di Marigabri
Quel fuoco la brucia e la consuma. Quel
fuoco brucia e devasta chi ha la sventura di starle accanto. Soprattutto chi da
lei è nato: Antonio, “ ‘o scrittore” e le sue due sorelle (di cui una, la più
remissiva e soggiogata, è definita “zoccola e puttana”).
È Angela: la madre più aggressiva,
indomabile, detestabile che mai figlio sventurato possa avere in sorte. Figlia
essa stessa di una cattiva sorte e tuttavia ingiustificabile nei suoi eccessi
di rabbia, nel suo costante livore e nel disprezzo per il mondo che viene
espresso in puro gergo napoletano, con l’esibizione di uno stupefacente
scilinguagnolo autoreferenziale. Con climax ascendente ed eterno ritorno
dell’identico.
Donna impossibile, Angela, portatrice
del più bieco bagaglio di luoghi comuni e disvalori, sempre ben conditi da
aspre maledizioni verso tutto e tutti…esserne biologicamente parte può
significare soltanto sviluppare il coraggio e la forza per separarsene
radicalmente.
E scriverne? Che significato può avere
per Antonio Franchini farne un ritratto così spietato -che immaginiamo vero- e
così impudico? Una liberazione? O un risarcimento post mortem? Perché quel che
sappiamo di Angela è che il suo amor proprio (“so’ vanitosa”) viene soddisfatto
dall’essere messa al centro della scena. Che se ne parli bene o male non conta,
purché se ne parli, appunto.
E Franchini lo fa da grande scrittore,
non c’è dubbio.
Il viaggio verso la vecchiaia e
(finalmente) la morte di Angela è una via crucis costellata di brevi ma intense
stazioni: oltre alla descrizione del temperamento materno e alle considerazioni
di carattere generale sul mistero dell’esser gettati nudi e inermi nel
periglioso mondo, ecco la costellazione degli episodi e dei personaggi che ne
testimoniano le conseguenze, in un carosello di orrore e divertimento (complice
il vernacolo colorito) che però non perde mai quel certo gusto amaro.
Perché sappiamo che la commedia, la
sceneggiata napoletana, ha da sfociare infine in qualche inevitabile tragedia.
Dove la domanda delle domande: “Pecché s’adda murì?” campeggia sovrana nello
sfondo di questo millenario teatro umano.
A chi legge è chiesto di sistemarsi
comodamente nella poltrona davanti a un vasto palcoscenico per assistere alla
danza sempiterna delle maschere della vita, al dramma dell’essere al mondo, al
piroettare del bene e del male stretti in un allaccio fatale. Alla vita e alla
morte, avvinghiate in un solo, insolubile, nodo. (Pecché s’adda murì?)
Esserne risucchiati e partecipare al
tormento o restare immobili e distaccati spettatori non è una scelta che si può
operare consapevolmente. Dipende da ciò che il gioco narrativo muove, quando
ciascuno confronterà questa madre con la propria madre, questa storia con la
propria storia, questi sentimenti e questo destino con i propri sentimenti e
destino.
Di sicuro a una scrittura così intensa e
vibrante non si può rimanere indifferenti.
Sappiamo che avventure di padri e di madri sono la quintessenza delle storie raccontate nei libri e come sempre è solo il talento di chi scrive che può farne letteratura. Cioè intima, misteriosa verità. Ed è precisamente quel che qui accade.
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