di Marigabri
“Avevamo venduto la casa di famiglia. Mi sembrava che tutto quel disfare e
mettere negli scatoloni una lunga vita vissuta insieme desse una forma strana
al tempo, spingendolo indietro, a quando a nove anni avevo lasciato il
Sudafrica, dove ero nata, e in avanti, verso l’ignoto che mi aspettava a
cinquant’anni. Stavo smantellando la casa che avevo passato gran parte della
mia vita a creare.”
Il secondo libro dell’ “autobiografia in movimento” parte proprio da questo nuovo inizio: cinquant’anni, un matrimonio (e una casa) alle spalle, due figlie, un appartamento in un condominio fatiscente a Londra e la ricerca di una stanza tutta per sé.
È il racconto di una donna che rivendica il proprio spazio creativo, che dialoga costantemente con le sue scrittrici preferite (Woolf, De Beauvoir, Duras), che smonta pezzo a pezzo una costruzione sociale avvinghiante e fallace entro la quale una donna può adattarsi ma non certo riconoscersi.
Ancora una volta frammentaria ed ellittica ma precisa nel circoscrivere i propri soggetti di scrittura, la penna di Deborah Levy narra di sé, della propria madre e della maternità in genere, della trasformazione della casa da focolare a fuoco di riflessione e di ricerca.
E quando la vicina di casa le offrirà un capanno per isolarsi a scrivere, ecco che la narratrice troverà il modo di rendere chiara e distinta la propria voce.
“Allora non potevo saperlo ma avrei scritto tre libri in quel capanno, incluso questo che state leggendo ora. È lì che ho cominciato a scrivere in prima persona, usando un io che mi era vicino ma che non ero io.”
E sia ben chiaro:
“Le parole che state leggendo sono fatte con il costo della vita e con inchiostro digitale “.
Deborah Levy. Il costo della vita. NN
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