di Elisa Bertone
Sono
molto felice di essere qui questa sera, a introdurre il libro di Virginio
Giovanni Bertini con le fotografie di Liliana Barone, perché quando si tratta
di poesia in qualche modo mi sento a casa. Se poi alla poesia più
tradizionalmente conosciuta come tale, cioè quella fatta di versi, si affianca
la poesia dell’arte fotografica, come in questo prezioso libro, allora la casa
si arricchisce di un arredamento che la rende meno spoglia, e quasi aiuta ad
imprimerle un’identità, può diventare una muta chiave di lettura che non
sottrae nulla al testo, ma ne aumenta le potenzialità armoniche. Del resto una
delle qualità della poesia consiste nella sua capacità evocativa in cui la
sonorità delle parole, proprio come la luce su una lastra fotografica,
impressiona i contenuti del testo, rendendolo unico ed inimitabile.
Camminando
tra gli scaffali del supermercato, di fronte all’ultimo libro della Murgia
“Ricordatemi come vi pare” ho trascritto una frase: “Se mi avessero chiesto che
cosa volevo fare avrei risposto: “Voglio cambiare il mondo. Non l’ho certo
cambiato tutto, ma la parte di tempo che ho attraversato forse non potrebbe
dirsi quella che è se io non ci fossi stata”. Ho pensato che questa frase
potesse riguardare anche Virginio Bertini, per l’impegno da sempre profuso e
che anche questo libro di poesie vada in questa direzione.
Eppure,
la poesia, come già evidenziava Montale nella sua prolusione dopo la conquista
del Premio Nobel della Letteratura nel 1975, è “un prodotto assolutamente
inutile”, ma a cui si riconosce almeno il vantaggio di non essere quasi mai
nociva. Il poeta ligure si chiedeva quale spazio potesse ancora essere offerto
alla poesia con l’avvento dell’era delle comunicazioni di massa, in quel
“paesaggio di esibizionismo isterico” che tenta di “annientare ogni possibilità
di solitudine e di riflessione”–e pensare che l’evoluzione tecnologica non
aveva ancora prodotto gli smartphone e “social” era solo un aggettivo del
dizionario inglese-. Terminava poi il suo
discorso con una certezza, rara per chi era più abituato a lasciarsi avvolgere
in profonde e talvolta cupe ansie metafisiche: “ Se … ci limitiamo [alla
poesia] che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi
per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione
linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la
poesia”.
L’incontro
di oggi sembra proprio confermare la dichiarazione di Montale. Virginio Giovanni Bertini-e così finalmente
veniamo a parlare della sua opera- ci consegna la sua voce, in un linguaggio
ardito e innovativo non in funzione di un espressionismo di nicchia ma per
conferire incisività e forza comunicativa alla parola (si pensino a termini
come “stonfati”, “incestate”, “ondivagare”, ”sdrumate”)-, in un’alternanza di
stili che da testi brevi in cui è il singolo vocabolo a diventare protagonista del verso si proietta in componimenti
di più ampio respiro, con refrain cadenzati che penetrano nella coscienza come
mantra a dissipare le colpevoli nebbie di indifferenze codarde. ove la rima
baciata ritma gli incisi rendendo le poesie stesse quasi canzoni di impegno. La
voce del poeta, partendo dal suo intimo sentire, non rinuncia a farsi”social”
cioè non si ripiega in un intimismo senza sbocchi, ma si fa denuncia, lente di
ingrandimento sugli errori del passato e del presente, nella speranza di
riaccendere speranze senza naufragare in nuove avvilenti delusioni.
La
raccolta, intitolata programmaticamente Inversione
di rotta, è divisa in quattro sezioni “Sopravvivenza”, “Radici”, “Potere,
contro” e “Azimut ecocentrico”. Essa dal primo testo “Bum!” all’ultimo “Una
nuova altra umanità” ci accompagna in un viaggio ideale che dalla realtà
frantumata del sé ci conduce alla visione conclusiva di “un’altalena del
desiderio”, metafora icastica che suggella la fede in una fraternità rinata.
Non è il caso che l’autore abbia fatto precedere ai suoi, due componimenti
tratti dall’ Allegria di Ungaretti, fonte di ispirazione e di
incoraggiamento giacché nelle corolle di tenebre di ogni epoca buia può
tremolare la foglia appena nata di una mai spenta fratellanza. Un viaggio, ben
inteso, che non deve necessariamente procedere in modo lineare, se non per
ragioni strettamente tipografiche, ma che può essere concepito come una spirale
che dal soggettivo, dall'intimo, dalla memoria sfocia all'esterno nel grido di
rivolta, “come un fiume carsico,/in piena”, per utilizzare una delle tante
significative similitudini e metafore di cui si nutre la raccolta, “quando
torna/l'onda quantica/ a vibrare/ ed un canto libero sale/ e gli antichi semi/
sbocciano/una vita che vale”, si legge in Alberi.
Partiamo
dalla poesia “Bum!”: Bertini nella sensuale tranquillità di una notte di luna
piena “sfavillante, umana, innamorata” sogna di “esplodere come una bomba”. Il
poeta si nutre di suggestioni, se ne imbeve a tal punto che necessariamente
trabocca con l’irruenza di una passione incontrollabile, e quasi come nella
reazione atomica nucleare , si produce una conflagrazione che sparpaglia il sé
in frammenti che possono apparire come “brandelli”, termine di ascendenza
ungarettiana, “sulla nuda piangente
terra”, personificata al pari della luna. I brandelli, tuttavia, come per
l’Osiride egizio, possono essere appunto il preludio di una laica resurrezione,
la propria voce, fatta parole e versi e libro di poesie, uniche tracce di una
vita pronta a germogliare di nuovo, fuori da inutili orpelli e alla ricerca di
un’autenticità che parte dal basso e dalla dissoluzione.
Nel libro
si può riconoscere anche una spiritualità aconfessionale come spinta
ispirativa. Si prenda ad esempio il testo Preghiera: i termini “fango” e
“cenere” richiamano l'atto generativo del Dio creatore della Genesi e la
destinazione ultima delle umili creature (cenere ritornerai). L'autore con un deciso
atto di emancipazione dal Dio della Bibbia, avvia quasi un'autocreazione in
nome della “curiosità di questo mondo” e il neo-Ulisse non rischia come quello
dantesco di essere travolto dal naufragio perché a spingerlo è un sentimento
cristianamente laico: l'amore “di questa fragile,/imprevedibile umanità
disastrata”.
Del resto
la forza di un grande poeta è quella di trasformare il soggettivo in voce
universale. Questo è evidente anche nel componimento Delusione, in cui ognuno
può trovare rappresentata “la propria delusione” che procede ad onde come
quelle “guerriere/ dell’Oceano”, dissonante quando ad essa si vuole opporre le
rassicurazioni di una ragione pronta a consolarla. La delusione può diventare
una voce flebile, ma non si cancella, quasi una tappa iniziatica per ogni
essere umano e “le ombre, i crampi, i nodi/risalgono/i tornanti del
disinganno”. Il poeta sa dare sintesi senza togliere forza, anzi proprio nella
sintesi ciascuno può rifocalizzare e sentire in sé la crudezza di certe
sensazioni che solo chi ha il coraggio di abbassare l’orgoglio e la protervia
può avvertire, e che solo uno scrittore può raccontare, e che solo un poeta può
rendere emblematiche.
E non è
un caso che un poeta avverta il dolore delle “parole violentate”, come si
scrive in “Identità perduta”, che si staglia come una dichiarazione di poetica;
l’autore cerca di empatizzare proprio con le parole quando la disumanità non
solo le tradisce ma le viola, scatenando una guerra sanguinosa contro il senso
e la verità delle stesse, che finiscono per negare se stesse. Chi darebbe il
timone ad un navigante ubriaco in una notte senza luna? Eppure il verbo, il
logos che ci caratterizza come esseri umani è stato così ridotto nel suo
significato, deturpato e svilito: seguire tale scempio equivale a naufragare
nei mari dell'autodistruzione.
Delusione-Speranza,
Indifferenza-Umanità, Passato-Presente: il libro trae vigore proprio dalle
antitesi che si dipanano tra i versi tanto che persino le amate parole si
scontrano con il loro limite, “oltre il quale,- afferma Bertini- / solo un
sorriso,/ una carezza,/ un bacio/può continuare il discorso”. Afferma un
proverbio Masai: “Trattiamo
bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai .nostri padri, ma
ci è stata prestata dai nostri figli”. E allora oltre le nostre parole
sorridiamo, carezziamo, baciamo la nostra umanità nella nostra madre terra.
Bertini, con questo libro, ci rammenta questa eterna verità.
Virginio Giovanni Bertini. Inversione di rotta. Introduzione di Gianni Quilici. Postfazione di Laura Marchetti. Fotografie di Liliana Barone. Opzioni 2024.
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