e deluso per la mancata assegnazione della direzione del Conservatorio, al quale aveva dedicato grande impegno e passione in qualità di maestro di composizione. Barbaja, per tutti i lunghi anni della sua gestione, affidò la direzione dei musicisti del San Carlo a Giuseppe Festa, il miglior direttore d’orchestra che fosse allora in Italia, e, con qualche breve interruzione, ebbe come scenografo Antonio Niccolini, il famoso architetto toscano. Fu così che egli poté mettere in scena più di cento rappresentazioni all’anno e un gran numero di prime assolute, compreso Bianca e Gernando, l’opera che diede avvio alla breve e luminosa carriera di Vincenzo Bellini.

Intorno a quest’uomo si concentrarono curiosità e malevolenza, riconoscenza ed elogi, pettegolezzi e fantasie per non parlare dell’attenzione e dell’interesse con cui personaggi anche insigni riguardarono a lui. Domenico Barbaja alimentò una vasta e contraddittoria letteratura da cui è assai difficoltoso trarre un giudizio obbiettivo sulla sua personalità. C’è chi definì avido, avaro e strozzino, chi sordido e vizioso. Per alcuni fu di aspetto deforme, per altri di piacevole aspetto e quasi attraente. Tutti d’accordo, però, nel riconoscergli una grande versatilità che compensava la sua scarsissima cultura. Accorto uomo d’affari, fu buono, generoso, mai vendicativo nei confronti dei suoi numerosi avversari. Potente più che i ministri del sovrano tanto da essere definito il “viceré” di Napoli, egli profittò di quella sua condizione privilegiata soltanto per rendere più belli, addirittura splendidi, i suoi spettacoli. Ricco, straricco, dovette la sua fortuna solo al proprio talento, e della opulenza ebbe una concezione rinascimentale che lo spinse al mecenatismo verso singoli, e alla costruzione di edifici sacri e profani capaci di dare una sempre maggiore dignità alla sua amata Napoli.

Certo, ebbe un carattere difficile e soggiacque fin troppo spesso e volentieri al fascino dell’eterno femminino fino a divenire, egli autoritario e indipendente, arrendevole come un fanciullo nelle mani di una sua primadonna, che, se aveva parzialmente perduto la voce, aveva però mantenuto tutte le caratteristiche estetiche di una straripante sensualità: Isabella Colbrand. Fu amico di molti, sincero e leale soprattutto verso Gioacchino Rossini, che aveva chiamato a Napoli a scriver musica per i suoi teatri e con il quale mantenne saldi rapporti affettivi anche dopo che il musicista pesarese un giorno, improvvisamente, si dileguò con la vezzosa refurtiva appunto della Colbrand che poi divenne sua moglie il 15 marzo 1822.

A un certo punto il Barbaja, forse stanco, abbandonò la gestione anche del San Carlo, ma più tardi struggendosi di nostalgia per l’ambiente cui aveva dedicato tutta una vita di febbrile attività, fece ricostruire un malandato teatro sotto Monte Calvario che assunse così il nome di Nuovo. Là raccolse le giovani speranze della musica e della danza e attivamente le incoraggiò e le protesse.

Così un giornale napoletano dell’ottobre 1841 descrive il funerale di Domenico Barbaja: ”Ne accompagnavano la salma al Camposanto i suonatori e i cantanti del Real Teatro San Carlo, del Fondo e del Teatro Nuovo, la compagnia francese di prosa, quella del teatro dei Fiorentini e una infinità di amici. Vecchi cantanti malati e infermicci si fecero portare in bussola e qualcuno andava strascinandosi appresso sorretto da due persone…”

Non era più tempo ormai per la blandizie dell’adulazione servile e quella dimostrazione compatta di stima e d’affetto non poteva rappresentare che il compianto sincero di cuori grati e affranti.



Luciano Luciani

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