10 marzo 2024

"Amare Volterra senza retorica" di Daniele Luti

 

Monte Voltraio

      
... C'è un'altra cosa che ho imparato da Carlo: ad amare Volterra senza retorica, senza ridicole dichiarazioni di orgoglio (nascere in un luogo non è mai merito nostro, ma di chi ci ha concepito). Amarla avendola capita, letta come un libro raro, e quindi considerata, valutata, rispettata. Amarla sentendosi dentro i suoi modi di essere, la sua storia, abitandone la "lingua", i modi di dire, l'aneddotica, cogliendone le peculiarità. 

      Una Volterra quindi diversa a seconda della sensibilità, cultura, amore. Una Volterra per ogni volterrano. La mia è il colle di San Martino, il Poggio alla Rocca (monte Voltraio), i borghi della periferia, la campagna primaverile, dai verdi pastello, smaltati, lucidi e quella estiva assolata, bruciata, fattasi mobilissima quando le lucciole, imitando la volta del cielo notturna, bucano il buio con i loro respiri di luce. 

      In ogni fase della mia vita, da quando ho dovuto (per le occasioni che mi hanno scelto) vivere altrove, mi hanno sempre visitato i ricordi e con essi i volti degli amici, dei miei cari così come li ho visti in quella che considero la mia età più bella, quella della fanciullezza, delle scuole elementari, del mio slalomare tra le strade di borgo Sant'Alessandro, oltre le peschiere del Pino, verso i cappuccini o dello zigzagare attraverso i poderi che, passando dalle "corte", si trovavano sulla strada, disegnata in funzione del terreno, che va verso la Bacchettona. 


       Ci sono delle mattine invernali qui, a Lucca, nel quartiere dove abito, in cui si crea un silenzio antico, ovattato che mi porta lontano nel tempo, lontano da qui. A Volterra, a casa mia quando i rumori nitidi, l'abbaiare lontano di un cane, l'aria vibridata mi dicevano che nottetempo era caduta la neve. Dalla finestra della mia camera, attraverso le "lamelle"delle persiane, vedevo le forme delle piante dell'orto, i cardoni, i cespugli, il roveto delle more, arrotondati, nubigeni per la benedizione della nevicata. Mi sarebbe piaciuto uscire subito. Dovevo aspettare, però, per vivere l'allegria elettrizzata dei compagni di scuola, le pallate lungo la rampa della croce e sul piazzale antistante la nostra scuola, a due passi dalla Chiesa nel cuore del borgo.

05 marzo 2024

"Maigret si difende" di Georges Simenon. Adelphi

 



di Marigabri

“Maigret prese tempo. Non si era mai sentito così umiliato in vita sua e le dita stringevano talmente la pipa spenta che erano diventate bianche.”

       Eh già, perché adesso l’accusato è proprio lui, Maigret, e l’interrogatorio che è costretto a subire a opera di un giovane arrogante pivello, che però si ammanta del titolo di questore, lo offende fino a desiderare di accogliere il non troppo velato invito del suo superiore a dare le dimissioni e ricorrere alla pensione anticipata.

       Nessuno dei suoi fedeli collaboratori, né la dolce signora Maigret, e tantomeno gli affezionati lettori possono prestar fede all’accusa paradossale che una giovane di buona famiglia non ha esitato a pronunciare contro il celebre commissario.

       Ma quale macchinazione stia dietro a questo assurdo imbroglio sarà suo compito svelare. Vincendo l’amarezza, lo sconforto e pure la rabbia che la sua reputazione sia compromessa e la sua onorevole carriera messa a repentaglio dalla chiacchiera balorda di una giovincella oziosa.

       Maigret comincia dunque la sua ricerca aspettando che la rete lanciata apparentemente a caso verso acque infide riesca a intrappolare il grosso pesce che ha ordito l’inganno.

       Le inconfondibili atmosfere parigine ci accompagnano, deliziandoci, lungo tutto il percorso.

Georges Simenon. Maigret si difende. Adelphi.

04 marzo 2024

"L’invincibile estate di Liliana" di Cristina Rivera Garza

 

di Giulietta Isola

Donne cresciute in una città e in un paese che le molesta a ogni passo e non le lascia in pace. Donne sempre sul punto di morire. Donne che muoiono e. tuttavia, sono vive.”

     Il 16 luglio 1990 la ventenne studentessa di architettura Liliana Rivera Garza viene uccisa nel suo appartamento in un quartiere popolare della periferia nord di Città del Messico. Gli investigatori si orientarono subito verso la figura di un ex-fidanzato che risultò latitante. Da allora, nonostante una strenua caccia all’uomo ed un ordine di cattura, il presunto assassino non è stato mai trovato ed il crimine è rimasto irrisolto fino ad oggi; uno dei molti cold case che macchiano il sistema giudiziario messicano. 

        Ho fatto qualche ricerca: la violenza contro le donne è uno dei grandi flagelli dell’America Latina. In Messico tra il 1990 e il 2022 sono state uccise più di sessantaseimila donne, molte da compagni o ex-compagni. Dal 2007 in poi le cifre si sono alzate in maniera terrificante fino ad arrivare all’infame media di dieci donne assassinate ogni giorno. Una situazione tanto tragica portò all’introduzione, nel 2012, della categoria femminicidio nel Codice Penale Federale. Secondo l’articolo 325 “commette femminicidio chi priva della vita una donna per questioni di genere.” Solo quindici Paesi al mondo hanno adottato questa figura legale e trattandosi di un fenomeno recente è difficile sapere se avrà il risultato desiderato. 

       Nel frattempo, i movimenti femministi latinoamericani continuano a crescere e a diffondersi annaffiati dal sangue di donne assassinate. La letteratura si fa eco di questa strage. Cristina Rivera Garza ci ha messo trenta anni per raccontare la storia tragica della sua sorella minore, è tornata a Città del Messico per mettere assieme i pezzi del rompicapo della vita e della morte di Liliana. 

       Il suo è un libro tremendo nel quale spesso usa il modo vocativo per stabilire un colloquio intimo con la sorella morta. E’ una conversazione che testimonia una vita, una preghiera laica che vuol esorcizzare un insistente e devastante silenzio, è l’elaborazione di un lutto ed è, per Cristina, la ricerca del fascicolo della causa di sua sorella ed a tal proposito dice “questo libro è basato sui quaderni, le annotazioni, gli appunti ,i ritagli, le piantine, le lettere, le cassette e le agende trovate fra le sue cose , che nessuno aveva toccato nei trent’anni successivi alla sua morte. “ 

       Il risultato è un testo polifonico, originale e commovente nel quale parlano le amiche e gli amici di Liliana, il padre, ma soprattutto parla la stessa Liliana, una ragazza espansiva, temeraria, affettuosa e carismatica, solare e anche opaca, appassionata dei suoi studi, dei film stranieri e delle sigarette Raleigh , una ragazza che fu soffocata “alla fine di un percorso lungo e sotterraneo di violenza.

      ” L’invincibile estate di Liliana mostra tutte le ferite aperte non solo tramite la storia ma anche attraverso la forma , come il recupero della calligrafia di Liliana, copie di messaggi e bigliettini che contribuiscono a rendere il racconto leggermente trasandato senza perdere né forza né autenticità. Cristina con la sua scrittura vigorosa e frammentaria invita a riflettere sul sistema arcaico e patriarcale che rimane indifferente alla necessità di proteggere e dare garanzie alle donne. Dobbiamo avere cura delle sue parole vere, sincere, delicate e preziose che ci dicono che non è più tempo di tacere. Siamo travolti da una cascata di parole, e anche questo è il senso del libro: non bisogna tacere, anche in nome delle troppe vittime di femminicidio.

Di fronte all’inimmaginabile non abbiamo saputo cosa fare. Di fronte all’inconcepibile, non abbiamo saputo cosa fare. E siamo rimasti muti. E ti abbiamo avvolta nel nostro silenzio, rassegnati di fronte all’impunità, di fronte alla corruzione, di fronte alla mancanza di giustizia”.

L’INVINCIBILE ESTATE DI LILIANA di CRISTINA RIVERA GARZA SUR EDITORE

25 febbraio 2024

" Se amore guarda" di Tomaso Montanari

 

di Giulietta Isola

Se amore guarda gli occhi vedono

       Ci sono ragioni profonde per interessarsi al patrimonio culturale ed alla storia dell’arte, forse le abbiamo smarrite, eppure la frequentazione di “tali soggetti” apre il nostro cuore ed i nostri occhi a una dimensione «altra», ci offre la possibilità di allontanarci, almeno per un po’, dal flusso incessante dell’attualità e ci mette in contatto con ciò che è avvincente, ciò che dà un senso alla vita.        ”Per vedere – per sentire – tutto questo, è però necessario riattivare la sua connessione con la parte più intima della nostra anima individuale e collettiva; occorre una vera e propria educazione sentimentale”. 

       Tomaso Montanari nelle pagine di questo saggio lucido e appassionato parla del patrimonio culturale che considera la nostra religione civile, è “l’unico possibile luogo materiale di una comunione tra i vivi e i morti” , è la nostra scuola di liberazione e non riguarda soltanto il paesaggio o le opere d’arte, ma riguarda soprattutto noi e quell’amore che tutto congiunge. 

       Va ricordato che la nostra Costituzione definisce la nostra nazione per via non di sangue, etnia, fede o lingua, ma solo per via di cultura, ricerca, paesaggio e patrimonio storico e artistico: cioè per via di inclusione, evoluzione continua, contraddizione, pluralità. Le nostre vestigia rappresentano una storia che è incontro, meticciato, convivenza. 

      Frequentare in modo casuale o forzato, il patrimonio potrebbe essere l’occasione per una formazione umanistica di massa, un’educazione a salvarsi dai nazionalismi. Dobbiamo infatti considerare che” le discipline umanistiche non hanno il compito di arrestare quello che altrimenti fuggirebbe, ma di richiamare in vita ciò che altrimenti resterebbe morto quindi si potrebbe dire che l’educazione al patrimonio culturale è una educazione a diventare e a rimanere umani, il contatto con esso, in tutte le sue forme , può essere una via di salvezza.” 

       Se posiamo lo sguardo su una chiesa antica, camminiamo su un selciato può capitare di porsi domande alla ricerca di risposte ed interpretazioni, ci viene facile, con una certa lentezza , attribuire significato alle cose e ai luoghi fino a sentirci parte di essi, in questo caso il discorso sul patrimonio culturale ci sarà utile per recuperare le ragioni di una convivenza universale, fondata sulla giustizia e sulla condivisione. Tomaso Montanari è uno storico dell'arte e saggista italiano, rettore dell'Università per stranieri di Siena.

Quando davvero entriamo in comunione , in risonanza, in osmosi con le pietre, l’aria, le figure, la storia e le storie che ci avvolgono, sentiamo che c’è qualcosa che ci trascende, qualcosa che supera l’ansia e la fatica delle nostre giornate. Qualcosa che ci cura. Qualcosa che ci fa sentire che no, non è ancora finita”

SE AMORE GUARDA di TOMASO MONTANARI EINAUDI EDITORE

 

22 febbraio 2024

"L'alveare" di Emilia Giorgetti

 


di Elisa Bertoni

Il romanzo “L'alveare” di Emilia Giorgetti ha il grande merito di essere un libro coraggioso, non nel senso comune che attribuiamo al termine, spesso riferito a chi ha compiuto gesta eroiche di fronte a rischi minacciosi. 

    Il pericolo che sfida questo libro è quello di mettere al centro la gentilezza ed i buoni sentimenti, oggi spesso maltrattati quasi fossero puerili sfoghi di anime semplici, incapaci di rapportarsi, anche machiavellicamente, con la crudezza della realtà che appare edulcorata dalle lenti di un colpevole ed ingenuo buonismo. 

      Emilia Giorgetti non teme di parlare attraverso la voce narrante di una bambina che vive la sua infanzia nel secondo dopoguerra: Marta, o affettuosamente Martina, si affaccia a piccoli passi alla vita, scoprendo attraverso l'esperienza il manzoniano guazzabuglio presente nel cuore degli uomini, siano essi bambini siano essi adulti.

       Lo schema stesso del libro rifugge da forzose architetture razionalistiche e per questo scontate, lasciandosi guidare dal tempo interno di matrice bergsoniana che ogni stagione offre a Martina. Alla tradizionale quadripartizione “Inverno, Primavera, Estate, Autunno” si aggiungono altre due sezioni, “Ancora estate” e “Verso l'autunno”, quasi fossero due nuove stagioni che si affiancano alle altre sulla base della percezione del tempo di una bambina che riconosce proprio nei mesi di massima luce e di assenza di impegni routinari cadenzati -primi tra tutti la scuola- la dilatazione e l'esplosione degli spazi di libertà, vissuti per lo più all'aria aperta in una dinamica relazionale ricca e variegata, fatta di scoperte, delusioni, di avventure, di creatività, di contatto con la natura nei suoi imperscrutabili cieli, negli animali, nelle piante. 

      Il mondo descritto, rapportato a quello attuale caratterizzato dall'individualismo crescente delle giovani generazioni, appare come uno spaccato di società perduta; il romanzo diventa pertanto una testimonianza urgente di come sia necessario recuperare relazioni autentiche, non più prevalentemente assorbite e mediate da apparecchi tecnologici e chiuse entro pareti illuminate a led, che diventano oggi subdole prigioni di bambini.

      Non è un caso che il titolo sia “L'alveare”: un'operosità di piccoli insetti in continuo movimento che lavorano insieme per la fecondità del gruppo attorno ad un'ape regina. L'alveare diventa simbolo efficace di una vita che non rifugge da fatiche e che trova il miele -quasi una trasposizione figurata del senso della vita- proprio nell'operosità, nello scambio e nella solidarietà umana. La grande casa delle zie, con le tante cellette delle stanze in cui si possono ospitare tante famiglie e condividere spazi e letti, è metafora di accoglienza, di apertura, di collaborazione.

      In questo romanzo, il punto di contatto tra mondo degli adulti e quello dei bambini si coglie proprio nell'approdo al simbolico, immaginario ponte tra l'ardita fantasia dei fanciulli e la ricerca di un significato che dia ragione all'esperienza secondo un procedimento di razionalizzazione tipico degli adulti. 

      Esempio significativo può essere il regalo che viene donato alla compagnia dei bambini dalla signora Ester: la Menorah, la lampada ebraica a sette bracci. Lungi dal costituire un mero oggetto di valore religioso, la protagonista cerca di trovarne il messaggio che renda quel dono significativo: esso rappresenta per Marta, così come l'alveare per l'autrice, l'importanza della collaborazione; i sei bambini insieme alla signora Ester formano una unità capace di illuminare la vita attraverso i pensieri e le azioni solidali di tutti. Marta inizia dunque a dare il suo significato a ciò con cui entra in contatto, scrutando anche le pieghe oscure che la spaventano ma che sono allo stesso tempo anch'esse un mezzo privilegiato per crescere e prendere consapevolezza. 

      Il difficile passaggio da un'infanzia percorsa da ombre alla percezione che il mondo degli adulti non è poi così inaccessibile ed impenetrabile è infine rappresentato dall'acquisizione di coraggio da parte della protagonista che per mano alla sorellina Innocenza può affermare nell'Epilogo: “Neppure io ho più paura della scala buia”. Ciò che vince il buio è il coraggio del pensiero che, come quello dell'autrice, non si nutre di freddo intellettualismo, ma che può vivere di emozioni ed è capace anche di una “riflessione interrotta” in nome di una socialità piena e vitale.

Emilia Giorgetti. L'alveare. Giovane Holden Edizioni. 

19 febbraio 2024

"romanzo senti/mentale" di Bianca Bellova

 

di Marigabri

       Al contrario di quel che annuncia il titolo, questo non è affatto un romanzo sentimentale nel senso classico e comune del termine. Tutt’altro. È un racconto tragico, di passioni profonde, di relazioni torbide, di sensi accesi e di latente follia; è l’incontro impossibile e sempre deviante fra personaggi con l’anima ferita e silenzi gravi che pesano nel cuore come pietre in fondo a un lago.

      E'un racconto dove, fin dal primo capitolo, entra in scena la morte che, fino all’ultimo, ci sentiremo alitare addosso col suo ansimo inverecondo.

C’è una doppia narrazione: Eda e Nina cominciano a tracciare il loro cerchio di memorie raccontando di sé, definendo le situazioni del presente che poi inevitabilmente vanno a pescare negli eventi passati. Ed è così che questi cerchi apparentemente separati e distanti a poco a poco si avvicinano ruotando fino a incontrarsi e convergere in un punto, in un nome: Eliška.

        Eliška, con la sua vulnerabilità e la sua forza, con la sua stranezza e il suo talento, con i suoi diari segreti e i suoi disegni geniali. Eliška con “le sue dita impeccabili laccate di uno smalto perlato rosa chiaro, dieci figlioletti vestiti per la cresima”.

       Gli eventi, le relazioni reciproche, i traumi inevitabili sono tutti da scoprire.

      Un romanzo sorprendente per lo stile schietto, la costruzione impeccabile, per il dominio della forma che svolge con lucidità un contenuto drammatico disvelando progressivamente una realtà feroce e labile e innalzando intorno al gigantesco e umbratile personaggio di Eliška un edificio fatto di ambiguità e reticenze. Fino a toccare la verità di ciascuno, quella che snuda il dolore e la colpa.

…non abbiamo fatto altro che ratificare la nostra colpa, questo pensa lui, non finirà mai, gli anni futuri li trascorreranno entrambi soli come in una cella della morte, una morte la cui distanza tende al limite dell’infinito, dannazione, tradimento, espiazione, colpa, retaggi, inappetenza, insonnia e baccanti selvagge sulla soglia.”

Il primo romanzo di Bianca Bellova è già una prova matura: una scrittura densa, un ritmo incalzante che non lascia altra scelta se non galoppare trepidanti verso la fine.

Bianca Bellova. Romanzo senti/mentale.Feltrinelli

 

12 febbraio 2024

" Una strada senza nome" di James Baldwin

 

di Giulietta Isola

“Era strano ritrovarsi ad ascoltare, in un’altra lingua, in un altro paese, la solita vecchia storia e sentirsi condannare allo stesso modo”

        James Baldwin ha speso la sua vita per la letteratura, il teatro, il cinema e la lotta per i diritti degli omosessuali e degli afroamericani. Da Harlem, a Parigi, al Sud degli Stati Uniti, la sua voce è stata capace di restituire, nella sua complicata veridicità, un periodo ricco di sfaccettature come gli anni della desegregazione razziale. Una strada senza nome è una profonda riflessione sull’America e sul razzismo attraverso le esperienze e gli incontri dell’autore. Un racconto di sconcertante attualità per comprendere quello che continua a rimanere uno dei mali più difficili da sradicare del nostro tempo. In questo percorso non lineare, fatto di balzi geografici e temporali , il ruolo di Baldwin cambia da narratore, protagonista, testimone a pensatore, scivola da una posizione all’altra senza strappi e incoerenze. Il suo sguardo e la sua voce assumono diverse prospettive nella scrittura come nella vita. 

       L’inizio, come fosse una classica autobiografia, ci racconta la difficile infanzia ad Harlem, ma basta poco per accorgersi che siamo di fronte a molto di più. L’identità, dice Baldwin, «sembra discendere dal modo in cui una persona affronta e utilizza le proprie esperienze», ma è anche il prodotto delle interazioni, perché queste esperienze hanno luogo nel mondo e avvengono, quasi sempre, con o attraverso gli altri.  L’esperienza raccontata e analizzata è quella della blackness, cioè essere una persona nera nell’America bianca e razzista. Un apprendistato che comincia già dall’infanzia e che può condurre molto facilmente al carcere o all’obitorio. 

       Baldwin è stato ,in qualche modo, una felice eccezione : ha avuto successo nella scrittura, tenuto conferenze, ha vantato amicizie importanti, ma un nero che “ce l’ha fatta” non può dimenticarsi i dei fratelli e delle sorelle che lottano tutti i giorni per la sopravvivenza, annaspando tra le ingiurie e la miseria. Baldwin in quegli anni 50 nei quali il maccartismo rendeva gli Stati Uniti un posto sempre più asfissiante e inospitale, si rifugia a Parigi dove scopre che il razzismo è assai di moda. 

        Quando l’America ribolle di manifestazioni per i diritti civili , Baldwin non può stare a guardare e nel 1957 fa ritorno prima a New York e poi verso gli Stati del Sud, dove in quegli anni una persona nera correva seri rischi. «Prima di andare al Sud, dubito di aver saputo davvero cosa fosse il terrore». Gli uomini e le donne del Sud che Baldwin incontra sono assolutamente ammirevoli nei loro gesti di quotidiano eroismo, nell’affermazione ostinata della propria presenza nonostante la paura, le loro storie sono una parte fondamentale del libro che Baldwin intreccia con le sue riflessioni sul potere e sulla violenza, sull’ingiustizia e sugli ostacoli verso la libertà. 

       La lucidità e, purtroppo, l’attualità delle sue considerazioni , puntano il dito contro una società pronta a tollerare l’ingiustificabile spaventata dal cambiamento. Il privilegio dei bianchi e la negazione (fino alla dissoluzione) dell’esistenza nera fanno ancora parte del nostro triste presente. In America così come in altri luoghi del mondo. «Non ci sono prospettive chiare: la strada che sembra portare avanti nel futuro sta anche tornando indietro nel passato». 

       Mi piacerebbe sapere cosa penserebbe oggi Baldwin dei movimenti per i diritti civili, tuttora terreno di scontro, non lo so, ma cerco di utilizzare la sua visione lucida per interpretare la nostra realtà e per non ridurre i diritti civili a cartastraccia, dobbiamo difenderli assumendoci in prima persona la responsabilità, possiamo almeno provarci. La conoscenza è già una prima forma d’azione.

UNA STRADA SENZA NOME di JAMES BALDWIN FANDANGO

07 febbraio 2024

"Italo" di Ernesto Ferrero

 

di Marigabri

“L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio nulla.” (Italo Calvino)

      Intenso, essenziale  e esaustivo, lucido e rispettoso è questo ritratto-omaggio di Italo Calvino, scritto con raffinata densità da un allievo, un collaboratore, e infine un amico come fu Ernesto Ferrero che, ironia della sorte, conclude la sua parabola letteraria e umana proprio con questo libro.

A leggere l’ultimo capitolo, quello sulla morte improvvisa di Italo, sale agli occhi un fiotto di commozione e si capisce che è stata spremuta e distillata con cura dal meraviglioso viaggio di tutte le pagine precedenti. Si capisce che in quella emozione è frammisto anche il compianto per la perdita di un intellettuale acuto come Ernesto Ferrero.

     Non si tratta di una vera e propria biografia di Calvino, come quella, monumentale, che gli ha dedicato Domenico Scarpa, ma di un excursus a tappe, dall’infanzia alla maturità, dove appaiono gli snodi fondamentali che hanno formato l’avventura intellettuale e umana di uno scrittore sui generis: silenzioso, schivo, sempre un poco eccentrico nello sguardo verso le cose del mondo, teso a trasformare in narrativa una molteplicità di visioni in divenire. Ma anche di offrire una scrittura forgiata dalle esperienze di viaggio, dalle riflessioni sulla società e sulla politica, dalle meditazioni sulla letteratura, offrendo di ogni aspetto della realtà una lettura unica e originale.

      Sempre più Italo reagisce alla consapevolezza del disordine intrinseco dell’universo con gli strumenti dell’esattezza, della precisione, della descrizione meticolosa e stupefacente (perché descrivere è combattere con il linguaggio per entrare nell’essenza della cosa, mostrarla agli occhi di chi legge come se fosse la prima volta e soprattutto lasciare l’io fuori dal discorso). Infatti:

“L’unica barriera che si può opporre al disordine dell’entropia è l’ordine della scrittura, la moralità del fare bene quello che si fa.”

      Parola e azione, dunque. Entrambe oggetto di un’etica rigorosa. Entrambe a fondamento dell’essere e sentirsi umani.

      La ricerca di questo ordine, di una sorta di geometria cosmica segreta e necessaria, impegnerà Calvino dalle Cosmicomiche in poi, fino ad arrivare all’ osservatorio astrofisico e antropologico del signor Palomar.

     Ma la parabola intellettuale di Italo è varia ed eclettica e non si può certo riassumere in poche righe. Ferrero sa farlo benissimo, invece, in un libro di appena duecento pagine che ci restituisce l’uomo e lo studioso Calvino in tutta la sua seducente stranezza, pur lasciandone intatto il mistero.

     La sua personalità multitasking e il suo carattere riservato possiamo conoscerli, per quel che si può, avventurandoci in questo intrepido viaggio narrativo per arrivare infine a contatto con l’essenza: quel suo essere eterno viaggiatore, esploratore del mondo dentro e fuori, e tuttavia capace di rimanere fino alla fine “un bambino buono” che ha mantenuto intatto uno spirito di scoperta e di meraviglia e, sbalorditivo miracolo, è riuscito a trasmetterlo alle sue lettrici e ai suoi lettori.

Ernesto Ferrero. Italo. Einaudi. 


 

01 febbraio 2024

“ I due piedi che si toccano” di John Vink

 


di Gianni Quilici

       Osserviamo soltanto la donna, che  cammina, lungo una strada,  alta e sottile, busto eretto e passo agile e sorregge con un braccio il suo bambino, che, a sua volta, si appoggia, senza stringersi, a lei. Sarebbe uno scatto , a suo modo, sereno,  nonostante sullo sfondo  tende allineate, che lasciano presagire possibili “campi profughi” e, se vogliamo essere pignoli, i  piedi scalzi della donna che non sono il massimo della goduria.

       Ma ciò che  allarga il senso dell’immagine e colpisce immediatamente lo sguardo è il primo piano della gamba quasi scheletrica di un ragazzo (si può presumere), che si incontra con la pianta dell’altro  suo piede, in presenza di un  gonfiore grosso come una noce, a tal punto, che viene  portato in braccio (presumibilmente) dal padre. Questo scatto fa parte di un libro fotografico di John Vink dal titolo Réfugiés , in cui l’autore stesso ci informa che questa foto è stata scattata nel 1988 nel sud del Sudan e che “ in Sudan la maggior parte dei bambini malnutriti sono troppo deboli per percorrere i 300 m fino al centro di alimentazione e devono essere trasportati lì”.   

       Questa tuttavia non è soltanto una foto che documenta, denunciando una situazione disumana.  Proposito meritevole. E’ anche una foto che ci “tocca” per le qualità espressive.

      Primo, è una composizione essenziale, dove niente è inutile. La strada apparentemente aperta, è in realtà chiusa considerando  la destinazione e il contesto di denutrizione.

     Secondo, i due corpi in movimento, con il loro carico filiale, sono colti nell’attimo, in cui non si sovrappongono. Questo dà ad ognuno dei corpi una propria unicità figurativa.

      Terzo, in primo  piano viene evidenziato il cuore dello scatto: la gamba fragile e denutrita del ragazzo e l’incontro tra i due piedi.

      E’ una foto che informa e che nello stesso tempo  tocca emotivamente e  lascia lo spazio per immaginare. Trovando l’equilibrio giusto tra ciò che viene rappresentato  e ciò che lascia trapelare. Un’immagine che va oltre la foto stessa diventa simbolo più generale della condizione del Sudan in quegli anni.  Operazione che  storicizza visivamente nel modo più profondo, come si evince osservando anche le altre foto presenti nel libro.

JOHN VINK. SUDAN, Kosti.  23 ottobre 1988.

 

 

29 gennaio 2024

"Quanta vita vive! Altrettanta vivrà" di Andrea Appetito

 

           


        Quello che vive, vivrà. Quello che muore, morirà ed è un bene lasciarlo andare, una molecola alla volta. Le spoglie, infatti, appartengono al passato. Quello che vive, invece, risale la corrente del tempo, più forte di ogni torpore. Le storie di giustizia vivranno. Il daimon socratico vivrà. La passione di Rosa Luxemburg vivrà. Il dolore lucido di Sami Modiano, il coraggio con cui rivive per gli altri la tragedia vivrà, come vivono i cervi di Lascaux, i versi di Sofocle ed Eschilo, le polaroid di Tarkovskij, le parole di Dickinson e Lispector… La pazienza delle vite anonime vivrà. L’alba dalle dita rosate di Omero rinasce ogni giorno dal buio millenario. 

       Quanta vita vive! Altrettanta vivrà. I meccanismi di rimozione scavano grandi buche, ma c’è sempre qualcuno che pensa il più profondo perché ama il più vivo. Anche queste parole di Hölderlin vivranno.

27 gennaio 2024

“B 7456. Con Sami per non dimenticare” di Rosanna Valentina Lo Bello

 



Stamani mentre facevo colazione ho acceso la TV

Un uomo anziano con un viso smunto racconta una storia

Parla con voce flebile muovendo le minute sottili labbra ...

Da quella piccola bocca il fiato si traduce in parole pesanti come enormi massi...

come lame taglienti...

Due occhi piccoli incavati …

due fessure arrossate e inzuppate di lacrime ...

nello sguardo basso e fisso dei ricordi..

 

(Stamani mentre facevo colazione ho acceso la TV e un uomo anziano racconta la sua storia...)

Racconta del desiderio di un condannato a morte di voler rivedere per l'ultima volta sua sorella Lucia

Rischia moltissimo quando si avvicina al filo spinato e vede una sagoma che fa cenno di saluto con la mano

Era Lucia

irriconoscibile!!

Aveva lasciato una bellissima ragazza con lunghi capelli biondi e occhi azzurri brillanti dei suoi 17 anni e ora

quella sagoma di pelle e ossa

calva

con occhi spenti

che trascina il suo esile corpo dentro un pigiama a righe

è sua sorella!!!

 

(Stamani mentre facevo colazione ho acceso la TV e un uomo anziano racconta la sua storia...)

Si guardano

e si fanno dei gesti che indicano baci e abbracci

in silenzio si capiscono

dicendosi tutto

L'indomani alla stessa ora ritorna e la ritrova

Le lancia un panno bianco che avvolge una fetta di pane che sarebbe stata la sua razione di cibo giornaliero

Riesce a vedere il tentativo di sorridere da parte della sorella che gli rilancia il panno bianco

Lui lo apre e trova ben due fette di pane

Piange a dirotto dentro quel pane e quell'abbraccio immenso che gli manda la sorella

L'indomani ritorna alla stessa ora e nello stesso punto ma non la trova

Ritorna all'appuntamento con il panno bianco e la sua fetta di pane per ancora tanti

e tanti altri giorni

ma non trova più la sorella.

 

(Stamani mentre facevo colazione ho acceso la TV e un uomo anziano racconta la sua storia..)

Io non ho terminato la colazione e in ginocchio ho continuato a guardare il racconto di questo grande uomo .

Un sopravvissuto.

Un'inevitabile rosso sangue pervade

Indicibile vergogna umana

Immenso amore e comprensione per i sopravvissuti

Mi chino

Chiniamoci

Tutti

"Con Sami per non dimenticare":

 

 

Sami per non dimenticare. 

Testimonianza di Sami Modiano, sopravvissuto ad Auschwitz. 

Speciale TG 5. 21 gennaio 2023

 

 

 

26 gennaio 2024

" Il campo delle pere" di Nana Ekvtimishvili

 

di Giulietta Isola

Un orfanotrofio alla periferia di Tbilisi nella Georgia postsovietica. Lo chiamano la "scuola dei ritardati": nato per ragazzi con disabilità intellettiva, è ormai frequentato da orfani e figli di migranti, che vengono cresciuti tra abusi e negligenza.”

      Il campo delle pere è una storia dura ,forte , coinvolgente che non fa sconti a nessuno. Un racconto in cui la divisione tra vittime e carnefici non è netto. Siamo nella periferia di Tbilisi in una scuola convitto per “ritardati”, è così che vengono chiamati, senza nessun riguardo, gli ospiti di questo orfanotrofio, ragazzini i senza genitori la cui vita è sporca, misera, violenta. 

      Lela, La protagonista, ha diciotto anni, potrebbe lasciare l’orfanotrofio ma ha deciso di non farlo. Il mondo fuori è un’incognita rischiosa che ha paura di conoscere. Ragazza problematica, diffidente e costretta in passato a subire violenze, non si ricorda come sia arrivata lì, né chi siano i suoi genitori. Sa soltanto che la sua missione è tendere una mano agli ospiti più piccoli, a quelli che da soli non saprebbero difendersi. 

      Ma difendersi da cosa? Dal luogo dove si trovano, perché se è vero che il mondo fuori è pericoloso all’interno la vita non è certo semplice. Irakli è il bambino che Lela ha preso sotto la sua ala protettrice, prova per lui un grande affetto e nonostante le scene durissime la tenerezza è palpabile . Quasi ogni giorno lo accompagna da una vicina per telefonare alla madre che lo ha lasciato lì temporaneamente.(?) e continua a riempirlo di scuse, ma ad un certo punto il bambino è costretto ad accettare la dura realtà: lei non tornerà mai a prenderlo. Una famiglia americana si innamora di questo bimbo silenzioso e vivace ed è pronta a portarlo negli Stati Uniti. 

      Qui niente è davvero come sembra a partire dal campo delle pere che non ha niente di bucolico, ha qualcosa di sinistro e di minaccioso, più che un prato è un acquitrino putrido e pericoloso .Il vecchio edificio è una prigione puzzolente di lozione contro i pidocchi, del grasso della cucina, dell’odore di bucato che fuoriesce dai bagni…, è un inferno, Lela lo sa, ma ogni volta che prova ad uscire ha la certezza che il vero inferno sia fuori.

      Plumbeo, grigio, feroce adatto a chi cerca una storia forte verso la quale ci guida l’autrice Nana Ekvtimishvili che “ricostruisce una realtà inghiottita dal nuovo mondo tecnologico dimentico delle macerie residue del cosiddetto Secolo breve” . 

     La scena è riservata a generazioni di bambini rimaste dietro le quinte della storia, perdute in quell’area transcaucasica da sempre al centro di conflitti etnici e dispute territoriali, il ritmo è incalzante, entrare nel Convitto con le sue regole non scritte le sue meschinità, ingiustizie e i suoi fragili equilibri, ci farà provare rabbia e compassione per queste inermi creature senza colpa , vittime di carnefici invisibili. Da leggere. 

IL CAMPO DELLE PERE di NANA EKVTIMISHVILI VOLAND EDITORE

23 gennaio 2024

  

di Marigabri

“Era una donna tranquilla, gradevole, senza pretese. Di modi amabili, una certa timidezza la ostacolava nei rapporti sociali: timidezza comprensibile, perché la vita di piantagione è solitaria; ma a casa propria, e tra gente che conosceva, era al suo modo quieto una persona deliziosa.”

       Eppure, questa pacata signora benpensante e borghese ha ucciso un uomo a bruciapelo. Voleva violentarla, dice. Legittima difesa dunque.

       Ora, apparentemente tranquilla, attende in carcere che venga svolto un rapido processo e autorizzata la sua liberazione.

      Sono gli anni Venti, lei è una donna inglese che vive in Malesia, allora colonia dell’impero britannico. L’esito dunque è scontato.

     E invece no. L’avvocato difensore viene a sapere che esiste una lettera. Scottante e pericolosa perché può ribaltare completamente l’esito del processo.

    Allora, che fare?

    Incalzante, brillante, e crudele come non mai, Maugham ci avvince alla lettura di questo racconto: breve, teso e semplicemente perfetto.

W. Somerset Maugham. La lettera. Adelphi.

 

21 gennaio 2024

" Due poesie" di Anna Maria Lapini

 


di Gianni Quilici

Nel 1987 moriva, una mia amica, Anna Maria Lapini. Due anni dopo scrivevo su una rivista “Il grande vetro” su di lei, attraverso la pubblicazione di due poesie. Ho guardato sul web. Non c’è niente su di lei. E queste poesie meritano di essere ricordate. Così le ho ritrovate e le pubblico su L. R., senza cambiare (quasi) niente.   

Anna Maria Lapini è morta. Due anni fa. (Oggi sono 36 anni)

Per un male incurabile. A soli 35 anni.

Quando la morte era ancora lontana da lei.

Quando ancora la vita era aperta davanti a lei.

Perché la esplorava (la vita) e si appassionava e la cambiava e si trasformava.

Lentamente tendeva a farsi più libera a levarsi laccioli di dosso.

Per questo con lei si poteva cominciare di nuovo, riprogettare, non c’erano limiti aprioristici.

 

Ho davanti queste due poesie di Anna Maria Lapini. Non sono un critico letterario ( se non per un irriducibile gusto estetico). Le leggo attraverso i suoi occhi, che erano belli: azzurri e concentrati, guardavano e  sapevano vedere.

Scrivo impressioni di getto: nelle due poesie mi piace l’autenticità – come si scriveva in tempi cattolico-esistenzialisti- che dice senza nascondersi; mi piace la complessità che accumula dati, ma senza chiudere (ma anche momento di altri silenzi  che ancora cercano il loro dirsi.); mi piace la narratività con cui si intravedono fili, storie, personaggi ( il padre su tutti); mi piace l’accumulo di pathos ( in Ho cercato il mio linguaggio); e di sentimento lieve e tenero  (in  E’ bello ritrovars i nei sorrisi degli amici) che attraversa quei versi;  mi piace la musicalità evidente; mi piace quel “respiro” che dilata.

 

 E’ BELLO RITROVARSI NEI SORRISI DEGLI AMICI

E’ bello ritrovarsi nei sorrisi degli amici

Parlare con loro il linguaggio di sempre

 riconoscere il suono di ogni parola

 e andare al di là del suo senso.

 

  È bello incontrarsi ogni sera o incontrarsi di rado

 perdere insieme il tempo, il sonno, la voglia di fare

 stare così, anche in lunghi silenzi, vicini o di fronte

 nascondersi o scoprirsi senza intenzione, quasi per gioco

lasciarsi con indifferenza e rivederci allo stesso modo. 

 

è così che fermi il tempo e lo fai tuo.

 

HO CERC ATO IL MIO LINGUAGGIO

Ho cercato il mio linguaggio

negli incanti di sonore parole.

Ho passato i giorni a riscrivere libri.

Con sgomento ricercavo in lontani mattini

quel fluido dirsi delle parole

che la sera sorprendeva il mio essere quieto

 libero ora dalle paure

 e dal peso dell’antico silenzio

che mio padre contadino

 rompeva solo con parole essenziali

timorose di farsi discorso.                           

 

Ma quando il mattino il linguaggio  ritornava rapporto sociale

esperienza di una identità contraddittoria e colpevole

le parole perdevano la sicura armonia della sera

 e con la difficoltà del loro dirsi

Incontravano ancora il silenzio.                         

 

 Ora che ho imparato a parlare

che le parole hanno col potere un rapporto sicuro

  e sono anche un linguaggio che in sé cerca

 e ritrova il suo incanto

 ora la parola è potere

potere aggressivo e censorio, lucido e castrante,

è gioco, riflessione, politica, poesia, persuasione, letteratura, critica 

è la tela di ragno della mia esperienza

ma anche momento di altri silenzi 

che ancora cercano il loro dirsi. 

               da “Il grande vetro” 99

                       aprile-maggio 1989