24 agosto 2024

" Teresa Bandettini si racconta" di Luciano Luciani

 

 


All’improvviso, la Poesia

 

      Nacqui lucchese nell’anno 1763, nella notte compresa tra i giorni 11 e il 12 agosto, e lucchese morrò per la grazia di Dio, quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Sono vecchia oramai, più che settuagenaria, nell’anno che corre dell’era cristiana 1837, eppure ancora giovine di cuore, forse meglio di quanto sia mai stata nelle mie combattuta giovinezza ed età adulta. Molto vissi e molto soffersi. La mia indole, l’ingegno, la prima educazione e le operazioni e le sorti che ne seguirono furono, come ogni altra cosa umana, un misto di bene e di male. 

       Di mio padre, Benedetto Domenico, non ricordo nulla, di nulla posso aver memoria ché ebbe a morire quando ancora imparavo ad articolare parole… Già, le parole: che negli anni a venire sarebbero state tanta e tanta parte della mia esistenza. Imparai a leggerle e a scriverle grazie a mia madre, Maria Alba, che mi fu maestra d’alfabeto. Mi incantavano, le parole: per le loro sonorità sempre diverse, per il libero giuoco degli accenti, i loro significati palesi e reconditi, la musica che avevano dentro, la magia della rima, l’alchimia dell’assonanza… 

      Dopo Lucca, la mia patria ideale sarebbe stata quella delle lettere. A esse avrei desiderato, toto corde, dedicarmi, ma c’era da contribuire al decoro di una famiglia priva della sua guida e per questo destinata al declino, se non addirittura alla fame. Un obiettivo da me perseguito con l’attività di ballerina a cui la mia genitrice m’aveva, fin dai più teneri anni, severamente indirizzata. E così, bambina e adolescente, mi muovevo con grazia al ritmo della musica, volteggiavo, piroettavo sui palcoscenici dell’intera penisola, nei teatri di Bastia, Firenze, Bologna, Venezia riscuotendo dappertutto consensi e successi. Ma non abbandonavo le lettere. Ballavo, ballavo e leggevo. Forsennatamente m’intridevo di poesia; Metastasio e Dante, Petrarca e Ariosto, il Tasso e Ovidio costruendomi, a poco a poco, la fama di “ballerina letterata”.

       Se oggi una chioma candida incornicia il mio viso tramato da una rete di rughe, com’ero, allora, a poco più di vent’anni, fedele seguace dell’arte tersicorea? Come mi vedevano gli altri?

       


     Di me coglievano gli occhi nerissimi e folgoranti; una bocca ben tagliata e sempre sorridente, denti bianchissimi che illuminavano un personale svelto ed elegante; giusto e ben profilato il naso; non molto tumido il petto. E poi, un’aria di persona concentrata su se stessa, sempre impegnata a pensare, riflettere, filosofare… E della fresca bellezza del mio corpo e dello spirito poetico e sognante ben s’accorse un uomo, Pietro Landucci, un conterraneo, da me incontrato a Imola. M’innamorai di lui e lui di me. Lo sposai a Bologna e fu lui a rivelare al mondo i miei talenti, ancora in gran parte nascosti, e a trasformarmi da ballerina in poetessa improvvisatrice: ovvero, capace di improvvisare in rima su qualsiasi argomento proposto dal pubblico. Un dono il mio, un dono degli dei, una grazia… Comunque da coltivare, da valorizzare, da affinare con uno studio indefesso del latino, del greco, del francese per ottenere quella sapienza letteraria che mi portò a essere applaudita nei teatri di tutt’Italia da Udine, a Ferrara, e poi a Venezia, e quindi a Padova, Verona, Mantova… Acclamata dai più qualificati intellettuali del tempo - dal gesuita Bettinelli, al biologo Spallanzani, dal fisico Alessandro Volta allo scienziato e poeta Lorenzo Mascheroni… -  Giuseppe Parini mi conobbe a Milano e subito m’ebbe cara e lo stesso accadde al corrucciato Vittorio Alfieri. E, finalmente, Roma! Qui, di fronte a un pubblico di colti aristocratici ed esigenti letterati, quello dell’Accademia dell’Arcadia - impreziosito dalla presenza di Vincenzo Monti, il più famoso poeta del tempo - mi cimentai in un’impresa che avrebbe fatto tremare le vene dei polsi a qualsiasi illustre e dotto intellettuale del tempo. Sì, in quella sede prestigiosa, fui capace d’improvvisare poeticamente sullo stesso argomento per ben otto volte, ognuna secondo un metro diverso. E quell’elevato e nobile consesso m’accolse tra i suoi pastori-poeti con nome greco di Amarilli Etrusca. 

       E Lucca, la mia città, come si è portata nei miei confronti? Come suo solito. Gloria, onori, tante lusinghiere parole di lode… Quattrini, però, pochi. Sì, perché vista la mia fama letteraria, pensavo di aver maturato titoli a sufficienza per aspirare a uno stipendio stabile da parte del governo. Ma quale governo se la mia vita correva a cavalcione di due secoli che resteranno un tempo assai memorabile nella storia italiana? Il turbine rivoluzionario che, partito dalla Francia, aveva attraversato l’Europa non aveva certo risparmiato la Toscana e, meno che mai, Lucca. Dove le malelingue mi dissero filofrancese, filogiacobina e, perfino, troppo, troppo vicina a certi generali transalpini… Mai fu profferita stupidaggine più grande… Io improvvisavo versi, sonetti, odi, cantate… E lo facevo come ditta dentro per celebrare sia le vittorie di Napoleone e delle armi francesi, sia la grandezza della corte russa o di quella di Vienna dove fui addirittura in predicato di prendere il posto del celeberrimo Metastasio. Comunque, per ottenere un modesto, e mai sufficiente, riconoscimento economico, ché le spese sono tante, fui costretta ad attendere fin oltre i miei quarant’anni e non mi venne né dai lucchesi, né dai francesi, ma da un milanese, il conte Francesco Melzi d’Eril, figura eminente del bello italo regno.

         Salvifica, davvero salvifica, quella pensione ottenuta lottando con le unghie e con i denti! E, nonostante i tempi profondamente cambiati, l’ho mantenuta grazie ai buoni uffici di Sua Altezza Reale duca di Modena e m’ha fatto non poco comodo adesso che sono vedova, vecchia e malata… E Cecco, Francesco, il mio unico amatissimo figlio, non m’aiuta? Dopo aver fatto di tutto, davvero di tutto, per sistemarlo a corte, quella lucchese dell’ottimo Carlo Ludovico, come mi ha ricompensato quel baggiano? Sposandosi con una disgraziata di lui maggiore d’età di 10 o 12 anni, che per tutta dote gli ha portato una bambina di primo letto. Cosa volete farci? Gli uomini sono tutti uguale ed è proprio vero che “Amor non mira lignaggio, né fede, né vassallaggio”. E, comunque, lo ripeto: Cecco è proprio un gran bel baggiano! Mi consola solo la stima che ancora sento a Corte nei confronti miei e della mia poesia. Non molto tempo fa, Carlo Ludovico in persona si è adoperato per far stampare dal Bertini, il tipografo ducale, un’antologia dei miei improvvisi più famosi. Una raccolta pubblicata in un’edizione così ben curata che non ho avuto remore a inviarla alle più eminenti personalità della penisola: il duca di Modena, il granduca di Toscana, il re di Sardegna… Magari, sarebbe potuto derivarne un qualche beneficio economico… Anche se, finora, a parte una medaglietta d’oro del sovrano sabaudo, benefici se ne sono visti pochi!

       Insomma, l’età avanza, la salute declina, i soldi, come sempre, scarseggiano e la mia poesia, quella per cui eccellevo in virtù del verso istantaneo, il mio inutile, meraviglioso mestiere, non interessa più nessuno.

 


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