29 giugno 2024

Operaio e comunista: ottant’anni fa cadeva Roberto Bartolozzi

        


Nella tarda serata del 29 giugno 1944, il piccolo slargo che i lucchesi conoscono come Piazzetta dell’Olivo è teatro del sacrificio di Roberto Bartolozzi, (La Spezia, 1914 - Lucca, 1944), operaio comunista.  Originario di La Spezia, assunto alla Società Telefonica Tirrena, (TETI) come meccanico viene trasferito a Lucca dopo un pesante bombardamento della sua città d'origine (19 IV 1943), che causa oltre centoventi morti e distrugge la centrale telefonica a cui Bartolozzi è addetto. 

       A Lucca entra in relazione con gli ambienti antifascisti e a partire dall'8 settembre si adopera per raccogliere armi, nasconderle e organizzare i primi gruppi di patrioti con l’intento di contrastare anche militarmente tedeschi e fascisti. Si collega col prof. Carlo Del Bianco, docente di storia e filosofia del liceo "Machiavelli" di Lucca, impegnato a costituire a Campaiana (Pania di Corfino) il primo gruppo di patrioti armati formato prevalentemente da suoi ex studenti, ora universitari. Alla fine del marzo 1944, sarà proprio Bartolozzi ad accompagnare a Firenze il prof. Del Bianco in fuga per il suo ultimo, tragico viaggio per Venezia e ritorno. L’operaio spezzino si impegna, poi, in diverse delicate missioni: il nascondimento e l'aiuto ai prigionieri alleati; la costituzione di un centro stampa per la propaganda contro nazisti e fascisti; l'occultamento di armi. di militari sbandati, di renitenti alla leva. A partire dal gennaio 1944, coordinando l'azione di diversi gruppi patriottici che sino a quel momento avevano agito in maniera autonoma, organizza le Squadre di Azione Patriottica operanti in città in un'area compresa tra ponte San Pietro, Guamo, San Vito e Monte San Quirico. Tale formazione militare, nata sotto la spinta di elementi appartenenti al Partito comunista è aperta a patrioti di diverse convinzioni politiche: democristiani, socialisti, liberali... Bartolozzi entra anche in rapporto con il Gruppo "Valanga" che nella zona dell'Alpe di Sant'Antonio opera al comando di Leandro Puccetti.

       Il 29 giugno 1944 è prevista un'azione bellica contro le caserme dei Carabinieri di Borgo Giannotti e di San Concordio a Lucca. Per tale azione Bartolozzi convoca due squadre: luogo di raccolta la centrale telefonica della Telefonica Tirrenia di via Santa Croce. L'attacco, però, si presenta rischioso; infatti, le caserme dei CC sono presidiate da soldati tedeschi e l'ordine di agire viene revocato. Nascoste le armi, i patrioti escono cercando di non dare nell'occhio, ma sono intercettati prima dai fascisti dell'Upi (Ufficio Politico Investigativo), accompagnati da un tedesco, poi da un'altra pattuglia che li ferma chiedendo loro di mostrare i documenti. Bartolozzi e gli altri si danno alla fuga in diverse direzioni. I fascisti sparano. Preoccupato per la sorte dei compagni, il comandante delle Sap torna indietro e si scontra con i fascisti impegnati nel suo inseguimento. C'è una colluttazione, Bartolozzi fugge di nuovo, armato di una pistola sottratta ai militi, che sparano raggiungendolo alle spalle. Cade, si rialza, riprende la sua corsa verso il vicolo San Quirico. Nel frattempo sono sopraggiunti due fascisti della X Mas: uno di loro fa fuoco con il mitra, colpendo in diverse parti del corpo Bartolozzi che prosegue la sua corsa, arrestata solo da un'altra raffica che lo lascia morente vicino alla cabina del cinema Littoria. I fascisti lo raggiungono, lo derubano e, quasi a monito per la città, lo lasciano morente in terra. Sono le 22,30.

        Morirà qualche ora più tardi all'ospedale di Campo di Marte, dove nonostante tutti i divieti, lo accompagnano alcuni cittadini lucchesi sbigottiti: la loro pietà si rivela più forte della paura.

 (Rielaborazione da Luciano Luciani – Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca -  3, a cura di Gianluca Fulvetti, Pezzini Editore, Viareggio (Lu), 2016

 

 

26 giugno 2024

"Il fuoco che ti porti dentro" di Antonio Franchini

  


di Marigabri

                  Quel fuoco la brucia e la consuma. Quel fuoco brucia e devasta chi ha la sventura di starle accanto. Soprattutto chi da lei è nato: Antonio, “ ‘o scrittore” e le sue due sorelle (di cui una, la più remissiva e soggiogata, è definita “zoccola e puttana”).

                 È Angela: la madre più aggressiva, indomabile, detestabile che mai figlio sventurato possa avere in sorte. Figlia essa stessa di una cattiva sorte e tuttavia ingiustificabile nei suoi eccessi di rabbia, nel suo costante livore e nel disprezzo per il mondo che viene espresso in puro gergo napoletano, con l’esibizione di uno stupefacente scilinguagnolo autoreferenziale. Con climax ascendente ed eterno ritorno dell’identico.

                Donna impossibile, Angela, portatrice del più bieco bagaglio di luoghi comuni e disvalori, sempre ben conditi da aspre maledizioni verso tutto e tutti…esserne biologicamente parte può significare soltanto sviluppare il coraggio e la forza per separarsene radicalmente.

                   E scriverne? Che significato può avere per Antonio Franchini farne un ritratto così spietato -che immaginiamo vero- e così impudico? Una liberazione? O un risarcimento post mortem? Perché quel che sappiamo di Angela è che il suo amor proprio (“so’ vanitosa”) viene soddisfatto dall’essere messa al centro della scena. Che se ne parli bene o male non conta, purché se ne parli, appunto.

                   E Franchini lo fa da grande scrittore, non c’è dubbio.

                  Il viaggio verso la vecchiaia e (finalmente) la morte di Angela è una via crucis costellata di brevi ma intense stazioni: oltre alla descrizione del temperamento materno e alle considerazioni di carattere generale sul mistero dell’esser gettati nudi e inermi nel periglioso mondo, ecco la costellazione degli episodi e dei personaggi che ne testimoniano le conseguenze, in un carosello di orrore e divertimento (complice il vernacolo colorito) che però non perde mai quel certo gusto amaro.

                  Perché sappiamo che la commedia, la sceneggiata napoletana, ha da sfociare infine in qualche inevitabile tragedia. Dove la domanda delle domande: “Pecché s’adda murì?” campeggia sovrana nello sfondo di questo millenario teatro umano.

                 A chi legge è chiesto di sistemarsi comodamente nella poltrona davanti a un vasto palcoscenico per assistere alla danza sempiterna delle maschere della vita, al dramma dell’essere al mondo, al piroettare del bene e del male stretti in un allaccio fatale. Alla vita e alla morte, avvinghiate in un solo, insolubile, nodo. (Pecché s’adda murì?)

                 Esserne risucchiati e partecipare al tormento o restare immobili e distaccati spettatori non è una scelta che si può operare consapevolmente. Dipende da ciò che il gioco narrativo muove, quando ciascuno confronterà questa madre con la propria madre, questa storia con la propria storia, questi sentimenti e questo destino con i propri sentimenti e destino.

                Di sicuro a una scrittura così intensa e vibrante non si può rimanere indifferenti.

              Sappiamo che avventure di padri e di madri sono la quintessenza delle storie raccontate nei libri e come sempre è solo il talento di chi scrive che può farne letteratura. Cioè intima, misteriosa verità. Ed è precisamente quel che qui accade.

 

18 giugno 2024

"Parla di noi a chi verrà" di Liana Onofri


Il primo romanzo di Liana Onofri

Zone d’ombra familiari lunghe un secolo

 

di Luciano Luciani

                   Dopo la raccolta di racconti, Donne sospese, 2021, e il libro per bambini, Margherita e il signor Natale, 2020, Liana Onofri, lucchese originaria di Narni, una vita nella scuola come docente d’inglese, con Parla di noi a chi verrà esordisce al romanzo… 

         La vendita di una bella villa sul mare toscano, nel tratto di costa compreso tra Livorno e Piombino, mette in movimento i meccanismi della memoria della protagonista, Costanza. Li sollecita e li rende più acuti anche il ritrovamento di un diario, quello della bisnonna, che contiene nelle proprie pagine la confessione di una lunga e tormentata relazione extraconiugale. Un segreto familiare ben custodito per un secolo, a cui si aggiunge, enigma nell’enigma, l’inesplicabile morte del padre della protagonista: due vicende lontane nel tempo, ma l’una e l’altra frutto di un clima torbido e malato, frutto di dinamiche tra parenti avvelenate da tempo. Per Costanza, la prova provata che il passato, anche quello dei propri consanguinei sempre pensati come integerrimi, può risultare spesso denso di ombre e che nessuno, mai, è del tutto innocente. Neppure le persone con le quali si è condivisa l’intera esistenza: per esempio, i fratelli di Costanza, la principale voce narrante, e suo padre, la cui scomparsa tra i flutti del mare toscano è ancora avvolta in una luce ambigua che sa di mistero. 

          Una vicenda inspiegabile i cui termini si chiariranno solo nelle ultime battute di questo Parla di noi a chi verrà che mescola piacevolmente agli occhi del Lettore le caratteristiche della saga familiare con le atmosfere proprie del mystery. 

        Non manca neppure nel racconta di questa vicenda che si muove tra presente e passato, il retrogusto amarognolo di una perenne, ribadita incomprensione tra i sessi e le generazioni. Se gli uomini e le donne si cercano, pure non si capiscono, mentre i giovani appaiono incapaci di comprendere i comportamenti e le parole degli adulti e non danno quasi mai importanza alle loro esperienze e agli insegnamenti che ne conseguono. Sembra che la scrittrice lucchese voglia significarci che ormai le parole, le nostre e quelle degli altri sono stanche, usurate, incapaci di esprimere con le necessarie pienezza e chiarezza modelli e valori significativi.     

                  La vera protagonista del romanzo è, però, la villa, Villa Costanza, metafora di un mondo interiore declinato e percepito prevalentemente al femminile: quella dimora estiva è, comunque, rifugio, luogo protetto, madre succedanea, balia, seno materno… E non a caso le donne rappresentano le attrici principali di questa narrazione, mentre alle figure maschili sono riservati soprattutto ruoli minori se non addirittura negativi. Nessuna professione evidente di ideologie femministe, di ieri o di oggi, nelle pagine della scrittrice lucchese, ma la chiara consapevolezza della maggiore complessità dell’animo delle donne e delle loro superiori qualità, innate o figlie della storia, di sensibilità e resilienza.

         Scritto in una lingua piana, cordiale, ma di semplice comunicazione, Parla di noi a chi verrà, avrebbe, forse, meritato un lavoro di più attenta ricerca e connotazione linguistica.

 

Liana Onofri, Parla di noi a chi verrà, Carmignani Editrice, Staffoli (PI), Collana Narrativa, 2023, pp. 110, Euro 14,00

13 giugno 2024

“Inversione di rotta” di Virginio Giovanni Bertini

 



di Elisa Bertone

      Sono molto felice di essere qui questa sera, a introdurre il libro di Virginio Giovanni Bertini con le fotografie di Liliana Barone, perché quando si tratta di poesia in qualche modo mi sento a casa. Se poi alla poesia più tradizionalmente conosciuta come tale, cioè quella fatta di versi, si affianca la poesia dell’arte fotografica, come in questo prezioso libro, allora la casa si arricchisce di un arredamento che la rende meno spoglia, e quasi aiuta ad imprimerle un’identità, può diventare una muta chiave di lettura che non sottrae nulla al testo, ma ne aumenta le potenzialità armoniche. Del resto una delle qualità della poesia consiste nella sua capacità evocativa in cui la sonorità delle parole, proprio come la luce su una lastra fotografica, impressiona i contenuti del testo, rendendolo unico ed inimitabile.

      Camminando tra gli scaffali del supermercato, di fronte all’ultimo libro della Murgia “Ricordatemi come vi pare” ho trascritto una frase: “Se mi avessero chiesto che cosa volevo fare avrei risposto: “Voglio cambiare il mondo. Non l’ho certo cambiato tutto, ma la parte di tempo che ho attraversato forse non potrebbe dirsi quella che è se io non ci fossi stata”. Ho pensato che questa frase potesse riguardare anche Virginio Bertini, per l’impegno da sempre profuso e che anche questo libro di poesie vada in questa direzione.

       Eppure, la poesia, come già evidenziava Montale nella sua prolusione dopo la conquista del Premio Nobel della Letteratura nel 1975, è “un prodotto assolutamente inutile”, ma a cui si riconosce almeno il vantaggio di non essere quasi mai nociva. Il poeta ligure si chiedeva quale spazio potesse ancora essere offerto alla poesia con l’avvento dell’era delle comunicazioni di massa, in quel “paesaggio di esibizionismo isterico” che tenta di “annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione”–e pensare che l’evoluzione tecnologica non aveva ancora prodotto gli smartphone e “social” era solo un aggettivo del dizionario inglese-.  Terminava poi il suo discorso con una certezza, rara per chi era più abituato a lasciarsi avvolgere in profonde e talvolta cupe ansie metafisiche: “ Se … ci limitiamo [alla poesia] che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia”.

       L’incontro di oggi sembra proprio confermare la dichiarazione di Montale.  Virginio Giovanni Bertini-e così finalmente veniamo a parlare della sua opera- ci consegna la sua voce, in un linguaggio ardito e innovativo non in funzione di un espressionismo di nicchia ma per conferire incisività e forza comunicativa alla parola (si pensino a termini come “stonfati”, “incestate”, “ondivagare”, ”sdrumate”)-, in un’alternanza di stili che da testi brevi in cui è il singolo vocabolo a diventare protagonista del verso si proietta in componimenti di più ampio respiro, con refrain cadenzati che penetrano nella coscienza come mantra a dissipare le colpevoli nebbie di indifferenze codarde. ove la rima baciata ritma gli incisi rendendo le poesie stesse quasi canzoni di impegno. La voce del poeta, partendo dal suo intimo sentire, non rinuncia a farsi”social” cioè non si ripiega in un intimismo senza sbocchi, ma si fa denuncia, lente di ingrandimento sugli errori del passato e del presente, nella speranza di riaccendere speranze senza naufragare in nuove avvilenti delusioni.

          La raccolta, intitolata programmaticamente Inversione di rotta, è divisa in quattro sezioni “Sopravvivenza”, “Radici”, “Potere, contro” e “Azimut ecocentrico”. Essa dal primo testo “Bum!” all’ultimo “Una nuova altra umanità” ci accompagna in un viaggio ideale che dalla realtà frantumata del sé ci conduce alla visione conclusiva di “un’altalena del desiderio”, metafora icastica che suggella la fede in una fraternità rinata. Non è il caso che l’autore abbia fatto precedere ai suoi, due componimenti tratti dall’ Allegria di Ungaretti, fonte di ispirazione e di incoraggiamento giacché nelle corolle di tenebre di ogni epoca buia può tremolare la foglia appena nata di una mai spenta fratellanza. Un viaggio, ben inteso, che non deve necessariamente procedere in modo lineare, se non per ragioni strettamente tipografiche, ma che può essere concepito come una spirale che dal soggettivo, dall'intimo, dalla memoria sfocia all'esterno nel grido di rivolta, “come un fiume carsico,/in piena”, per utilizzare una delle tante significative similitudini e metafore di cui si nutre la raccolta, “quando torna/l'onda quantica/ a vibrare/ ed un canto libero sale/ e gli antichi semi/ sbocciano/una vita che vale”, si legge in Alberi.

       Partiamo dalla poesia “Bum!”: Bertini nella sensuale tranquillità di una notte di luna piena “sfavillante, umana, innamorata” sogna di “esplodere come una bomba”. Il poeta si nutre di suggestioni, se ne imbeve a tal punto che necessariamente trabocca con l’irruenza di una passione incontrollabile, e quasi come nella reazione atomica nucleare , si produce una conflagrazione che sparpaglia il sé in frammenti che possono apparire come “brandelli”, termine di ascendenza ungarettiana,  “sulla nuda piangente terra”, personificata al pari della luna. I brandelli, tuttavia, come per l’Osiride egizio, possono essere appunto il preludio di una laica resurrezione, la propria voce, fatta parole e versi e libro di poesie, uniche tracce di una vita pronta a germogliare di nuovo, fuori da inutili orpelli e alla ricerca di un’autenticità che parte dal basso e dalla dissoluzione.

        Nel libro si può riconoscere anche una spiritualità aconfessionale come spinta ispirativa. Si prenda ad esempio il testo Preghiera: i termini “fango” e “cenere” richiamano l'atto generativo del Dio creatore della Genesi e la destinazione ultima delle umili creature (cenere ritornerai). L'autore con un deciso atto di emancipazione dal Dio della Bibbia, avvia quasi un'autocreazione in nome della “curiosità di questo mondo” e il neo-Ulisse non rischia come quello dantesco di essere travolto dal naufragio perché a spingerlo è un sentimento cristianamente laico: l'amore “di questa fragile,/imprevedibile umanità disastrata”.

        Del resto la forza di un grande poeta è quella di trasformare il soggettivo in voce universale. Questo è evidente anche nel componimento Delusione, in cui ognuno può trovare rappresentata “la propria delusione” che procede ad onde come quelle “guerriere/ dell’Oceano”, dissonante quando ad essa si vuole opporre le rassicurazioni di una ragione pronta a consolarla. La delusione può diventare una voce flebile, ma non si cancella, quasi una tappa iniziatica per ogni essere umano e “le ombre, i crampi, i nodi/risalgono/i tornanti del disinganno”. Il poeta sa dare sintesi senza togliere forza, anzi proprio nella sintesi ciascuno può rifocalizzare e sentire in sé la crudezza di certe sensazioni che solo chi ha il coraggio di abbassare l’orgoglio e la protervia può avvertire, e che solo uno scrittore può raccontare, e che solo un poeta può rendere emblematiche.

        E non è un caso che un poeta avverta il dolore delle “parole violentate”, come si scrive in “Identità perduta”, che si staglia come una dichiarazione di poetica; l’autore cerca di empatizzare proprio con le parole quando la disumanità non solo le tradisce ma le viola, scatenando una guerra sanguinosa contro il senso e la verità delle stesse, che finiscono per negare se stesse. Chi darebbe il timone ad un navigante ubriaco in una notte senza luna? Eppure il verbo, il logos che ci caratterizza come esseri umani è stato così ridotto nel suo significato, deturpato e svilito: seguire tale scempio equivale a naufragare nei mari dell'autodistruzione.

      Delusione-Speranza, Indifferenza-Umanità, Passato-Presente: il libro trae vigore proprio dalle antitesi che si dipanano tra i versi tanto che persino le amate parole si scontrano con il loro limite, “oltre il quale,- afferma Bertini- / solo un sorriso,/ una carezza,/ un bacio/può continuare il discorso”. Afferma un proverbio Masai: “Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai .nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli”. E allora oltre le nostre parole sorridiamo, carezziamo, baciamo la nostra umanità nella nostra madre terra. Bertini, con questo libro, ci rammenta questa eterna verità.

Virginio Giovanni Bertini. Inversione di rotta. Introduzione di Gianni Quilici. Postfazione di Laura Marchetti. Fotografie di Liliana Barone. Opzioni 2024.

 

 

12 giugno 2024

Di notte tutto è silenzio a Teheran" di Shida Bazyar

 


di Giulietta Isola

«I tuoi esuli non ci hanno pensato abbastanza, sta ripetendo Behsad, mentre procediamo nella notte fredda, loro non imparano dagli errori, un giorno vogliono il comunismo, il giorno dopo lo Scià, non impareranno mai che ci sarà sempre sangue versato»

            Questo è il racconto di un Paese, l’Iran, dalla rivoluzione del 1979 ad oggi. La cacciata dello Scià, considerato ormai solo un despota corrotto permette l’arrivo dello Ayatollah Khomeini, il quale sarebbe diventato, da lì a poco, il capo supremo della repubblica integralista islamica. Il romanzo ferma sulle pagine il passaggio politico e storico da una dittatura all’altra. 

          Ma nulla è mai come sembra e la grandezza di alcuni libri è mostrarci proprio questo. Tra la cacciata dello Scià e l’avanzata del fondamentalismo islamico, infatti, ci sono i sogni di una generazione rivoluzionaria laica e di sinistra. Ci sono i sogni dei tanti che nel 1979 lottano per la libertà del proprio paese, lottano per il diritto alla libertà di parola, di espressione, il diritto alla salute e allo studio, contro l’imperialismo americano. 

        Shida Bazyar, figlia di esuli e attivisti politici iraniani cresciuta in Germania, ci narra con sensibilità e maestria la voragine di violenza e oscurantismo che ha inghiottito l'Iran dalla Rivoluzione, nonostante le premesse e i sogni dei giovani rivoluzionari. 

      Al giovane rivoluzionario Behsad è affidato il primo racconto che narra il 1979 quando assieme all’amico Sohrab e migliaia di altri hanno sognato una società giusta e libera, lontana dai diktat statunitensi. Ma la storia è imprevedibile , il movimento religioso prese il sopravvento e il viso di Khomeini sostituì quello dello scià nei negozi, negli uffici, nei cartelloni. I giovani rivoluzionari di sinistra sono costretti a riunioni clandestine, è proprio a una riunione che Behsad conosce Nahid, l'io narrante della seconda parte , quella che si svolge nel 1989. 

         Behsad e Nahid, si sono sposati e con due bimbi al seguito, si trovano in Germania come esuli politici e pensano di essere solo di transito e che i loro figli non saranno occidentali, che manterranno sempre vivo il legame con la terra dei padri. Nahid tornerà in patria con la figlia e l’ultima nata Tara solo per un breve soggiorno. A raccontare è Laleh che rinnova la memoria ed il legame con la famiglia di origine ma misura anche la distanza fra un mondo e l'altro; Laleh ed il fratello rimasto in Germania vivono in questa distanza; non sono né iraniani né tedeschi, nostalgica Laleh estraneo Morad. A quest'ultimo verrà affidato il racconto del 2009 con le elezioni truccate che portarono Ahmadinejad alla vittoria e migliaia di manifestazioni di piazza represse nel sangue. 

         Shida Bazyar riesce senza retorica e senza sentimentalismo a portarci nel cuore di uno stato martoriato e di tante vite spezzate, riesce a coniugare vita pubblica e privata e a mostrare come la Storia entri nelle storie, nelle biografie, nelle vite di tanti Behsad e Nahid che attendono ancora, nonostante tutto, che un sogno si avveri. Oggi, dopo le proteste molto rumorose del 2022,in Iran sembra tutto silenzioso. Le strade si sono svuotate, le esecuzioni hanno raggiunto livelli record, il mondo guarda , giustamente, a Israele e Gaza, sembra che la breve luce della protesta abbia avuto come unica conseguenza una sofferenza ancora più grande. 

           Ma molto contraddice il silenzio in questo momento: molte donne non indossano l’hijab obbligatorio, ci sono video in cui cantano, ballano e guidano la moto, in prigione si intraprende lo sciopero della fame, le persone normali fanno piccoli atti di resistenza e la notte è da sempre luogo di resistenza. 

“In tutti questi anni in Iran c’è stato il buio ma non c’è mai stato il silenzio. “ Vi consiglio di leggere di questo straordinario paese e di riflettere su queste pagine che ci raccontano storie di chi si porta dentro ferite mai sanate.

«Di notte tutto è silenzio a Teheran. Durante il giorno c’è tanto rumore. Sono così rumorose le persone dentro casa, così rumorosa la loro voce, se riguarda cose poco importanti.»

DI NOTTE TUTTO E’ SILENZIO A TEHERAN di SHIDA BAZYAR FANDANGO EDIZIONI