26 giugno 2024

"Il fuoco che ti porti dentro" di Antonio Franchini

  


di Marigabri

                  Quel fuoco la brucia e la consuma. Quel fuoco brucia e devasta chi ha la sventura di starle accanto. Soprattutto chi da lei è nato: Antonio, “ ‘o scrittore” e le sue due sorelle (di cui una, la più remissiva e soggiogata, è definita “zoccola e puttana”).

                 È Angela: la madre più aggressiva, indomabile, detestabile che mai figlio sventurato possa avere in sorte. Figlia essa stessa di una cattiva sorte e tuttavia ingiustificabile nei suoi eccessi di rabbia, nel suo costante livore e nel disprezzo per il mondo che viene espresso in puro gergo napoletano, con l’esibizione di uno stupefacente scilinguagnolo autoreferenziale. Con climax ascendente ed eterno ritorno dell’identico.

                Donna impossibile, Angela, portatrice del più bieco bagaglio di luoghi comuni e disvalori, sempre ben conditi da aspre maledizioni verso tutto e tutti…esserne biologicamente parte può significare soltanto sviluppare il coraggio e la forza per separarsene radicalmente.

                   E scriverne? Che significato può avere per Antonio Franchini farne un ritratto così spietato -che immaginiamo vero- e così impudico? Una liberazione? O un risarcimento post mortem? Perché quel che sappiamo di Angela è che il suo amor proprio (“so’ vanitosa”) viene soddisfatto dall’essere messa al centro della scena. Che se ne parli bene o male non conta, purché se ne parli, appunto.

                   E Franchini lo fa da grande scrittore, non c’è dubbio.

                  Il viaggio verso la vecchiaia e (finalmente) la morte di Angela è una via crucis costellata di brevi ma intense stazioni: oltre alla descrizione del temperamento materno e alle considerazioni di carattere generale sul mistero dell’esser gettati nudi e inermi nel periglioso mondo, ecco la costellazione degli episodi e dei personaggi che ne testimoniano le conseguenze, in un carosello di orrore e divertimento (complice il vernacolo colorito) che però non perde mai quel certo gusto amaro.

                  Perché sappiamo che la commedia, la sceneggiata napoletana, ha da sfociare infine in qualche inevitabile tragedia. Dove la domanda delle domande: “Pecché s’adda murì?” campeggia sovrana nello sfondo di questo millenario teatro umano.

                 A chi legge è chiesto di sistemarsi comodamente nella poltrona davanti a un vasto palcoscenico per assistere alla danza sempiterna delle maschere della vita, al dramma dell’essere al mondo, al piroettare del bene e del male stretti in un allaccio fatale. Alla vita e alla morte, avvinghiate in un solo, insolubile, nodo. (Pecché s’adda murì?)

                 Esserne risucchiati e partecipare al tormento o restare immobili e distaccati spettatori non è una scelta che si può operare consapevolmente. Dipende da ciò che il gioco narrativo muove, quando ciascuno confronterà questa madre con la propria madre, questa storia con la propria storia, questi sentimenti e questo destino con i propri sentimenti e destino.

                Di sicuro a una scrittura così intensa e vibrante non si può rimanere indifferenti.

              Sappiamo che avventure di padri e di madri sono la quintessenza delle storie raccontate nei libri e come sempre è solo il talento di chi scrive che può farne letteratura. Cioè intima, misteriosa verità. Ed è precisamente quel che qui accade.

 

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