28 luglio 2015

Su Giorgio Manganelli



nota di Davide Pugnana

Nella saggistica italiana, pochi hanno avuto il senso della forma e della "sprezzatura" nel cesello come Giorgio Manganelli. Ogni sua pagina sembra uscita dal lavorio di un maestro orologiaio, nel senso che sul suo tavolo il meccanismo della lingua non aveva segreti, e dove l'intuizione finiva iniziava l'artigianato di alto bordo.

Lo ricordava anche Pietro Citati. Il quale diceva, a mo di confronto, che parlando, Calvino si inceppava, si interrompeva, emetteva frammenti e rottami aforistici:
… ma Manganelli parlava superbamente. Non ho mai ascoltato nessuno parlare così. Come un grande padre predicatore o un papa rinascimentale o un diplomatico secentesco, ostentava gerundi, participi presenti, parole rare, proposizioni subordinate dentro altre proposizioni subordinate, piuccheperfetti, con una esattissima consecutio temporum, nutrendosi avidamente di parole sanguinanti arrosti di sostantivi, colorati contorni di aggettivi, folleggianti salse di verbi e di avverbi. Lo straordinario era che, in lui, il pensiero più sottile e complicato diventava subito, senza un attimo di incertezza e di dubbio, forma verbale: a tal punto la sua mente era dominata dall'istinto formale.

Questo eloquio splendidamente rotondo si rispecchia nel ritmo della pagina scritta.
Un esempio può essere questo brano di recensione/saggio ai "Tre moschettieri":
 “Ma quando il libro è finito, e i personaggi, i vivi e i morti, si sono congelati dai nostri applausi, abbiamo la subitanea sensazione che qualcosa si corrompa e si disfaccia; di un libro corposo ed aggressivo resta un vortice di ceneri. A questo punto, possiamo porci la domanda: che cosa, esattamente, non resta nelle nostre menti, a lettura conclusa? Non resta la geometria, la disposizione astratta, il disegno segreto, quella sorta di clandestino acrostico, indovinato ma non mai decifrato, che talora rende eterna, nella mente del lettore, la "forma " di un libro di cui ogni dato sensibile sia stato consumato dall'oblio.
(Giorgio Manganelli, "La letteratura come menzogna")

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