26 settembre 2024

"Intervista impossibile a don Aldo Mei" di Luciano Luciani

 

 

 


Tre giovani. Un ragazzo e una ragazza con abiti e modi di fare propri della contemporaneità, disinvolti, spigliati, diretti… Fa loro da contrappunto un giovane sacerdote, quasi un loro coetaneo, ma già più adulto. Veste un abito talare di tipo tradizionale piuttosto stropicciato; indossa un paio di occhiali tondi, ai piedi calza scarponi da montagna e stringe tra le mani un libro, forse un Breviario, una Bibbia o un Messale.

 Intervistatrice: don Aldo, don Aldo… Che fortuna averla incontrata… Non sia timido, non si neghi... Si fermi, scambi due parole con noi. Io e il mio collega siamo due redattori di Teleradio Toscana Duemila. Lo sa che, proprio in questi giorni a Lucca, Lei è al centro di numerose manifestazioni che intendono ricordarla… Lei, la sua vita, il suo sacrificio… Si fermi un attimo, avremmo tante cose da chiederle…

Don Aldo Mei: Lo so, lo so…E non posso che essere grato ai Lucchesi di questa memoria che non muore…. Io, però, sono solo un povero parroco di campagna e non merito tante attenzioni. In fondo, ho solo cercato di essere coerente col Vangelo e i suoi insegnamenti: ho protetto i più deboli, i più indifesi come hanno fatto tanti, tanti altri sacerdoti della mia diocesi. È di loro che dovreste parlare, sono loro quelli da intervistare…

Intervistatore: non sia così modesto, don Aldo. Per noi, che a ottant’anni di distanza riguardiamo alla sua testimonianza di fede, la sua scelta appare straordinaria, rivoluzionaria…

Don Aldo Mei: attenti alle parole! Rivoluzionario, rivoluzione… Sono termini che nel tempo sono venuti assumendo altri connotati… Politici, sociali, ideologici e non mi riguardano… Io resto fedele alla lezione del mio vescovo, Antonio Torrini. Per lui (sale di tono) niente si può costruire seriamente nella società prescindendo da Dio e dal suo Decalogo, la norma regolatrice della vita degli uomini. Senza l’uno e l’altro, l’uomo, da solo, non può aspirare, non dico alla felicità eterna, ma neppure a quella terrena. Più che riformare la società i cristiani si dovrebbero adoperare per migliorare se stessi e farsi più sinceri, più coerenti, più giusti di quanto siano stati fino ad adesso, prendendo a modello l’unico maestro di verità, nostro Signore Gesù Cristo… (Quasi gridando) Altro che politica e rivoluzione! L’unica rivoluzione possibile è quella della coscienza personale!

Intervistatore. D’accordo, don Aldo, d’accordo. Non si arrabbi, però. Invece, se vuole, ci racconti di sé, della sua famiglia, della scoperta della vocazione…

Don Aldo Mei: (rabbonendosi e col tono velato dalla nostalgia) Sono nato verso la fine dell’inverno del 1912 tra gli olivi, i castagni e le viti terrazzate dalla fatica di generazioni di agricoltori. Il mio paese d’origine si chiama Ruota di Capannori, sì e no trecento abitanti, 400 metri sul livello del mare sul versante lucchese del Monte Serra, a 18 chilometri dalla Città delle Mura. Mia madre si chiama Assunta, la mia dolcissima mamma Assunta che mi ha insegnato a pregare, mio padre Antonio. Una famiglia cattolicissima in cui ben tre (io, Americo e Natale) dei cinque figli hanno seguito la via del sacerdozio. In questa direzione ci ha ispirato anche l’esempio di zio Pasquale Mei, amato e rispettato parroco di Pedona di Camaiore per oltre quarant’anni. È stato lui a permetterci, a permettermi, di cogliere la chiamata di Gesù, la vocazione all’impegno pastorale. Per cui, quando nel 1926 mi si sono aperte le porte del seminario arcivescovile mi è sembrato il modo normale e dignitoso di trascorrere dall’età dei giochi a un’età, giovanile sì, ma sensata e responsabile. Ordinato sacerdote nel 1935 nella chiesa di San Pietro Somaldi a Lucca da monsignor arcivescovo Antonio Torrini, mi viene affidata la parrocchia di Fiano di Pescaglia: un centinaio di famiglie per poco più di 500 abitanti, ai piedi delle Apuane. Un ambiente molto simile a quello di provenienza, popolato da allevatori di capre, pecore e mucche e da contadini che dalla coltura dell’olivo e del castagno traggono il loro faticato sostentamento. E qui rimango per oltre sette anni…

Intervistatore: dicono di Lei che sia stato un parroco tanto amorevole quanto severo. Soprattutto con i giovani…

Don Aldo Mei: con tutta probabilità, si sta riferendo ai miei sforzi per contrastare la cattiva stampa e la perniciosa moda del ballo… Sì, ho giudicato negativamente certe riviste come “Il cinema illustrato”, “Eva”, “Novella” e certi romanzacci sentimentali che circolavano in maniera semiclandestina rivolti soprattutto al pubblico femminile… Quanto al ballo mi sono attenuto al regolamento dell’Azione Cattolica che prevedeva la riconsegna del distintivo dell’associazione da parte di quanti avessero preso parte a questo tipo di peccaminoso divertimento… E anche il modo di vestire delle donne, già allora un po’ troppo disinibito, è stato per me motivo di più di qualche preoccupazione… Avevi voglia tu a promuovere la “Crociata per la purezza” e la modestia nel vestire della gioventù femminile… Se qualche giovane donna si metteva, diciamo così, in regola, non poche però, alcune anche iscritte all’Azione Cattolica, si irritavano e chi s’è visto s’è visto… Se ne andavano e non tornavano più!

Intervistatrice: se non le causa troppo dolore, vuole provare a raccontarci i giorni di quella terribile estate del ‘44?

Don Aldo Mei: proverò, signorina, proverò… (Sospira) Ricordo che la mia piccola comunità di Fiano soffriva, e tanto. Alle durezze proprie di una condizione di vita non facile di suo, si erano aggiunte le sofferenze della guerra che aveva portato lontano non pochi capifamiglia e molti giovani. E come se non bastasse eravamo sottoposti a un feroce regime di occupazione militare da parte di quei Tedeschi che in nome di uno Stato totalitario negavano Dio, la persona e i suoi diritti…A noi religiosi era ben chiaro come il totalitarismo nazifascista rappresentasse un pericolo mortale per la Chiesa: la sua dottrina, i suoi sistemi violenti e repressivi si ponevano all’opposto dei principi che avevano contraddistinto il sorgere della civiltà cristiana. Ho ancora nelle orecchie il rumore implacabile, spietato degli scarponi chiodati della Wehrmacht e delle SS (Il sacerdote prova a riprodurre quel suono) a caccia di uomini per il lavoro forzato, di renitenti alla leva fascista, di ebrei, di partigiani… (Don Mei continua quasi ossessivamente a riprodurre quel rumore).E la popolazione che aumentava di giorno in giorno sulle colline: sfollati che fuggivano dalle città, da Pisa, da Livorno, da Viareggio e che avevano bisogno di tutto sia materialmente sia moralmente… Si consumava un’oppressione e una persecuzione della persona umana che noi cristiani, e segnatamente noi sacerdoti, dovevamo invece garantire perché la difesa dell’uomo è il cuore stesso del cristianesimo.

Intervistatore: mi scusi, don Aldo. In questo agire solidale, Lei era un caso isolato, o faceva riferimento a un’organizzazione, a una rete di assistenza?

Don Aldo Mei: mi permetta, (sorride), e il Signore mi perdonerà, un piccolo peccato di orgoglio… Quando, dopo l’8 settembre, le istituzioni civili si sono sciolte come neve al sole, sono stati i preti gli unici rimasti al proprio posto: il prete, per vocazione l’annunciatore della parola di Dio, ha incarnato spontaneamente la coscienza del popolo. E questo è accaduto per i parroci di campagna, per i giovani sacerdoti appena usciti dal seminario, per i pastori delle piccole comunità come la mia che si sono fatti carico della gente sofferente e spaventata per essere “tutto a tutti”. Hanno vestito gli ignudi e dato da mangiare agli affamati, confortato i dolenti e nascosto i perseguitati di tutti i tipi senza chiedere di appartenenze ideali, culturali, politiche, religiose… Ho pregato per loro, per questi miei coraggiosi confratelli: “fateci, o Signore Gesù, santi sacerdoti, me, e i religiosi tutti della diocesi di Lucca, di questa povera Italia e del mondo intero. Che sia tutta una gara di santificazione e santità”. E la scelta della Chiesa di Lucca di stare dalla parte delle vittime ne ha favorito la conversione al Vangelo della Carità, l’ha sospinta al servizio della gente indifesa, l’ha portata a riscoprire più in profondità la sua dimensione popolare. Figlio di questa Chiesa, “io, povero e indegnissimo parroco di Fiano” non ho mai nutrito ambizioni di potere, ma solo l’ideale di costruire la pace mettendomi, scientemente, dalla parte delle vittime. Cambiando così il cuore, da egoista e quindi chiuso, in aperto e capace d’amore e dono.

Intervistatore: Insomma, una particolarissima, originale, inedita lotta di liberazione la vostra, quella della Chiesa lucchese e delle sue organizzazioni?

Don Aldo Mei: (con un sorriso ironico) lei cosa ne dice? È al parroco che si ricorre per cercare rifugio, per chiedere il pane, per sollecitare la difesa dei più deboli, per ricevere conforto, per avere soccorso quando il corpo è stato straziato dalle armi… La parrocchia diventa così, quasi naturalmente, il luogo dove ci si ritrova per unire le forze, per recuperare insieme il coraggio venuto a mancare, per organizzarsi, per ricostruire la comunità civile che il fascismo ha cercato di schiacciare. Gli stessi uomini di Salò sono stati costretti ad ammettere che “giornali, propaganda e radio della Repubblica Sociale non possono nulla contro le migliaia di parroci che sono contrari”. Anche Mario Piazzesi, il capo neofascista della Provincia di Lucca, in una sua lettera del gennaio ‘44 a monsignor Torrini può solo constatare e minacciare: “In questi ultimi tempi alcune segnalazioni della Polizia mi riferiscono che da parte di alcuni parroci e preti, specialmente nelle zone meno abitate, si seguitano più o meno occultamente, a fornire aiuti, viveri e protezioni agli sbandati e ai prigionieri di guerra.” E poi: “Prego Vostra Eccellenza di richiamare l’attenzione dei detti prelati sopra le gravissime pene che vengono comminate a chi, per qualsiasi motivo, offra asilo, viveri e protezione ai suddetti elementi: pene che vanno dalla fucilazione immediata alla confisca dei beni.”

Intervistatore: una comunità “di santi e di perfetti”, dunque, la Chiesa lucchese?

Don Aldo Mei: No, mi piacerebbe che fosse stata e fosse tale, ma non è andata del tutto così… Conoscete di sicuro anche voi la voce, non ancora sufficientemente documentata dagli storici, secondo la quale il mio arresto e la mia condanna furono dovute alla denuncia di un sacerdote simpatizzante per la parte avversa…

Alcuni religiosi, pochi, per la verità, non seppero vedere e non colsero la vera anima del popolo, non si resero conto di dove abitava Cristo e si accordarono coi carnefici. La grande maggioranza dei sacerdoti, però, capì “i segni dei tempi” e quando l’ingiustizia e la violenza imposero una scelta, essi furono pronti a rischiare e a morire. Sì, la maggior parte del clero lucchese anche nei momenti più cupi di quella terribile estate è rimasta col proprio gregge e non lo ha lasciato in balia dei lupi. È merito di ognuno di questi preti, di ognuna di queste suore, se oggi la Chiesa può volgersi serena dagli altari a insegnare, contro ogni violenza che ritorna, i grandi valori dell’amore, della giustizia, della libertà che rendono la vita degna di essere vissuta. Io ho solo cercato di essere alla loro altezza, tenendo alta la bandiera della carità anche nei momenti in cui è soffiato, impetuoso, il vento dell’egoismo, della materialità, dell’odio e tutta la serie infernale dei mali che ne seguono.

Intervistatrice: dunque una Resistenza senz’armi la vostra?

Don Aldo Mei: proprio così. Mite, non violenta: perché proprio quando sembra che la violenza ottenga dei risultati, questi sono soltanto temporanei, mentre il male che produce è durevole. Però siamo stati tenaci e abbiamo scompaginato, disorientato, ritardato l’ultrapotente macchina da guerra tedesca. E questo anche dopo la liberazione di Roma nei primi giorni del giugno ’44, quando i militari tedeschi accentuarono la loro “guerra ai civili”: ovvero, una strategia bellica programmata e condivisa ai più alti livelli di comando che contemplava l’uso e la minaccia della violenza contro i civili, per controllare i territori occupati e conseguire alcuni tra i principali obbiettivi del regime di occupazione: la sicurezza dei soldati tedeschi, la repressione o la dissuasione di ogni forma di resistenza od ostilità agli occupanti, lo sfruttamento delle risorse economiche e umane degli italiani.

Intervistatrice: già. Chiamarono tale direttiva “clausola dell’impunità”.

Don Aldo Mei: proprio quella. Una disposizione della metà di giugno con cui il camerata Kesselring, responsabile della lotta anti-partigiana in Italia, dà disposizioni draconiane con cui sprona gli ufficiali tedeschi alla massima determinazione e a una totale mancanza di scrupoli di tipo umanitario. Di fatto, i civili disarmati sono equiparati ai partigiani in armi e vengono legittimati i comportamenti criminali dei militari tedeschi. I civili, siano essi anziani, donne, bambini o religiosi che in qualsiasi modo sostenevano i resistenti erano punibili, come i partigiani, con la fucilazione ed era sufficiente il semplice sospetto di un aiuto qualsivoglia.

Non guerrieri per vocazione e per scelta, noi lucchesi siamo stati trattati con disprezzo dai “totenkopf”, gli adoratori nazisti della morte… Eppure, se avessero saputo… Se solo avessero saputo chi era, chi è da 700 anni il formidabile alleato dei lucchesi, forse non ci avrebbero guardato dall’alto in basso con tanta sufficienza… Perché noi, da sette secoli, abbiamo dalla nostra parte un Cristo Liberatore: c’è una cappella a lui dedicata nella cattedrale di San Martino e sempre lì c’è pure un Altare della Libertà! Potevano i nazisti avere la meglio su una comunità difesa da un compagno tanto eccezionale? Impossibile! È stato Lui a darci la forza, il coraggio, la volontà per resistere alla violenza, alla sopraffazione, al male… Lui ci ha fornito la fermezza necessaria per contrastare il delitto della mancanza di misericordia, di carità e praticare, invece, il Bene.

Intervistatore: in tempi come quelli in cui stiamo vivendo, oggi, 2024, non Le pare anacronistico parlare ancora di pace e di non violenza? In un’epoca di conflitti come l’attuale, con oltre 60 guerre che sfigurano la faccia del pianeta e avvelenano l’esistenza dei popoli, non le sembra consumato, usurato, evocare il concetto di Bene?

Don Aldo Mei: Nient’affatto. Perché il bene genera bene.

Un qualunque gesto di bene non è vano, questo mi hanno insegnato i morti e i vivi che hanno attraversato la bufera della guerra e dell’occupazione militare. Il bene porta sempre un esempio. Viene recepito, provoca, infiamma… Sparge la sua forza ovunque, si trasmette gli uni agli altri, è una cosa semplice ma lascia sempre un segno indelebile, indimenticabile.

Compete a tutti. Il nostro compito inderogabile oggi è quello di provare insieme a ricomporne la trama, inizialmente esile poi via via sempre più fitta robusta, resistente. Un tessuto civile fatto di libertà e giustizia, rispetto e reciproca tolleranza. E di pace, fatto soprattutto di pace.

“E il Signore farà giudizio fra molti popoli e respingerà oltre ogni confine nazioni possenti. Ed esse delle loro spade fabbricheranno zappe, e delle loro lance, falci, l’una nazione non leverà più la spada contro l’altra, e non impareranno più la guerra.

Anzi siederà ciascuno sotto la sua vite e il suo fico, e non vi sarà alcuno che lo spaventi, perché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato”.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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