Quando venni a vivere a Lucca c'era una libreria inglese in Borgo
Giannotti, a una decina di minuti a piedi, dall'interno della città dove abitavo. Era l'unica
libreria straniera della città e il suo proprietario, che era per metà inglese e per metà
italiano, era un libraio affabile e colto e alla fine divenne un amico. La sua bottega fu una
sorta di rifugio durante i miei primi anni in Italia; mi distolse dalla mia
inguaribile nostalgia di casa e dal senso di alienazione dovuto alla mia
incapacità di parlare la lingua.
Per coincidenza, le volte che frequentavo la libreria c'era sempre un uomo
strano, rozzo, con i capelli arruffati, aveva la faccia come se non avesse
dormito per settimane, la barba lunga e sporca, i baffi folti con la pipa in
bocca. Sembrava un rivoluzionario dell'Ottocento con il suo cappotto anche nel
caldo di giugno e veniva continuamente rimproverato dal libraio: "Pier
Paolo per favore! Non fumare qui dentro! Vai fuori!", al quale come rispsta seguiva una fragorosa risata condita da colpi di tosse.
In quel periodo lo strano uomo era già una specie di leggenda nella città.
Una volta, alle sue spalle, il libraio mi sussurrò all'orecchio: "Il Van
Gogh di Lucca". Sulle pareti della libreria erano inchiodati alcuni quadri
dello strano uomo. Avevo imparato presto che le sue opere erano sparse un po'
ovunque: nelle case, nei bar, nei negozi e persino nei ristoranti. Una volta il
libraio mi invitò a cena in una trattoria del posto dove il pittore era solito
consumare i suoi pasti; in effetti, il locale era pieno di suoi quadri, come se
fosse la sua galleria privata. Dipingeva velocemente; li vendeva quando e dove
poteva; alcuni li regalava.
Recentemente la città, in onore dell'opera dell'artista, ha organizzato una
mostra intitolata "Pier Paolo Pierucci: Pittore di luce e di colore".
Voglio dire qualcosa sul suo lavoro.
I critici locali sottolineano spesso la sua affinità con Van Gogh sia come
influenza artistica sia come destinatario di quel termine troppo romantico di
"pazzo". Come il pittore olandese, Pierucci trascorrerà l'ultimo
periodo della sua vita in un ospedale psichiatrico. Questa coincidenza è più
una caricatura che un omaggio estetico.
Il termine "follia", quando viene utilizzato nell'analisi
storico-artistica, contiene una valenza romantica e molto spesso non riesce a
spiegare l'arte più che l'artista; e nei confronti di quest'ultimo l'etichetta
è piuttosto condiscendente, come se la produzione stessa dell'arte fosse
preordinata a una certa patologia e per lo spettatore si dovesse presupporre un
artista malato per apprezzare e comprendere l'arte. Abbandoniamo il termine e
guardiamo i dipinti di Pierucci.
Lui, come il pittore olandese, è un autodidatta; se c'è qualcosa che li
accomuna è il fatto di essere stati entrambi risparmiati dalle rigide teorie
estetiche e dalle preoccupazioni tecniche delle scuole d'arte; e soprattutto
entrambi possiedono la capacità di essere mistificati.
Pierucci dipinge come qualcuno che ha visto l'oggetto innumerevoli volte e
tuttavia è spinto a dipingerlo perché la familiarità dell'oggetto è
accompagnata dal mistero. Un oggetto familiare, se osservato con profonda
attenzione e concentrazione, genera il proprio mistero. Questo forse spiega
l'emozione delle sue pennellate.
Van Gogh: "È l'eccitazione, l'onestà di un uomo della natura, guidato dalla mano
della natura. E a volte questa eccitazione è così forte che si lavora senza
accorgersene: i colpi di pennello si susseguono rapidamente e si susseguono uno
dopo l'altro".
Perché l'impulso a dipingere nasce da questa emozione. Non è l'eccitazione
del turista che ammira solo ciò che desidera vedere. Quando Pierucci dipinge un
certo paesaggio o una veduta della sua città, il sentimento di casa si riempie
allo stesso tempo dell'aura e della sorpresa di una scoperta archeologica.
Quando la dipinge si scopre qualcosa della città, qualcosa che alla maggior
parte dei turisti sfugge: il mistero.
Quando Pierucci dipinge la Chiesa di San Michele in condizioni climatiche
diverse è come se osservasse una bella donna che cambia abito a ogni ora del
giorno! Per Pierucci la città è la sua donna. E proprio come una donna amata,
lo ispira e lo frustra allo stesso tempo; ma non è mai noiosa, perché la città
è misteriosa come una donna. Lui conosce tutti gli aspetti della sua bellezza,
anche il suo nervosismo e la sua tristezza.
Nella sua eccitazione i paesaggi e le vedute che dipinge gli rivelano i
loro nomi di donna.
La chiesa di San Michele è Michela, San Martino è Martina, San Frediano è
Frida, San Cristoforo è Cristina, una certa strada è Irene, una certa piazza è
Francesca, un pezzo di muro è Giuliana. E ogni donna lo ha amato a modo suo.
Questa eccitazione afferma la spontaneità e l'immediatezza dei suoi colori,
che sembrano saltare fuori dai tubetti direttamente sulla tela e le sue pennellate perdono il
controllo come un'erezione! Forse vigorosa è la parola giusta per descrivere
questa intensa celebrazione visiva, quasi sessuale, della sua storia d'amore
con Lucca, la sua città.
Da qui possiamo andare oltre.
Dall'anno della sua morte, nel 2018, a oggi sono accaduti eventi drammatici
nel mondo. L'esperienza di Covid-19 e le sue conseguenze hanno messo in
discussione il nostro senso di appartenenza e il nostro senso del luogo, in
quanto tutte le forme di movimento sono state limitate e hanno messo a nudo il
nostro completo isolamento dal mondo naturale. Le opere di Pierucci, viste da
questa prospettiva, sono piene di senso del luogo: un sentimento profondo per
la casa che è l'opposto dell'isolamento. Ha dipinto Lucca come una sorta di
gratitudine non espressa perché non avrebbe potuto vivere in nessun altro
luogo. Ricordo i versi del grande poeta siriano Nizar Qabbani: "Non ti ho
amato solo come persona, ma ti ho amato come patria, non volevo appartenere a
qualcun altro".
La pittura per Pierucci è una forma di radicamento, un atto di
cittadinanza. Ciò che si ritrova nella sua arte non è l'affermazione dei clichè della follia, ma la gioia di appartenere, di essere "qui e ora" - persino i
suoi dipinti di fiori sembrano urlare, lamentarsi, gioire, celebrare il loro
breve posto in questo mondo. I suoi colori vibranti non sono affatto indicativi
di un ritorno all'innocenza, né suggeriscono la conservazione dello spirito del
bambino che è in un artista. Nella vita possiamo solo fingere di essere
innocenti, ma questa finzione porta a dure conseguenze. L'esperienza di
Covid-19 ne è una prova. In effetti, la civiltà è tornata al lavoro; la
tragedia è stata dimenticata; attendiamo inconsapevolmente un altro disastro.
Le opere di Pierucci sono l'antitesi di questa indifferenza. I suoi dipinti
affermano il senso di appartenenza che rende una responsabilità di
cittadinanza, di amore per il nostro luogo, questo mondo. Le sue opere si
confrontano con il futuro di una città come Lucca, come qualsiasi altra città
italiana, che si sta rapidamente alterando a causa della volgarizzazione
dell'eccesso di turismo. I suoi dipinti comunicano l'altra faccia di questa
trasformazione.
Carlo Rey Lacsamana è uno scrittore, poeta e artista filippino nato e
cresciuto a Manila, nelle Filippine. Dal 2005 vive e lavora nella città toscana
di Lucca, in Italia. Collabora regolarmente con riviste filippine, scrivendo di
politica, cultura e arte. I suoi lavori sono apparsi su Esquire Magazine, The
Citron Review, Mediterranean Poetry (Stoccolma), Amsterdam Quarterly, Lumpen
Journal (Londra), The Berlin Literary Review, Literary Shanghai e in altre
numerose riviste. Il suo racconto Toulouse è stato registrato come storia in
podcast nel podcast narrativo Pillow Talking (Australia). Seguitelo su
Instagram@carlo_rey_lacsamana
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