All’improvviso, la Poesia
Nacqui lucchese nell’anno 1763,
nella notte compresa tra i giorni 11 e il 12 agosto, e lucchese morrò per la
grazia di Dio, quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente
il mondo. Sono vecchia oramai, più che settuagenaria, nell’anno che corre
dell’era cristiana 1837, eppure ancora giovine di cuore, forse meglio di quanto
sia mai stata nelle mie combattuta giovinezza ed età adulta. Molto vissi e
molto soffersi. La mia indole, l’ingegno, la prima educazione e le operazioni e
le sorti che ne seguirono furono, come ogni altra cosa umana, un misto di bene
e di male.
Di mio padre, Benedetto Domenico, non ricordo nulla, di nulla posso
aver memoria ché ebbe a morire quando ancora imparavo ad articolare parole…
Già, le parole: che negli anni a venire sarebbero state tanta e tanta parte
della mia esistenza. Imparai a leggerle e a scriverle grazie a mia madre, Maria
Alba, che mi fu maestra d’alfabeto. Mi incantavano, le parole: per le loro sonorità
sempre diverse, per il libero giuoco degli accenti, i loro significati palesi e
reconditi, la musica che avevano dentro, la magia della rima, l’alchimia
dell’assonanza…
Dopo Lucca, la mia patria ideale sarebbe stata quella delle
lettere. A esse avrei desiderato, toto corde, dedicarmi, ma c’era da
contribuire al decoro di una famiglia priva della sua guida e per questo
destinata al declino, se non addirittura alla fame. Un obiettivo da me
perseguito con l’attività di ballerina a cui la mia genitrice m’aveva, fin dai
più teneri anni, severamente indirizzata. E così, bambina e adolescente, mi
muovevo con grazia al ritmo della musica, volteggiavo, piroettavo sui
palcoscenici dell’intera penisola, nei teatri di Bastia, Firenze, Bologna,
Venezia riscuotendo dappertutto consensi e successi. Ma non abbandonavo le
lettere. Ballavo, ballavo e leggevo. Forsennatamente m’intridevo di poesia;
Metastasio e Dante, Petrarca e Ariosto, il Tasso e Ovidio costruendomi, a poco
a poco, la fama di “ballerina letterata”.
Se oggi una chioma candida
incornicia il mio viso tramato da una rete di rughe, com’ero, allora, a poco
più di vent’anni, fedele seguace dell’arte tersicorea? Come mi vedevano gli
altri?
Di me coglievano gli occhi
nerissimi e folgoranti; una bocca ben tagliata e sempre sorridente, denti
bianchissimi che illuminavano un personale svelto ed elegante; giusto e ben
profilato il naso; non molto tumido il petto. E poi, un’aria di persona
concentrata su se stessa, sempre impegnata a pensare, riflettere, filosofare… E
della fresca bellezza del mio corpo e dello spirito poetico e sognante ben
s’accorse un uomo, Pietro Landucci, un conterraneo, da me incontrato a Imola.
M’innamorai di lui e lui di me. Lo sposai a Bologna e fu lui a rivelare al
mondo i miei talenti, ancora in gran parte nascosti, e a trasformarmi da
ballerina in poetessa improvvisatrice: ovvero, capace di improvvisare in rima
su qualsiasi argomento proposto dal pubblico. Un dono il mio, un dono degli
dei, una grazia… Comunque da coltivare, da valorizzare, da affinare con uno
studio indefesso del latino, del greco, del francese per ottenere quella
sapienza letteraria che mi portò a essere applaudita nei teatri di tutt’Italia da
Udine, a Ferrara, e poi a Venezia, e quindi a Padova, Verona, Mantova…
Acclamata dai più qualificati intellettuali del tempo - dal gesuita Bettinelli,
al biologo Spallanzani, dal fisico Alessandro Volta allo scienziato e poeta
Lorenzo Mascheroni… - Giuseppe Parini mi
conobbe a Milano e subito m’ebbe cara e lo stesso accadde al corrucciato
Vittorio Alfieri. E, finalmente, Roma! Qui, di fronte a un pubblico di colti
aristocratici ed esigenti letterati, quello dell’Accademia dell’Arcadia -
impreziosito dalla presenza di Vincenzo Monti, il più famoso poeta del tempo - mi
cimentai in un’impresa che avrebbe fatto tremare le vene dei polsi a qualsiasi
illustre e dotto intellettuale del tempo. Sì, in quella sede prestigiosa, fui
capace d’improvvisare poeticamente sullo stesso argomento per ben otto volte,
ognuna secondo un metro diverso. E quell’elevato e nobile consesso m’accolse
tra i suoi pastori-poeti con nome greco di Amarilli Etrusca.
E Lucca, la mia città, come si è
portata nei miei confronti? Come suo solito. Gloria, onori, tante lusinghiere
parole di lode… Quattrini, però, pochi. Sì, perché vista la mia fama
letteraria, pensavo di aver maturato titoli a sufficienza per aspirare a uno
stipendio stabile da parte del governo. Ma quale governo se la mia vita correva
a cavalcione di due secoli che resteranno un tempo assai memorabile nella
storia italiana? Il turbine rivoluzionario che, partito dalla Francia, aveva
attraversato l’Europa non aveva certo risparmiato la Toscana e, meno che mai,
Lucca. Dove le malelingue mi dissero filofrancese, filogiacobina e, perfino,
troppo, troppo vicina a certi generali transalpini… Mai fu profferita
stupidaggine più grande… Io improvvisavo versi, sonetti, odi, cantate… E lo
facevo come ditta dentro per celebrare sia le vittorie di Napoleone e delle
armi francesi, sia la grandezza della corte russa o di quella di Vienna dove
fui addirittura in predicato di prendere il posto del celeberrimo Metastasio.
Comunque, per ottenere un modesto, e mai sufficiente, riconoscimento economico,
ché le spese sono tante, fui costretta ad attendere fin oltre i miei
quarant’anni e non mi venne né dai lucchesi, né dai francesi, ma da un
milanese, il conte Francesco Melzi d’Eril, figura eminente del bello italo
regno.
Salvifica, davvero salvifica,
quella pensione ottenuta lottando con le unghie e con i denti! E, nonostante i
tempi profondamente cambiati, l’ho mantenuta grazie ai buoni uffici di Sua
Altezza Reale duca di Modena e m’ha fatto non poco comodo adesso che sono
vedova, vecchia e malata… E Cecco, Francesco, il mio unico amatissimo figlio,
non m’aiuta? Dopo aver fatto di tutto, davvero di tutto, per sistemarlo a
corte, quella lucchese dell’ottimo Carlo Ludovico, come mi ha ricompensato quel
baggiano? Sposandosi con una disgraziata di lui maggiore d’età di 10 o 12 anni,
che per tutta dote gli ha portato una bambina di primo letto. Cosa volete
farci? Gli uomini sono tutti uguale ed è proprio vero che “Amor non mira
lignaggio, né fede, né vassallaggio”. E, comunque, lo ripeto: Cecco è proprio
un gran bel baggiano! Mi consola solo la stima che ancora sento a Corte nei
confronti miei e della mia poesia. Non molto tempo fa, Carlo Ludovico in
persona si è adoperato per far stampare dal Bertini, il tipografo ducale,
un’antologia dei miei improvvisi più famosi. Una raccolta pubblicata in
un’edizione così ben curata che non ho avuto remore a inviarla alle più
eminenti personalità della penisola: il duca di Modena, il granduca di Toscana,
il re di Sardegna… Magari, sarebbe potuto derivarne un qualche beneficio
economico… Anche se, finora, a parte una medaglietta d’oro del sovrano sabaudo,
benefici se ne sono visti pochi!
Insomma, l’età avanza, la salute
declina, i soldi, come sempre, scarseggiano e la mia poesia, quella per cui
eccellevo in virtù del verso istantaneo, il mio inutile, meraviglioso mestiere,
non interessa più nessuno.