Il 18 febbraio 1963, a soli 41 anni, moriva Beppe
Fenoglio, scrittore letto pochissimo dal grande pubblico; adorato oltre modo da
chi approccia alla letteratura con piglio tecnico; squisitezza dei docenti
universitari di letteratura contemporanea e non; idolo intoccabile dei Club
fenogliani disseminati in giro per l'Italia. Nel mio piccolo anch'io posso vantare ormai un appartato decennio
di frequentazione dei romanzi e dei racconti di Fenoglio. Davanti a questo
scrittore posso dire che aveva ragione Roland Barthes quando scrisse che le
passioni di un lettore sono destinate a vivere dentro piccole solitudini. Con i
testi di Beppe Fenoglio questa condizione di isolamento mi ha portato, negli
anni, a farne un culto privato. Questa marginalità non è da imputare a
Fenoglio; ma va ricercata lontano.
Per la narrativa, ad esempio, a scuola si
prediligono i politissimi Primo Levi e Italo Calvino, dei quali gli insegnanti
parlano di straforo, tra le bighe di rosse formiche di Montale e le fragili,
pendule foglie sugli alberi d'autunno di Ungaretti. Così finisce che pochissimi
leggono Fenoglio, mentre altri perdono completamente l'occasione di conoscerlo.
Spesso guardo le foto che lo ritraggono: Fenoglio era un alto gentleman
all'inglese, sempre elegante, con l'eterna sigaretta in mano; i capelli corti a
spazzola, il viso rasato e plastico, scolpito nel legno, crivellato di
epidermiche imperfezioni come buccia d'arancia. In alcuni scatti ci guarda
seduto su un sasso, la camicia bianca, la cravatta, la pochette, le lunghe
gambe da infaticabile camminatore come quelle di Pavese, mentre alle spalle
occhieggiano le lande lucidate dal vento delle Langhe che sembrano una porzione
della brughiera inglese di "Cime tempestose".
Fenoglio me lo sono
sempre immaginato come uno che doveva pensare costantemente alla scrittura,
sentita come un tarlo sublime, come "una fatica nera"; ma le ore
della sua giornata scorrevano dentro una prestigiosa azienda vinicola che lo
costrinse a dedicarsi alla scrittura solo nei ritagli di tempo. E il tempo per
scrivere Fenoglio se lo ricavò, in ufficio e a casa, di sera e di notte, tra i
colpi di tosse, sempre con la tenacia di chi avverte la scrittura come un modo
di conoscersi e di comprendere se stessi, l’uomo, il proprio tempo, tutto
quanto è passato ed è stato vissuto.
Rispetto a quei
congegni mirabili che sono i racconti; rispetto alla plasticità da bassorilievo
intagliato nel legno della "Malora" e rispetto al fiabesco venato di
ariostismo di 'Una questione privata", nella narrativa italiana un'opera come
"Il partigiano Johnny" è un tentativo enorme per un romanziere.
Nonostante sia incompiuto, le intenzioni e i risultati sono di respiro europeo
già da due elementi portanti: il modello epico, sulla linea di un epos
romanzesco il cui dna si incunea tra "Moby Dick", "Orcynus
Orca" di D'Arrigo e Céline; e lo sperimentalismo linguistico con
quell'innesto vertiginoso di inglese e italiano (il "fenglese") su
modulazioni stilistiche via via diverse, e che danno vita ad un corpo lessicale
nuovo nell'alveo della lingua letteraria del romanzo italiano. Questo Fenoglio
estremo è, per me, di grande coraggio e innovazione anche nel "non
finito". Scrive con la solita finezza Davide Brullo: "La strategia
delle scelte è decisiva. Intanto, Beppe vuole come maestri di lingua i poeti.
Perciò, Il partigiano Johnny ha il ritmo dell’epica, la sinfonia del poema
celeste, possiamo giocare a spezzarlo in versi, reggerebbe benissimo."
Voglio dirvi
una cosa a questo proposito. Se aprite a caso una pagina qualunque di Beppe
Fenoglio - un romanzo, un racconto, una nota di diario - non importa quale
gusto, fiuto o cultura vi guidino, vedrete che, in qualunque punto del testo vi
troviate, esso funziona sempre, come il più preciso dei meccanismi d'orologeria
e il più perfetto dei mondi.
Vogliamo provare? Tenetevi forte. L'attacco del
"Partigiano Johnny": "Aleggiava da sempre intorno a Johnny una
vaga, gratuita, ma pleased and pleasing reputazione d’impraticità, di testa fra
le nubi, di letteratura in vita… Johnny invece era irrotto in casa di
primissima mattina, passando come una lurida ventata fra lo svenimento di sua
madre e la scultorea stupefazione del padre."
O quello de "I ventitré
giorni della città di Alba", ironico e folgorante: “Alba la presero in
duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944”.
Con "Una questione privata" siamo subito dentro un spazio che vorremo
abitare: "La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi,
Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla
città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo
corpo."
Ma in gioco ci sono anche i racconti, con la loro avara,
centellinata economia narrativa. Quando scopri quelli di Fenoglio resti di
sasso. Per un attimo hai l’impressione di aver ficcato due dita nella presa
elettrica e di aver avuto la scossa. Non perché quelle parole ti elettrizzino,
ma perché ti bruciano: nel senso, semplice e vero, che sono brucianti. Di
fronte a un attacco del genere non puoi che restare di stucco: «Alla fine di
giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in
cucina, freddò sull’aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla
lista ma gli apparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e
allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il
parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e
Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia». Una furia omicida
raccontata così sembra un’orchestra che suona nell'ombelico di un temporale,
qualcosa che c’investe e ci butta a terra. Del protagonista Gallesio non
sappiamo ancora niente, ma ci sembra di saperne già tutto. Ci pare di averlo
capito grazie a una scintilla d’intuizione che nasce dall’attrito fra le parole.
Leggere Fenoglio significa fare esperienza di diseredati, campagne, fucilate,
staffette, inglesismi, vendette, inseguimenti, condotte virtuose e ripugnanti.
Leggere Fenoglio significa fare i conti con una pagina calibratissima, con una
prosa scaturita da un purosangue; significa stare al fianco di un fuoriclasse
dei dialoghi crudi, dei passaggi mozzafiato, di incipit straordinari che fanno
rimanere incollati al racconto fino in fondo; ma anche un cantore di polarità
strazianti, come amore e guerra mescolati insieme perché è la vita a farlo,
prima della narrativa.
Chissà che questo vento fenogliano del centenario farà
riprendere in mano qualche testo già letto o lo farà leggere per la prima
volta. Il mio consiglio a questi ultimi: non indugiate oltre, lasciatevi
traumatizzare dalla bellezza del genio fenogliano.