01 settembre 2014

"Una serata a casa Puccini " di Angelica D'Agliano




Come piccoli borghesi 

Le poltrone del Gran Teatro all’aperto sono come uno sciame sull’acqua del lago, ci si arriva galleggiando, su una passerella fra le barche e le dita perlacee dei giunchi. Ci tenevamo per mano, io malcerta sui tacchi avevo un occhio appannato perché mi sono sempre truccata male e sulle scarpe da donna non so camminare. Poi si è alzato il vento ed è cominciata la musica e  pensavo che quello dovesse essere ciò che sentiva forse Puccini nelle sue mattine di caccia a Massaciuccoli. Lunghe file di guardie e un coro di popolani avevano già guadagnato il proscenio e una melodia come di battaglia investiva noi turisti o cittadini versiliesi, coi nostri binocoli da teatro, i piccoli cuscini di gommapiuma, le coperte che sventagliavano al fresco vento di sud ovest, carico d’acqua, buio, a tratti minaccioso.

La casa di Puccini è ancora affacciata sul lago alle soglie di una lingua di cemento, con la serra Ottocento e un portoncino talvolta socchiuso nei giorni di visita, come fosse una pregevole dépendance del più pregevole Teatro. Le persone a volte vanno a mangiare il pesce nei ristoranti vicini, scivolano davanti al cancello chiaro e le palme che non fanno ombra. Giovani donne si tengono sottobraccio per raggiungere i caffè dai nomi d’Opera, e dalla vicina macchia di pini e ligustri, dai ciuffi di piante acquatiche appena impensierite dalla superficie del lago si leva qualcosa di sapore scuro, qualcosa come una tenera aria di jazz.
 

E allora penso che il lusso e l’invito al viaggio, il senso di distruggimento e di miseria, il rosso velluto degli archi nelle Opere di Puccini fosse una specie di sovrabbondanza ch’egli avesse presente  in testa in una forma molto minore e molto più completa, ma che non ci fosse altro modo per dire quel che aveva da dire, e che questo vada già bene per riempire la vita di moltissimi , senza che ci sia la possibilità di stancarsene mai.
Questo penso o pensavo anche l’altra sera quando all’improvviso il vento non ci ha dato più tempo. L’aria si è fatta sorda, sempre più densa, un fremito ha sciolto le nuvole e l’acqua si è rovesciata su una delle infinite recite di Turandot, appena un sospiro dopo la morte di Liù. Siamo scappati tutti, come piccoli borghesi.


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