19 marzo 2016

"19 marzo" di Luciano Luciani

                                    Georges de La Tour
Giuseppe: babbo di Gesù, 
              falegname e friggitore.

Giuseppe, il santo babbo di Gesù, ne era solo il padre putativo, ma con la missione di proteggere e custodire il Verbo incarnato e sua madre. Insomma, un protagonista assoluto, strategico, del progetto divino della Salvezza, esempio di pazienza e mitezza, castità e virtù paterne. Assai apprezzato in oriente prima, in occidente poi, dove in tempi relativamente recenti è stato proclamato protettore della Chiesa universale, Giuseppe risulta molto amato a Roma, probabilmente per l’influenza esercitata nel corso dei secoli sugli orientamenti ideali e religiosi del popolo capitolino dalla Confraternita dell’Arte dei Falegnami, potentissima lobby professionale e non solo, sorta a Roma nel 1540, con san Giuseppe a suo patrono. Santo lavoratore, anzi proletario, il suo nome è stato sempre ben presente nell’onomastica delle famiglie umili della capitale che, povere di beni ma non di figli, non si facevano quasi mai mancare un Peppe, un Peppino o una Pina.

Le frittelle di san Giuseppe
Festa di precetto (19 marzo) istituita da papa Gregorio XV e mantenuta tale fino a non molto tempo fa, ha visto le sue solennità intridersi di remote usanze popolari legate al ciclo della primavera e risalenti, credibilmente, alle Liberalia romane, celebrate negli stessi giorni dell’anno in onore di Libero, antica divinità italica della fecondazione, poi identificata col greco Bacco, inventore del vino: divinità della festa e dell’allegria, della trasgressione e del piacere. Nell’antica Roma, in occasione di questa festività gli adolescenti romani sedicenni indossavano la toga virile, mentre giovani sacerdoti e sacerdotesse, il capo ornato da serti di fiori e fronde, percorrevano le vie della città offrendo al dio il foculus, una pasta dolce molto simile alle frittelle nostrane. Una consuetudine, questa, che si è ripetuta ogni anno sino almeno alla metà del secolo scorso: intorno alla metà di marzo, infatti, il centro di Roma (piazza Barberini, piazza Navona, Campo de’ Fiori) e la sua periferia nord-est, soprattutto il quartiere Trionfale dove sorge  la Basilica minore di san Giuseppe, si popolavano di bancarelle provviste di pantagruelici calderoni d’olio bollente in cui venivano fritti – e consumati, ovviamente - migliaia e migliaia di frittelle e bignè in onore del casto sposo di Maria. Giuseppe, infatti, secondo una originale versione tutta romana della storia sacra frutto della fervida fantasia del popolino romano, per campare la famiglia dopo la fuga in Egitto avrebbe esercitato per qualche tempo e con un certo successo anche il mestiere di friggitore. Così raccontano questa curiosa riconversione professionale del santo più importante di tutti quanti gli altri i versi bonari e affettuosi del poeta romanesco Adolfo Giaquinto (1847-1937):

San Giuseppe faceva er falegname
e benché fusse artista del talento
nun se poteva mai levà la fame
pe cquanto lavorasse e stasse attento:
un giorno fece: “Alò! Ccambiamo vento.
Lassam’annà ‘sto mestieraccio infame!”
Prese ‘na sporta, messe tutto drento,
e ccaricò er somaro de legname.
Poi se n’annò in Egitto co’ Maria,
e doppo un par de giorni ch’arivorno
uprì de botto ‘na friggitoria.
Co’ le frittelle fece gran affari,
apposta in tutta Roma, in de sto ggiorno
sorteno fòra tanti frittellari.


Se per l’antropologia culturale il fuoco e il fumo rimandano a riti antichi di purificazione agraria tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, a noi, ragazzi di ieri che ci aggiravamo con curiosità e stupore - e un certo appetito proprio dei figli dell’immediato dopoguerra - per le strade e le piazze di Roma, rimane il ricordo, indelebile nella memoria, di un sentore, forte e solleticante, di fritto nel naso e di un sapore, dolce e unto, nel palato.

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