29 ottobre 2010

"Il treno come viaggio. Scheggia" di Gianni Quilici

Il treno è viaggio. Scivolare attraverso un paesaggio mutante. Sguardo fuori. Sguardo dentro.

Raccoglimento e sonnolenza. Parole e incontri.

Il viaggio, se non è sempre troppo abitudinario, favorisce i pensieri. Li muove. Li porta fuori. Favorisce la mobilità del pensiero: intuizioni e descrizioni, suggestioni ... Alimenta desideri. Consente poco la concentrazione, i lunghi pensieri. E' simile al viaggio: cangiante.

Il treno è un piccolo universo, un teatro, un palcoscenico, dove nascono, muoiono e, a volte, vivono storie.

Oggi è più un teatro alla Beckett che alla Eduardo De Filippo. Più silenzio, più atomizzazione a meno di vagoni speciali: gli studenti, i tifosi o per altri versi i treni dei pendolari lavoratori.

Poter assemblare nella memoria tutte le volte che, leggendo, vedendo film o foto, il treno ha assurto a protagonista, anche soltanto in una sequenza o in un capitolo!

Immaginare una biografia, una filmografia... Il treno come viaggio, come paesaggio, come fuga, come inseguimento, come duello, come dolore, come tragedia... Il treno come sguardo, come riposo, come incontro, come erotismo, come esotismo...

24 ottobre 2010

"Tito Strocchi e il Risorgimento a Lucca" di Luciano Luciani

Nei primi giorni del giugno 1870, sui monti tra Lucca e Pistoia, si consumò la breve vicenda della ‘Banda repubblicana lucchese’, che, contestualmente a iniziative simili a Livorno, in Maremma e nei pressi di Pisa, tentò, per usare le parole della sentenza di rinvio a giudizio, di marciare su Firenze, allora capitale dello Stato italiano per “rovesciare il governo e mutarne la forma” e di porre in atto un moto insurrezionale il cui scopo era “distruggere e cambiare il governo legittimo dello Stato per sostituirvi la repubblica”.

Il contesto nazionale ed europeo

Giugno 1870: un momento assai delicato per la politica europea e per il giovanissimo Stato italiano. Infatti, mentre sull’orizzonte continentale si profila il crollo del secondo impero francese e l’ascesa di quello tedesco, nel nostro Paese si assiste a una forte ripresa dell’iniziativa mazziniana, promossa dall’ultima creatura dell’infaticabile cospiratore genovese: l’’Alleanza repubblicana universale’, Aru, che agiva in base a un programma fieramente antigovernativo, intransigentemente repubblicano e marcatamente irredentista nel sostenere il diritto italiano a Trento e Trieste.

Ma le polemiche di Mazzini nei confronti di Garibaldi, che lamentava di non essere stato sufficientemente appoggiato da Mazzini e dai mazziniani nell’occasione dell’impresa di Mentana, e nei riguardi delle idee anarchico socialiste-internazionaliste di Bakunin, indebolirono l’Aru e non permisero al Genovese e alla sua ultima creatura di intercettare le agitazioni sociali contro la tassa sul macinato ricorrenti in tutta Italia e particolarmente intense in Emilia nelle province di Parma, Bologna, Reggio Emilia e Modena… Al punto che il governo del generale Manabrea era stato costretto a inviare un altro generale, Raffaele Cadorna, a cui vennero assegnati poteri straordinari, per reprimere le agitazioni nelle campagne.

Al termine delle operazioni militari si erano contati 250 morti e centinaia di feriti.

Nonostante ciò, Mazzini va avanti col suo programma: il 24 marzo a Pavia, un gruppo di circa 40 mazziniani, guidati dal caporale Pietro Barsanti di Gioviano, assalta la caserma San Francesco al grido di “Viva la repubblica”. Negli scontri rimangono uccisi un ufficiale e due dimostranti. Il Barsanti, tratto in arresto, è condotto a Milano e fucilato il 27 agosto.

Tra il 6 e il 10 giugno, in concomitanza con i fatti toscani a Maida, in Calabria, si conta un altro tentativo insurrezionale repubblicano guidato da Ricciotti Garibaldi: dopo uno scontro armato a Filadelfia, una banda di circa 300 elementi viene dispersa dalle truppe regie, mentre ancora altre agitazioni simili si svolgono nella tarda primavera del 1870 a Reggio Emilia e a Como. Ecco, l’iniziativa della banda lucchese si situa in questo contesto tutt’altro che tranquillo per le classi dominanti italiane e il ceto politico-amministrativo da esse espresso: le vecchie parole d’ordine mazziniane sembrano sul punto di fondersi e amalgamarsi con le nuove, legate a una acutissima questione sociale e all’irruzione sempre più consapevole delle masse sulla scena della storia. Siamo di fronte a una miscela esplosiva - repubblica e questione sociale - difficilmente governabile e potenzialmente devastante, per gli uomini della Destra storica…

E tutto questo mentre sull’orizzonte europeo si addensavano le nubi di una guerra sanguinosa che aveva come obbiettivo la questione della supremazia continentale.

La ‘Banda repubblicana lucchese’

La ‘Banda repubblicana lucchese’, risultava costituita da un’ottantina circa di uomini, armati di coltelli, pistole e una sessantina di fucili sottratti dal liceo “Machiavelli”, di quelli usati per le esercitazioni premilitari, quindi vecchi schioppi poco efficienti, si organizza nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1870. Uscita da Porta di Borgo, continua per Bagni di Lucca, toccando Boveglio e Benabbio. La marcia prosegue sotto una pioggia battente che rende in gran parte inservibili le armi in direzione Pontito e verso la macchia degli Antonini dove trascorre la notte.

La mattina del 7 giugno il gruppo, circondata dalle truppe regie – uno squadrone proveniente da Lucca di lancieri Milano, un folto drappello di lancieri Aosta arrivati da Pistoia, un battaglione dell’ottavo reggimento di linea, bersaglieri giunti da Firenze, un battaglione del 58° fanteria – si arrende dopo uno scontro a fuoco: i repubblicani depongono le armi, parte ne sotterrano e lacerano la bandiera rossa.

Come leggiamo nella sentenza di rinvio a giudizio, i cospiratori ”come per via avevano sempre gridato – morte al Re – ed acclamato alla Repubblica, a Mazzini ed all’abolizione del macinato e delle altre tasse, così non dimisero questo contegno, neppure dopo il loro arresto”.

Certo, si tratta di un episodio minore nella storia delle insorgenze risorgimentali e post-risorgimentali, ma significativo del teso clima politico del momento; spia delle preoccupazioni governative circa la rinnovata capacità di iniziativa mazziniana alimentata dall’’Associazione repubblicana universale’ e sostenuta dalle Società di mutuo soccorso e dalle organizzazioni di categoria, tutte più o meno orientate in senso repubblicano e sempre più attente e sensibili alle parole d’ordine che venivano da Londra, dall’Associazione internazionale dei lavoratori, la Prima internazionale.

Interessante, poi, la composizione anagrafica e sociale di questa ‘Banda repubblicana lucchese’: tra i rinviati a giudizio - 85 persone, nella quasi totalità giovani tra i 20 e i 30 anni, giovanissimi alcuni, rari gli individui maturi - troviamo solo cittadini a testimonianza della diffusione del verbo repubblicano negli ambienti urbani e dell’impermeabilità delle campagne alla propaganda mazziniana.

Un terzo sono artigiani; folta poi la presenza degli impiegati, degli studenti, dei lavoratori del terziario e dei servizi, un paio di possidenti, un paio di braccianti, uno scultore, un pittore, un libraio… Socialmente, comunque, già un altro mondo rispetto ai ‘signori’ illuminati - pochi -, ai sacerdoti liberali – rari- e ai moderatissimi notabili lucchesi che nella città avevano guidato il passaggio dal decennio lorenese all’unità con l’Italia: qui si tratta di piccola o piccolissima borghesia, talora addirittura minima, spesso contigua, per condizioni materiali di vita al proletariato cittadino.

Quindi altri protagonisti sociali e politici, anche in Italia, anche a Lucca, si fanno avanti sulla scena della storia, interpreti dei tempi nuovi e dei nuovi problemi all’ordine del giorno: l’Italia e Roma, certo; ma anche la repubblica, la democrazia, la giustizia sociale…

Siamo alla vigilia della agonia del partito storico repubblicano, mentre dà i primi vagiti il partito dell’Internazionale. Non ancora ben definiti i confini ideologici, ibridi e talora confusi i programmi politici. In campo democratico si consumano rivalità, divisioni e riavvicinamenti; polemiche e alleanze tattiche; Garibaldi e Mazzini, ma ora anche Bakunin e Marx, i punti di riferimento e gli idola polemici, mentre agli ideali patriottici si vanno progressivamente sostituendo quelli libertari della giustizia sociale, della lotta di classe, del conflitto capitale-lavoro.


Giovinezza e prime esperienze del mazziniano Tito Strocchi

Ecco, la meteora luminosa e breve dell’esistenza di Tito Strocchi passò attraverso questo magma incandescente e ne fu definitivamente segnata.

Strocchi Tito, di Stefano e della fu Giovanna Consolini, di anni 24, nato e domiciliato in Lucca, scapolo, dottore in legge, arrestato il 7 giugno1870”, come si legge nel freddo linguaggio burocratico dei magistrati che firmano il suo rinvio a giudizio, l’atto d’accusa per la breve avventura della ‘Banda lucchese’ ereditò probabilmente le convinzioni repubblicane dai genitori, originari di quelle terre storicamente all’opposizione che sono le Romagne e le perfezionò nell’ambiente mosso, fervido e politicizzato dell’Ateneo pisano, dove nell’anno 1862-63 aveva conseguito la laurea in legge.

Volontario nella terza guerra d’indipendenza, l’anno successivo prese parte alla impresa garibaldina di Mentana, battendosi valorosamente a Bagnorea, Monterotondo e Mentana. Fatto prigioniero in quella sfortunata vicenda, conobbe le carceri papaline di Castel Sant’Angelo e di Civitavecchia. Riacquistata la libertà svolge a Lucca un’intensa attività di agitatore repubblicano fondando l’’Associazione di Mutuo soccorso fra i volontari italiani’; promuovendo la realizzazione di una testata giornalistica “Il Serchio”, che, trasformatosi nel “Popolo Toscano”, sopravvisse alla sua scomparsa e crebbe fino a diventare una importante voce della democrazia regionale; poi, anticipando la sua sensibilità internazionalista che lo doveva portare nel 1871 a combattere con Garibaldi a fianco del popolo francese, è a Lucca organizzatore del “Comitato Italo-Ellenico” di solidarietà con i greci di Candia, insorti per liberarsi dall’oppressione ottomana.

Un impegno costante, un’attività instancabile: è Tito Strocchi, mazziniano convinto, a tenere viva la trama delle relazioni tra Lucca, la Toscana e i principali centri dell’agitazione e della propaganda repubblicane. Tito non è un dottrinario, e pur se caro a Mazzini, è sempre pronto ad accorrere a ogni richiamo dell’Eroe dei due mondi: un comportamento, il suo, che contribuì a fare in modo che tra le due grandi figure del Risorgimento nazionale, in polemica ormai tra loro da oltre un quindicennio, non si spezzasse mai il filo di una qualche forma di riconoscimento e collaborazione.

Forse, fu proprio per questo importante ruolo giocato all’interno della democrazia italiana negli anni immediatamente post-unitari che Tito, dopo aver conosciuto le galere pontificie, conobbe anche quelle italiane: arrestato a Genova nel 1869 perché coinvolto in una cospirazione repubblicana organizzata da Stefano Canzio, fu prosciolto da ogni accusa e tornò velocemente a Lucca per preparare gli eventi del giugno 1870. Fatti che gli valsero l’accusa di cospirazione armata contro lo Stato: ancora carcere, da cui Tito uscì beneficiando dell’amnistia concessa all’indomani del plebiscito che, dopo Porta Pia, aveva sancito l’annessione del Lazio al regno d’Italia.

Appena il tempo di ripassare da casa e ritroviamo il nostro giovane dottore in legge in Francia, con Garibaldi, col ‘Corpo garibaldino dei Vosgi’ impegnato nel generoso tentativo di difendere la democrazia e la repubblica francese dallo strapotere prussiano.

Fu proprio nei pressi di Digione, nei giorni 22 e 23 gennaio 1871, che i garibaldini e i Franchi Tiratori francesi ebbero la meglio sul 61° reggimento prussiano e a Strocchi toccò con ogni probabilità l’onore di strappare a quella formazione militare l’unica bandiera perduta dai Prussiani in quella campagna.

Tornato a Lucca nel marzo 1871 coerentemente, tenacemente continuò a svolgere un’indefessa attività giornalistica, politica, letteraria, mentre faceva pratica d’avvocato a Firenze e poi, emarginato nei fatti dalla sua comunità di appartenenza, era costretto a cercare altrove una qualche fortuna professionale. Si trasferisce, quindi, a Bologna dove frequenta il Carducci, a Massa, a Pietrasanta, a Genova.

Anche in quest’ultimo segmento della sua esistenza Tito Strocchi non rinnegò mai la sua natura di “soldato, tribuno, poeta” impegnato a insegnare “la giustizia, la verità, la bellezza dell’idea mazziniana” come recita la lapide apposta a Pietrasanta per ricordarlo.

Alfiere dell’idea mazziniana, lo Strocchi era, al contrario del suo Maestro, curioso, aperto, attento alle ragioni del socialismo aurorale, come testimonia la sua adesione alla ‘Sezione Internazionale di Firenze’ e la sua partecipazione al lavoro politico-organizzativo dell’’Unione Democratica Sociale del Fascio Operaio’ e della ‘Lega di Mutua Assistenza e Resistenza per le Società Operaie Democratiche di Firenze’.


Venuto a mancare il 12 giugno del 1879, neppure allora, da morto, Tito Strocchi ebbe riconosciuto da Lucca il diritto al rispetto e alla pietas.

L’agitatore repubblicano, infatti, poté essere sepolto nel cimitero urbano della sua città contro il parere della Giunta municipale di allora e del sindaco Bernardini solo in virtù di un duro intervento prefettizio e della mobilitazione di tutte le energie laiche lucchesi e toscane nient’affatto disposte a subire l’intolleranza di chi ancora intendeva la pubblica amministrazione come braccio secolare della Chiesa e interprete delle sole tradizioni cattoliche della città.

Una vicenda destinata a reiterarsi tre anni e mezzo più tardi, quando la ‘Società dei Reduci delle Patrie Battaglie’, nonostante l’ennesimo rifiuto dell’Amministrazione comunale, ancora una volta impugnata dall’autorità prefettizia, riuscì a imporre l’edificazione e l’inaugurazione di un modesto monumento funebre al protagonista di Digione con tanto di epigrafe dettata da Giosuè Carducci:

SE FORTEMENTE SENTIRE - È DA ROMANI - ONORATE, O CITTADINI, LA TOMBA – DI - TITO STROCCHI - MORTO A TRENTATRE ANNI - NOBILI COSE PENSÒ - DEGNE SCRISSE -COMBATTÈ VALOROSO - NEL TRENTINO, NELL’ AGRO ROMANO, A DIGIONE - NULLA CHIESE E NULLA EBBE NEL MONDO - SE NON TARDA PIETÀ

Dunque nel nome di Strocchi due affermazioni del movimento laico e democratico lucchese e toscano postunitario, che testimoniano, comunque, un rapporto conflittuale tra la città e la memoria del militante repubblicano, parzialmente sanato solo nel 1913 dal monumento di Francesco Petroni nel loggiato di Palazzo Pretorio: un conflitto riacutizzatosi, però, negli anni del fascismo.

Non si dimentichi, infatti, che il 3 gennaio 1925, nelle stesse ore in cui Mussolini, col discorso alla Camera “dell’Aula sorda e grigia” si assumeva tutte le responsabilità del delitto Matteotti, annunciava provvedimenti repressivi e autoritari e imprimeva una svolta decisiva in direzione della dittatura, i fascisti lucchesi assaltavano e devastavano la sede della Fratellanza Artigiana in Corte Sbarra; distruggevano carte e documenti, tra cui alcuni autografi di Mazzini e Garibaldi, e trascinavano la camicia rossa di Tito Strocchi come un trofeo per le vie della città.

Poi, escludendo alcune modeste pubblicazioni apparse sporadicamente, attorno alla figura di questo generoso militante dell’idea nazionale c’è solo il silenzio.







21 ottobre 2010

"Carne di cane" di Pedro Juan Gutierrérrez

di Gianni Quilici

Inizio a leggere un romanzo di Salman Rushdie Furia di pagine 342. Inizio al galoppo. La storia sembra piacermi: un professore di idee 55enne, una bionda con “capelli ispidi, biondi con riflessi tizianeschi, labbra piene e sardoniche” cerca di fermarlo per strada. Gli dice: "Lei è una specie di mistero. Lo è per me, in ogni modo". Lui abbaia: "Quello che sto cercando è di essere lasciato in pace"

Giunto però a pagina 118, decido di desistere.

Mi irrita la scrittura barocca di Rushdie, questo accumulo di subordinate e di coordinate delle subordinate, questo sventolio di nomi e di fatti...

Decido di non avere più la pazienza di seguire gli incroci di storie e di lasciarlo sospeso. Lo riprenderò poi. Non un giudizio, una stanchezza, una banale impressione, che descrivo semplicemente come flusso possibile di lettore.

Trovo un romanzo di uno scrittore cubano Pedro Jaun Gutiérrez Carne di cane, di cui ho già letto qualcosa, diverso nello stile a Rushdie.

Tanto l'uno è verboso, l'altro è asciutto; tanto l'uno è flusso di coscienza e sconnessione di tempi, tanto l'altro è occhio sul presente più tangibile.

La lettura procede veloce e mi tiene "preso".

Penso che Gutiérrez sia un Bukowski all'Avana.

Di Bukowski ha la stessa capacità di fotografare una realtà nella sua asciutta crudezza, così come essa è, senza domande ulteriori. Una rappresentazione orizzontale cruda e credibile.

Povero tra poveri, disperato tra disperati, ma anche “desideroso”: tracanna rum, scopa come un forsennato con grande piacere di farlo, senza tuttavia trovare un senso, nè una possibile comprensione di questo mondo "gigantesco e caotico. Incomprensibile".

Pedro Juan Gutiérrez. Carne di cane. Edizioni e/o. TraduzionediGiovanni Barone e Mirta Vignatti.

   

20 ottobre 2010

"Breve storia del verbo essere" di Andrea Moro

di Emilio Michelotti


Analizzare il linguaggio è come analizzare la luce: un nulla, illuminato da un altro nulla, diventa qualcosa.

In questo testo molto denso, accessibile però anche ai non addetti, Andrea Moro, sulla scia di Noam Chomsky e dello strutturalismo, si pone in netta antitesi con la scuola analitica, da Frege, a Wittgenstein, a Bertrand Russel.

Quest’ultimo giudicava il verbo essere “una disgrazia dell’ umanità” ( mentre la frase Socrate è un uomo esprime identità, la frase Socrate è umano esprime relazione). Solo nel linguaggio logico-matematico tale ambiguità sarebbe assente.

Andrea Moro opta per la teoria grammatico-generazionale: le proprietà specifiche del linguaggio nascono dalle leggi di natura, non sono qualcosa che si sviluppa come accumulo di fatti storici casuali.

Perciò si sforza di dimostrare che ciò che sta scorrendo dinanzi a noi ha un senso perché il nostro cervello è adeguato a comprendere le frasi e i concetti come istruzioni per produrre senso, non perché il senso risieda nel linguaggio.

Vi sono leggi invarianti alla base di tutte le lingue naturali. Aristotele aveva fondamentalmente colto nel segno: essere è il tempo della frase. Universalmente , anche nelle lingue prive del verbo essere, la vera struttura di ogni frase è tripartita ma, al contrario di tutti gli altri verbi, “essere” non può essere “copula” (come spesso è considerato) , nel senso di “atto generatore di unità e di nuova verità”, né in quello di “fusione di due concetti indipendenti che formano un giudizio”. “essere” non è , del resto, un predicato di identità, per quanto “identità e relazione son siano antagonisti in linguistica”.

Sì, è vero: la ricerca di Andrea Moro fa più luce su quel che “non può essere” che su quel che “è”, ma ciò non diminuisce il suo fascino, anzi. Analizzare le implicazioni dell’ uso del verbo essere conduce l'autore alla considerazione della impossibilità di decifrare tutti i meccanismi che sottostanno al linguaggio e alle culture umane e a quella della impossibilità di capire “come mai proprio alla nostra specie è capitato tutto ciò”. Riconoscerlo è fare un passo avanti: c’ è più scienza, sostiene, nel riconoscere il mistero che nella pretesa di poter spiegare tutto, “perché la scienza no diventi l’ oppio dei popoli”.


Andrea Moro – Breve storia del verbo essere – Adelphi, 2010

"Il violinista perduto: Gaetano Brunetti" di Luciano Luciani

Personaggio davvero misterioso, questo Gaetano Brunetti!

A partire dalle sue origini, dal luogo e dalla data di nascita. La maggior parte degli storici della musica lo fanno suddito pontificio, nato a Fano intorno al 1740, (nel 1744 per altri) da uno Stefano Brunetti e una Vittoria Perugini originaria di Perugia come, appunto, sembra suggerire il nome: in passato, però, non sono mancate voci dissonanti che lo hanno voluto toscano, pisano per l’esattezza.

Allievo del livornese Pietro Nardini, ritenuto il maggior violinista del suo tempo, che a sua volta aveva studiato presso il celeberrimo Giuseppe Tartini, a partire dal 1762 lo ritroviamo a Madrid, preceduto dalla fama di un precoce talento che venne messo subito alla prova con un pezzo per le musiche di scena di una commedia di Garcia del Castanal. Ad attirarlo, un rinnovato clima civile decisamente orientato in senso riformatore e liberale dopo l’ascesa al trono spagnolo di Carlo III e gli intensi legami che la nobiltà borbonica aveva saputo mantenere con la cultura europea, soprattutto quella musicale.

E’, Gaetano Brunetti, uno dei numerosi artisti italiani intenzionati ad approfittare della tradizionale ricchezza di opportunità offerta dalla corte madrilena ai musicisti di successo: non si dimentichi che qui, solo pochi anni prima, avevano trovato ospitalità, successo e le condizioni necessarie ad esprimere il proprio genio il noto Farinelli e l’ altrettanto famoso Domenico Scarlatti che era vissuto per ben ventotto anni alla corte di Madrid per morirvi nel 1757.

UN APPREZZATO PROFESSIONISTA DI SICURO AVVENIRE

Nel 1767 il giovane Brunetti è nominato dodicesimo violinista della Cappella Reale, (una posizione che sta a indicare non tanto l’abilità musicale, quanto piuttosto l’ anzianità di servizio) e in questa orchestra trascorse l’ intera sua esistenza, conoscendo, poco per volta, una sicura affermazione professionale. Ricordiamo che in quello stesso anno iniziò a insegnare il violino al re Carlo III e musica a suo figlio, il principe delle Asturie, il futuro Carlo IV. Ed è proprio a questa attività di docente che vanno fatti risalire la maggior parte della sua produzione di Divertimenti e Sonate: uno per due violini; 5 per violino e viola; 23 per violino, viola e violoncello. 58 sonate per violino e basso; una per viola e, sempre riferibili a questa pratica didattica, non vanno dimenticati i 13 adagios glosados, ovverosia adagi “chiosati”, forniti, cioè, di tutti gli abituali decori musicali scritti per esteso.

A partire dal 1771 divenne quello che potremmo definire il principale ‘fornitore musicale della Real Casa’ per gli intrattenimenti estivi della corte ad Aranjuez, presso Toledo e a tale scopo scrisse marce, galop, gavotte, minuetti e contraddanze: una generosità artistica, la sua, che fu premiata qualche anno più tardi, nel 1779, con l’incarico ufficiale di direttore delle esecuzioni.

Insomma, fin dai primi anni della sua permanenza il Spagna, Gaetano Brunetti dà prova, oltre che di una sicura competenza musicale, anche di una grande abilità ed intelligenza nel muoversi tra gli infidi ambienti, artistici e aristocratici, che in parte facevano riferimento, in parte ‘facevano fronda’ nei confronti della corte madrilena. Questo spiega perché tra i suoi committenti possiamo annoverare anche il sanguigno e umorale Don Luis, fratello di Carlo III e protettore di Luigi Boccherini. All’ Infante Brunetti dedicò varie raccolte cameristiche, mentre non poche arie di concerto sono dedicate alla duchessa d’Alba e a Manuel Godoy, duca d’ Alcudia, principe della Pace e accompagnatore ufficiale della regina Maria Luisa.

MADRID, 1768. ARRIVA BOCCHERINI

Un apprezzato professionista di sicuro avvenire fin da subito, dunque, il nostro Brunetti a Madrid, duramente impegnato nella lotta per il successo artistico e i relativi riconoscimenti. Immaginiamo, quindi, che il musicista di Fano non debba essere rimasto particolarmente entusiasta alla notizia che, nella tarda estate del 1768, avevano fatto la loro apparizione nella capitale spagnola i toscani Filippo Manfredi e Luigi Boccherini.

Provenivano da Parigi, una delle piazze musicalmente più ambite e difficili d’ Europa, dove i due si erano fatti conoscere per le loro memorabili esibizioni al Concert Spiritual, l’istituzione concertistica più famosa in questo scorcio di secolo: soprattutto il lucchese Boccherini, il più giovane tra i due, era emerso come un eccellente virtuoso del violoncello, capace non solo di straordinarie arditezze tecniche, ma anche di esprimere con pienezza artistica e ricchezza di novità la nuova sensibilità accorata, imprevedibile, struggente che si andava già diffondendo in Europa.

Boccherini ha venticinque anni e aspira a un impiego a corte, magari proprio presso quel principe delle Asturie che dimostrava sensibilità musicale e altrettanta larghezza di mezzi. Boccherini ce la mette tutta e nel giro di un anno l’aristocrazia spagnola può apprezzare due suoi importanti lavori: il Concerto grande a più strumenti obbligati (1769), scritto per i concerti che si tenevano nel teatro di Las Canos, durante la Quaresima e i Sei Quartetti Op. 8, a cui fanno subito seguito i Sei Quartetti Op. 9. Si tratta di due pregevoli biglietti da visita, a cui si aggiunge nell’ estate del 1769, ad Aranuez, l’esecuzione della cantata La confederazione dei Sabini con Roma, già rappresentata a Lucca nel dicembre 1765 in occasione della festa delle Tasche.

MA QUEL POSTO E’ GIA’ OCCUPATO…

Ma il posto presso il futuro Carlo IV è già occupato da Gaetano Brunetti che non ha nessuna intenzione di lasciarsi scalzare da una posizione privilegiata e faticosamente costruita. Così, nel 1770 al musicista lucchese non resta che acconciarsi presso l’ Infante Don Luis, che lo nomina “Compositore e virtuoso di camera di S. A. E.” . Una discreta sistemazione se non fosse che, per certo discutibile ed eccessivo stile di vita dell’Infante, questi, a partire dal 1776, fu prima progressivamente emarginato dalla vita di corte e poi esiliato nella residenza di La Arenas, una località distante centocinquanta chilometri da Madrid: una vicenda ancora oggi piuttosto oscura che doveva definitivamente allontanare don Luis da ogni residua aspirazione di successione al trono di Spagna per sé e per i suoi discendenti.

Boccherini, insieme con la famiglia, seguì per quindici anni, sino alla morte di don Luis, avvenuta nel 1785, la sorte del suo protettore, scontando un isolamento che, se pur doloroso sul piano umano, doveva rivelarsi invece creativo sul piano artistico. Fu qui, ad Arenas, che, secondo i biografi più accreditati, il compositore lucchese non solo non arrestò la propria straordinaria capacità di lavoro, ma, anzi, conseguì i massimi risultati della sua più matura ispirazione musicale.

Una situazione favorita destinata a venire meno nell’ annus horribilis, il 1785, quando, in un breve volgere di mesi, il compositore lucchese perse la moglie, Clementina Pelicho, originaria di Roma e il suo protettore. Mai, negli anni successivi pure fecondi e importanti, torneranno a crearsi condizioni così propizie per la sua creazione musicale e artistica.

Migliore la sorte di Gaetano Brunetti. Quando nel 1788, Carlo IV salì al trono, non dimenticò il suo maestro di musica: prima lo chiamò a far parte dei Musicisti della Camera Reale (Gaetano Brunetti al violino; Francisco Brunetti, suo figlio, al violoncello, Manuel Espinosa all’arpa e all’oboe); poi, nel 1795, gli affidò l’ incarico di dirigere l’Orchestra della Camera Reale, per cui il compositore produsse molta della sua musica.

Tanto poco conosciuto, da risultare quasi enigmatico, quanto operoso, il nostro Brunetti compose moltissimo: circa 450 pezzi, la maggior parte dei quali consiste in brani da camera scritti per essere eseguiti da e per il re, che si produceva al violino, e il suo ensamble. Oltre a quanto già indicato realizzò 33 sinfonie (la n. 9 concertante per due violini; la n. 33 detta Il Maniatico con violoncello obbligato); 6 ouvertures; 61 sestetti; 53 quintetti; 49 quartetti; trenta trii …

Gradevoli le sue linee melodiche che appaiono formate da un singolo, piccolo motivo che costituisce l’elemento strutturale di un intero movimento. Le frasi musicali appaiono equilibrate: la seconda metà di ognuna è generalmente più lunga della prima e si chiude estendendo e sviluppando l’ idea tematica.

Le sinfonie, per lo più in quattro movimenti, formano il gruppo più importante delle sue composizioni che risentono evidentemente dell’ influenza dei compositori di diverse nazionalità presenti presso la corte borbonica e di un’ accentuata predilezione per i lavori di Haydn. E siccome le preferenze del sovrano si orientavano verso lo stile dei compositori del primo classicismo, la musica del Nostro, pur nutrita di un’immaginazione davvero fuori dall’ordinario, tende ad adattarsi benissimo a questa sensibilità, collocandosi lungo la linea dei sinfonisti italiani che prendeva le mosse dallo stile galante del milanese Giovanni Battista Sammartini. Nella sua attività creativa, il compositore marchigiano, infatti, tese a privilegiare le forme classiche, modulandole, però, secondo una sensibilità già propria del primo romanticismo europeo.

UNA LEGGENDA METROPOLITANA DI DUE SECOLI FA

A Madrid Brunetti lavorò in maniera indefessa, in grande solitudine ed esclusivamente per la corte di Spagna: questo può, forse, in parte spiegare il silenzio calato su lui e la sua opera dalla seconda metà dell’ Ottocento ai nostri giorni. Il principale responsabile di questa fama incerta e appannata si può ritenere il belga Francois-Joseph Fétis, peraltro grande musicologo e didatta, autore di una monumentale Biografia universale dei musicisti e bibliografia della musica, 1873-1875, un modello della storiografia critica positivista, vera miniera di notizie, anche se non sempre esatte. E’ a lui che dobbiamo anche la leggenda di un suo difficile, anzi velenoso rapporto con Luigi Boccherini, entrambe musicisti italiani all’estero in cerca di fortuna e riconoscimenti, tutti e due legati agli stessi ambienti e alle stesse figure di protettori. Fétis accusa Brunetti della più nera ingratitudine nei confronti di Boccherini, al quale, secondo lo storico belga, il compositore marchigiano avrebbe dovuto tutto: una tesi fondata sul nulla, ma ripresa, ampliata e arricchita dal Picquot, il biografo di Boccherini.

Ma probabilmente su Fétis agivano le suggestioni di un’ altra leggendaria inimicizia, quella di Mozart e Salieri, conclusasi, secondo una notizia sicuramente infondata e calunniosa, con la morte per avvelenamento di Mozart da parte di un Antonio Salieri, geloso della grandezza artistica del rivale.

Nessun odio, ostilità o malevolenza, quindi, tra Brunetti e Boccherini. Piuttosto un’ emulazione, magari appassionata ma consueta negli ambienti artistici e ancor più eccitata dal fatto che in questo caso i due musicisti sono fedeli ai propri protettori che appartengono a settori diversi dell’aristocrazia madrilena, in polemica o addirittura in lotta fra loro. Si spiega così, probabilmente, la sinfonia n. 33 di Gaetano Brunetti, detta Il Maniatico, ovvero il maniaco, l’ esaltato, l’ invasato: la mania sarebbe quella del violoncello, lo strumento di cui era virtuoso e a cui doveva la sua fama Boccherini, che per tutto il tempo si ostina in trilli, decori e abbellimenti musicali, nonostante le sollecitazioni tematiche dell’orchestra. E’ evidente il riferimento carico d’ironia indirizzato da Brunetti ai moduli stilistici utilizzati dal rivale. Ma l’ ironia, tra artisti, è un comportamento legittimo. Altra cosa, invece, il cupo, sistematico ostruzionismo che un’ invenzione romantica vorrebbe attribuire al musicista marchigiano per frenare l’ ascesa a corte del più dotato Luigi Boccherini.

Poco sappiamo della vita privata di Gaetano Brunetti: ebbe una moglie che gli dette una figlia, sicuramente sposata quando il padre morì. Ma è anche ricordato un figlio, Francisco, violoncellista, che gli avrebbe causato non poche preoccupazioni e che gli successe come direttore dell’ Orchestra della Camera Reale. Il vecchio Stefano Brunetti, il padre, che lo aveva accompagnato nella sua permanenza in Spagna morì nel 1777 e la sua prima moglie venne a mancare nel 1797 o 1798.

Solo qualche mese più tardi Brunetti chiese al sovrano il permesso per sposare una cugina della moglie, Donna Juana del Rio. La richiesta fu accolta e il compositore la sposò in seconde nozze il 28 Novembre del 1798: ma dopo solo un mese, nel dicembre dello stesso anno, Gaetano morì.


09 ottobre 2010

"La sifilide" di Luciano Luciani

Bolle franciose’ in versi malsani

Roma, primavera inoltrata del 1527.

I feroci Lanzichenecchi danno l’ultimo assalto alla capitale della cattolicità. La città cade e, mentre papa Clemente VII e gran parte della corte pontificia si rifugiano in Castel Sant’Angelo, orde fanatizzate di mercenari, per lunghi giorni, la riempiono di stragi, rapine, saccheggi indiscriminati. Non si arrestano neppure davanti all’ospedale di Santo Spirito, allora il più moderno ed efficiente d’Europa e massacrano tutti quelli che vi si trovano: pazienti e medici, infermieri e orfani.

Il loro furore si arresta solo di fronte a un’altra struttura ospitaliera, il San Giacomo degli Incurabili: troppo orribile anche per loro lo spettacolo che si aprì ai loro occhi offerto dai malati ospiti in quelle corsie: uomini e donne dalle labbra, il naso, la gola corrosi, la faccia ridotta a un’essudazione gocciolante e nauseabonda, corpi sfigurati da ulcere e pustole grosse come ghiande, “da cui fuoriusciva una sostanza talmente sudicia e maleodorante che chiunque si trovasse a sentirne l’odore avrebbe pensato di esserne stato contagiato.” Spaventati dall’ orrendo spettacolo e preoccupati per la propria salute, i Lanzi indietreggiarono e abbandonarono al loro destino di morte quella marcia, mostruosa, nuova specie di lebbrosi, gli ammorbati dal ‘mal francese’, che ancora non si chiamava sifilide, termine letterario che sarebbe arrivato solo tre anni più tardi.

Originario del Nuovo Mondo, diffuso in tutta Europa prima dai marinai, poi dai soldati degli innumerevoli conflitti che avevano ripreso a insanguinare il vecchio continente, allargato all’intera società da un generale rilassamento dei costumi e dall’indefessa attività di legioni di prostitute, il ‘morbo gallico’, chiamato, a seconda dei punti di vista, anche ‘mal napolitaine’ o ‘italienne’, ‘male spagnolo’, ‘male dei tedeschi’, ‘male dei polacchi’, ‘male dei turchi’ e, per finire, ‘male dei cristiani’ si manifestava generalmente in tre fasi: prima l’apparizione di una lesione localizzata nel punto in cui era avvenuto il contagio e quindi di solito negli organi sessuali; poi, dopo sei/otto settimane, una larga eruzione cutanea sotto forma di rosole e papule; quindi, lesioni granulomatose, la cosiddetta ‘gomma’ sifilitica, a carico dei vari organi.

Responsabile di questo sconcio, un batterio, il Treponema pallidum, i cui effetti sono descritti fin dal 1493 dal medico spagnolo Ruy Diaz de Isla: “separa e corrompe la carne, e rompe e decompone le ossa, e disgrega e contrae i muscoli.” Simile nelle sue manifestazioni alla lebbra e infettivo e inarrestabile come la peste, si trasmetteva attraverso i rapporti sessuali e in un breve volgere di anni attaccò la gran massa della popolazione europea, nobili e popolani, borghesi e proletari. Il pontefice Giulio II della Rovere (1503 – 1513), il papa-soldato, non permetteva a nessuno l’omaggio del bacio al piede a causa della sifilide che gli aveva imputridito l’alluce ed è rimasta memorabile la descrizione dell’incontro di Imola tra Niccolò Machiavelli e il duca Valentino: il segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina fu ricevuto dal Borgia coperto da un una tunica nera, con un cappuccio sulla testa e in un ambiente completamente oscurato. per non mostrare le ulcere che gli sfiguravano il viso.

Nel 1530 il medico-umanista Gerolamo Fracastoro trovò anche il nome con cui designare la peste del XVI secolo: la chiamò sifilide, dal suo poema Syphilis sive de morbo gallico libri tres dedicato a Pietro Bembo, in cui il protagonista, un giovane pastore di nome Sifilo, viene punito con questa nuova orrenda malattia per aver offeso il dio Apollo:


Immantinente comparve sopra la terra

profana

Ignota peste, e colui che, primo col san-

gue sparso

Offrì al re sacrifici e impose altari sui

monti

Sifilo, le ulcere turpi fu il primo a mo-

strare sul corpo.


Ei primo provò notti insonni e sentì i

membri convulsi,

E il morbo da quel che primo colse,

trasse il suo nome.

Sicché Sifilide disser da lui tal peste i

coloni.

E ormai per le città tutte era diffuso

il contagio.”


Un’infezione che ebbe una fulminea diffusione che trovò assolutamente impreparati le autorità mediche e gli organismi statali. E mentre i ceti abbienti riuscivano a limitare i danni, mutando con relativa facilità regime e stili di vita, selezionando i rapporti sociali e privati, i meno fortunati venivano abbandonati al contagio e a misure più repressive e autoritarie che di profilassi igienico - sanitaria.

Dalli alla puttana!

Si accentuarono le misure vessatorie e discriminatorie nei confronti delle prostitute e si affermò un’idea della malattia come punizione. Il sesso perse progressivamente di gaiezza e spontaneità e la sifilide e i suoi guasti entrarono nel repertorio moralistico di predicatori e ordini religiosi, magistrati e santi.

Crebbe nel corso del secolo l’insofferenza verso la figura della prostituta. Uno stato d’animo che, nel suo passaggio da malumore diffuso a vero e proprio astio, risulta ben espresso da due autori cinquecenteschi, Francesco Berni (1497 – 1535) e Tommaso Garzoni (1549 - 1589).

Leggiamo un sonetto del primo:

Un dirmi ch’io gli presti e ch’io gli dia

or la veste, or l’anello, or la catena,

e, per averla conosciuta a pene,

volermi tutta tor la roba mia;


un voler ch’io gli facci compagnia,

che nell’inferno non è maggior pene,

un dargli desinar, albergo e cene,

come se l’uom facesse l’osteria;


un sospetto crudel del mal franzese,

un tor danari o drappi ad interesso,

per darli, verbigrazia, un tanto al mese,


un dirmi ch’io vi torno troppo spesso;

un’eccellenza del signor marchese,

eterno onor del puttanesco sesso;


un morbo, un puzzo, un cesso,

un toglier a pigion ogni palazzo,

son le cagion ch’io mi meno il cazzo.


Siamo, come si vede, ancora nell’ambito della poesia realistico – giocosa che aveva radici ormai secolari, soprattutto in Toscana. In questi versi lo spirito misogino mantiene ancora un che di bonario, è il brontolio borbottone di un uomo deluso dalle donne facili, un modo di sentire, letterariamente elaborato, ancora tutto interno al senso comune ben espresso dai proverbi del tempo, secondo cui “Puttane, ladri e ruffiani stagli lontano”, “Molto guadagna chi puttana perde”, “Gran fortuna passa chi puttana lassa”.

Altra cosa il Garzoni, bizzarro erudito romagnolo che scrive circa mezzo secolo più tardi. Letterato che veste l’abito dei Canonici regolari lateranensi e che ci appare tutto impegnato nel progetto conservatore e restauratore dell’ordine morale sommosso dal disordine rinascimentale, Garzoni ci va giù pesante. “Or quale è” scrive il Garzoni “ quel grand’uomo in armi o in lettere che con la servitù sua non abbia aggrandito il nome delle meretrici, e che non abbia perso dietro a loro il senno, la prudenza e l’intelletto?” “Quanto da loro si riceve e acquista, che non è altro che mille immondezze e sordidezze , le quali onestamente nominare non si ponno. E s’abbellisce il concetto descrivendo quanto son brutte, sporche, laide, infami, furfante, pidocchiose, piene di croste, cariche di mestruo, puzzolenti di carne, fetenti di fiato, ammorbate di dentro, appestate di fuori… l’amore delle meretrici non cagiona altro che miseria e infelicità per fine de’ suoi piaceri. Vadino, dunque, tutte le cortigiane in chiasso; e gli uomini saggi e prudenti attendino ad altri studi che rechino loro utilità, gloria e onore, avendo solo dal consorzio delle meretrici danno e vergogna.”

Da dove arriva, dunque il ‘mal francese’? Dalla bramosia dei piaceri carnali che ha scatenato la collera di Dio. Tornano con forza a farsi strada le ossessioni religiose che il naturalismo rinascimentale aveva contribuito a tenere a bada e a relegare negli angoli bui dell’animo umano. Si eccitano le paure per meglio disciplinare il corpo e le sue passioni, e con la carne le coscienze. È un processo molecolare, quasi un controcanto in crescendo: i disastri e le calamità che sempre più spesso segnano la vita – e la morte – degli uomini, le guerre, la fame, le discordie religiose, le malattie misteriose, senza nome o dai molti nomi, vengono ormai messe in relazione con l’immoralità diffusa nelle città, con il lusso, l’agiatezza e lo spettacolo dei piaceri patrimonio di minoranze satolle e fortunate. “Mortalità, carestia, siccità /son per punire de’ peccati le città”, cantano ossessivamente schiere via via più larghe di penitenti fanatizzati da predicatori sempre più radicali nella individuazione delle responsabilità e nella distribuzione delle colpe.

Ed è la lussuria il peccato per eccellenza, la città la sua casa, le donne d’intrattenimento le sue protagoniste. La Firenze ‘piagnona’ e assediata dagli imperiali di Carlo V non troverà niente di meglio che allontanare dalle proprie mura una trentina di vecchie meretrici. “Le guerre di religione” scrive acutamente J. Rossiaud “portarono il colpo di grazia ai vecchi modi di vivere, e la povertà dell’epoca che seguì fu facilmente indicata e compresa come una punizione dei piaceri trascorsi. Potevano ben esistere qua e là delle piccole isole di calma. Lo spazio sociale - e mentale – era ormai completamente aperto ai cacciatori di streghe, di lussuriosi e di sacrileghi, che ai loro occhi rappresentavano un identico mondo. E fu allora che il monaco predicatore scese dal suo pulpito per mettersi alla testa delle bande armate, e che nella ‘casa delle ragazze’ si istallò, durevolmente, il boia”.









05 ottobre 2010

"Intorno all'amore" di Loredana Giannini

"L’amore è tra me e quel fondo abissale che c’è dentro di me a cui io posso accedere grazie a te. L’amore è molto solipsistico; e tu, con cui faccio l’amore, sei quel Virgilio che mi consente di andare nel mio Inferno, da cui poi emergo grazie alla tua presenza (perché non è detto che quando si va nell’ inferno poi sempre si riesca ad emergere). Grazie alla tua presenza io emergo: per questo non si fa l’amore con chiunque, ma con colui/lei di cui ci si fida.E di cosa è che ci si fida? Della possibilità che dopo l’affondo nel mio abisso tu mi riporti fuori.

Umberto Galimberti

In principio Dio creò il cielo e la terra.

Dio non era un singolo individuo, non era solo, egli regnava con la sua compagna che era la sua diletta.

Poi il Signore Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza” mentre parlava con la sua sposa.

Poiché la creazione è un miracolo che avviene nel più perfetto dei modi solo quando vi è unione fra il principio maschile ed il principio femminile.

Poi Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina li creò.

Ogni anima creata venne accoppiata e ricevette una gemella fatta della stessa essenza.

Ed essi divennero una carne sola.

Così nacque lo hieros-gamos il matrimonio fondato sulla fiducia che unisce gli amanti in una cosa sola.

Poiché quando ci ritroviamo insieme nella camera nuziale scopriamo l’unione divina che Dio e la sua diletta desideravano far provare a tutti i loro figli terreni.

(Sintesi tratta da:

Origini delle Hieros-Gamos

dal libro dell’Amore secondo la tradizione del Libro rosso)


Non ci sarebbe molto da aggiungere… C’è una dimensione carnale ed una divina dell’amore laddove per divina si intende “trascendente”.

Trascendente perché non riconducibile ad un dio o una religione ma perché riesce ad andare oltre le singole individualità, oltre il momento, oltre il tempo, oltre le condizioni…

un oltre che è quella dimensione sublime che si attraversa, anche solo per un attimo, nell’unione dell’uomo e della donna, del maschile con il femminile.

Si attraversa e come ogni attraversamento ha un suo fine eppure appena compiuto ci mettiamo ancora in cammino e non ricerchiamo ancora che quel momento, quell’attimo.

Come un atto creativo, dall’unione del maschile e femminile, nasce una terza dimensione che è oltre e di più della singola somma delle sole due parti.

Questo atto creativo può nascere anche in noi quando sperimentiamo entrambe le nostre parti (maschile e femminile) e le “facciamo sposare” in una unione che genera sempre un qualcosa di esteticamente bello moralmente buono ed eticamente giusto, che sia un’opera d’arte, una poesia, un ricamo o semplicemente anche sitemare un mazzo di fiori raccolti.

Un solo presupposto è necessario l’abbandono a…

l’abbandono che è vincere la paura

l’abbandono che è fidarsi

l’abbandono che è donarsi tutto/a.






03 ottobre 2010

U.S.A. contro John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld

di Mary Madda

Ero una ragazza quando arrivò fulminea la notizia: John ucciso.

Ma come, perché, chi?...C’era qualcosa che non tornava,come se non si volesse far capire niente…

E poi non se ne parlò più sui giornali e soprattutto alla TV.

E molto non tornava…era il 1980.



Come è noto, dalla seconda metà degli anni sessanta negli Stati Uniti si svilupparono numerosi movimenti antagonisti contrari all'establishment e alla sua espressione più odiosa: l'intervento armato in Vietnam e successivamente in Cambogia. Uno dei protagonisti più scomodi per l'amministrazione Nixon fu John Lennon, compositore e cantante (solista) dei leggendari Beatles. Ad un certo punto della sua carriera artistica Lennon prese coscienza del suo potere di comunicazione e scelse consapevolmente di utilizzare il suo mito per fare la differenza, per accendere le coscienze risvegliandole di fronte all'inutilità ed alla tragedia di una guerra che non si poteva, tra l'altro, vincere.

Il documentario di David Leaf e John Scheinfeld, molto classico nella struttura e nel modo di argomentare, rappresenta gli effetti che la permanenza negli Stati Uniti di John Lennon ebbe sul movimento pacifista e della lotta che l'establishment mosse contro di lui per espellerlo in quanto persona non grata. Vengono usate molti filmati di repertorio, alcuni di qualità scadente, quasi a rimarcarne il valore documentale ed inoltre vengono intervistati i protagonisti di quegli anni: dal leader delle Black Panthers, Bobby Seale fino a Noam Chomsky, passando per agenti del FBI attivi durante quegli anni durissimi, fatti di intercettazioni telefoniche, pedinamenti ed altri espedienti al di là della legge, usati tutti per screditare e impaurire chi poteva scuotere le coscienze dal conformismo nixoniano.Sulla grande stampa tutto ciò mancò…

Già ai tempi di "Revolution" si era capito che Lennon era ad una svolta, ma il vero capolavoro, diventato poi inno dell'antimilitarismo, fu "Give peace a chance" (“Date una opportunità alla pace”), la cui portata viene giustamente paragonata a "We shall overcome", inno di Peter Seeger composto in onore delle lotte per i diritti civili.Cantata in molte manifestazioni, cantata da lui con tutti.

Del John Lennon, che emerge dal documentario di Leaf-Scheinfeld, viene sottolineata la grande umanità e l’ingegno creativo con cui usò la sua fama per rendere popolare la causa della pace contro guerra e violenza.

Partecipa in prima persona e il suo “fate l’amore non la guerra” è un apple comunicativo formidabile: per giorni e notti le conferenze stampa con giornalisti e televisioni sono tenute nella sua camera da letto, lui con Yoko Ono.

Yoko Ono viene rappresentata come una figura di grande importanza ,complementare nella vita del musicista, lontana dalle sfumature sinistre che l'hanno caratterizzata nella coscienza dei media.

È un film che non aggiunge forse nulla di nuovo al personaggio, ma che vale la pena vedere, sia perchè rappresenta la genialità compositiva e comunicativa di John Lennon, sia perché ci permette di vivere e di riguardare da una prospettiva diversa quegli anni frenetici sospesi tra violenza del sistema e coscienza civile.

Una frase erroneamente attribuita a Thomas Jefferson recita "il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza", ed è questo il vero messaggio perpetuato da Lennon, un compositore, un cantante, una star del nostro tempo, che non è stato nella torre d’avorio e ha passato alle generazioni successive idee, senso del vivere!

U.S.A. contro John Lennon (Titolo originale: “The U.S. vs. John Lennon”) di David Leaf, John Scheinfeld

con John Lennon, Stew Albert, Tariq Ali, Carl Bernstein, Robin Blackburn.Chris Charlesworth, Noam Chomsky, Walter Cronkite, Mario Cuomo, Angela Davis, John Dean, Elliot Mintz, David Peel, Dan Richter, Geraldo Rivera, Bobby Seale, Tom Smothers, Gore Vidal, John Sinclair.

Documentario, durata 99 min. - USA 2006.

"Senza falsi pudori: Veronica Franco" di Luciano Luciani

Autrice di uno dei rari canzonieri femminili del Cinquecento, animatrice del più raffinato e importante salotto letterario di Venezia, quello di Ca’ Venier, ritratta in più occasioni dal Tintoretto, Veronica Franco (1546 – 1591) rappresenta, forse, il più felice prodotto della prospera e tollerante società veneziana nel secolo del suo maggiore splendore. Meretrice di lusso, la Franco “non senti mai il bisogno di celare o velare la sua professione (B. Croce) a cui, anzi, seppe riguardare con spregiudicata ironia:

E se ben ‘meretrice’ mi chiamate,

o volete inferir ch’io non vi sono,

o che ve n’en tra tali di lodate.

Quanto le meretrici hanno di buono

Quanto di grazioso e di gentile,

esprime in me del parlar vostro il suono..


Figlia ‘d’arte’, la giovanissima Veronica fu iniziata alla professione dalla madre. Un tipo di formazione che si rivelò prezioso quando, naufragato il suo matrimonio , la giovanissima Franco poco più che adolescente si trovò di fronte al problema di come sopravvivere in una città tanto ricca quanto socialmente spietata… E non sbagliò un colpo se è vero che nel 1565 la troviamo inserita nel Catalogo di tutte le principali et più honorate cortigiane di Venezia, una speciale guida ai piaceri erotici della città lagunare con tanto di nome, indirizzo e tariffe delle locali filles de joie. Donna di piacere, ma di altissimo livello, la Franco seppe legarsi sempre agli uomini più potenti e colti del suo tempo, intessendo con loro legami non solo carnali, ma artistici, letterari, filosofici. Per esempio, Domenico Venier, Jacopo Robusti, il signor “Tentoretto”, il nobile Bartolomeo Zacco, il conte Francesco Martinengo, il duca di Mantova Guglielmo Gonzaga, Marco Venier il suo ‘amico del cuore’.

Leggendaria rimane la sua liaison col futuro re di Francia Enrico III di Valois. Questo, lasciata la corona polacca per assumere quella francese, di passaggio nel 1574 a Venezia, ai ricchi festeggiamenti organizzati dai veneziani per guadagnarne benefici economici e politici, preferì una notte d’amore con la Franco. Una vicenda che accrebbe enormemente la reputazione di Veronica, innalzata così quasi al rango di un’altissima figura diplomatica e politica della Serenissima. La voce popolare voleva addirittura che la cortigiana più famosa di Venezia fosse stata offerta all’ ultimo dei Valois ammannita come una succulenta vivanda: nuda e sdraiata su un gigantesco piatto da portata.


I versi diversi di Veronica

Donna di vasta cultura, raffinata letterata, sensibile poetessa se pure non si allontanò granché dagli stilemi petrarcheschi dominanti per gran parte del secolo, riuscì tuttavia a manifestare non di rado un’apprezzabile autonomia nella scrittura. E questo accade soprattutto quando l’ intellettuale lascia trapelare la donna sensuale, l’esperta, e consapevole di esserlo, ‘sacerdotessa d’amore’:


così dolce e gustevole divento,

quando mi trovo con persona in letto,

da cui amata e gradita mi sento

che quel mio piacer vince ogni diletto…


E ancora:


Or mi si para il mio letto davante,

ove in grembo t’accolsi, e ch’ancor l’orme

serba dei corpi in sen l’un l’altro stante.


Si leggano pure i versi:


Forse ancor nel letto ti seguirei,

e quivi teco guerreggiando stesa,

in alcun modo non ti cederei:

per soverchiar la tua sì indegna offesa

ti verrei sopra, e nel contrasto ardita,

scaldandoti tu ancor ne la difesa,

teco morrei d’ugual colpo ferita.


Anticonformista, saggia e accorta nell’amministrazione della propria fama e dei beni materiali che conseguirono, capace sempre di coraggio e dignità nei confronti dei suoi potenti estimatori, la Franco non riuscì a evitare i guasti indotti dalle male lingue: per esempio, quella tagliente di Maffio Venier, vescovo di Corfù e suo nemico personale, che era solito definirla “ver unica puttana”. Oppure le accuse di stregoneria, consuete per le cortigiane del tempo, che nel 1577 le valsero le attenzioni dell’Inquisizione. Anche grazie alla fitta rete di legami la Franco era riuscita a intessere con l’aristocrazia veneziana e non solo, la donna riuscì a venire fuori indenne dal duro confronto con la Congregazione del sant’Uffizio, ma il tempo della fortuna e del successo pubblico si avviava verso il tramonto. Già due anni prima, infatti, un’epidemia di peste l’aveva costretta a fuggire da Venezia e in questo frangente la sua casa era stata saccheggiata e i suoi beni in gran parte dispersi, mentre una volta superato il fatidico “mezzo del cammin di nostra vita” i protettori altolocati cominciarono a diradarsi. A ciò si aggiunsero gravi dolori personali come la morte di ben tre dei sei figli che la Franco aveva messo al mondo. Difficoltà che se la ridussero a una vita via via più modesta e meno appariscente, non resero mai meno appassionata la sua difesa della condizione della donna: risale al 1577 una sua proposta al Consiglio cittadino per la realizzazione di una Casa per le donne bisognose che la stessa Franco avrebbe diretto. Non se ne fece nulla.

Della sua produzione letteraria ci restano le Terze rime (1575), a carattere autobiografico, e le Lettere familiari a diversi (1580) che piacquero a Benedetto Croce che le rieditò e commentò positivamente nei suoi “Quaderni della Critica”.

La morte la colse improvvisamente, per una misteriosa”febre”, nell’estate del 1591.


Un film tratta della sua storia. Si intitola Padrona del suo destino (Dangerous beauty), è relativamente recente, 1998 e vede Catherine McCormack nella parte della ‘honorata cortigiana’: il severo Mereghetti, per quel che vale, lo giudica negativamente. Solo, bontà sua, un * ½.



01 ottobre 2010

“Il giocatore” di Fëdor Dostoevskij

di Gianni Quilici

Non mi è possibile scrivere “qualsiasi cosa” su Il giocatore e in particolare su Dostoevskij, che non sia stato già scritto. Consapevole di ciò ... solo alcune osservazioni veloci.

Primo: Dostoevskij scrive, come è noto, questo romanzo in 26 giorni, dall'ottobre al novembre 1866. Lo doveva consegnare all'editore Stellovskij, pena la perdita di ogni diritto sulle opere già pubblicate e per questo si avvale della collaborazione di una giovane stenografa Anna Grigor'evna Snitkina, che diventerà qualche mese dopo sua moglie.
Questa frettolosità si può cogliere in alcune zone del romanzo, in cui l'autobiografia rimane descrittiva e non diventa, per così dire, espressiva. Ma ciò finisce per rendere il romanzo, in un senso almeno, paradossalmente più moderno, perché più libero e meno rigido dall'imperativo formale, soprattutto perché, in gran parte di esso, è la forza del contenuto che “fa” la forma.

Secondo: è un romanzo di grandi ritratti: il Generale e Polina, il francesino e l'inglese, Blanche; ma vivi sono anche ritratti minori, come per esempio, i due polaccucci litigiosi, arruffoni e ladri e il terzo polacco apparentemente gentiluomo, in realtà pure lui truffaldino. Memorabile è il ritratto della nonna. Determinante, anche ai fini narrativi, il protagonista, l'io narrante, alias, in qualche modo, lo stesso Dostoevskij.
La nonna è l'esempio di come dramma e comicità si mescolino straordinariamente. La sua apparizione inaspettata, il suo aspetto ardito, battagliero, imperioso, in una congrega di squattrinati falliti o avventurieri-e, che aspettavano, da un momento all'altro, il telegramma della sua morte, diventano per contrasto di una vivezza comica indimenticabile.
Al tempo stesso il protagonista è la maggiore coscienza di quella situazione; coscienza che straborda, che tuttavia spesso va oltre ogni convenzione sia per il folle amore (masochistico) per Polina che per la passione smodata per il gioco.

Terzo: è un romanzo ricco di implicazioni psicoanalitiche. Non è un caso che sull'ossessione del gioco Freud abbia scritto in Dostoevskij e il parricidio pagine di straordinario acume . “Egli non trovava pace fin quando non aveva perduto tutto. Il gioco era per lui anche un modo per punirsi. ..Quando con le sue perdite aveva gettato se stesso e la moglie nella miseria più nera, ne traeva un secondo soddisfacimento patologico. Poteva coprirsi di ingiurie al suo cospetto, umiliarsi, intimarle di disprezzarlo....”

Perché questo?
Freud, analizzando una novella di Stephen Zweig, “Ventiquattro ore nella vita di una donna”, arriva ad una conclusione: che la febbre del gioco è un equivalente dell'antica “coazione all'onanismo”. Ipotesi ardita, forse neppure sufficientemente suffragata, ma suggestiva.
Pure il rapporto con Polina, alias Apollinarija Suslova (1), lo stato di febbrile esaltazione amorosa, la disposizione masochistica permetterebbe forse un altro ragionamento di tipo psicoanalitico.
Resta il fatto che Dostoevskij rappresenta, non pretende di capire. Inoltre, non solo non si identifica con il protagonista, ma lo rende talvolta grottesco, percorso da una simpatica, gioiosa, imprevedibile follia, che non lo diminuisce, lo rende misterioso.

    1) Interessante il suo diario, in cui delinea alcuni momenti del suo rapporto difficile con il romanziere russo con in appendice alcune lettere di Dostoevskij a lei. Diario di Apollinarija Suslova, a cura di GianLorenzo Pacini. Guanda.

Fëdor Dostoevskij. Il giocatore. Trad. di Elsa Mastrocicco. Bompiani.

" Nulla, fa bono all’occhi ricordi, ricette, fantasie in cucina" di Simonetta Simonetti

di Luciano Luciani

Senza arrivare a condividere l’affermazione perentoria del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach per cui Der Mensch ist, was er isst, “l’uomo è ciò che mangia”, certo è che il cibo, i procedimenti per elaborarlo e le stesse forme di organizzazione del convito, appartengono alla storia della cultura e rappresentano degli imprescindibili dati antropologici capaci di descrivere i tratti essenziali della vita e dei comportamenti degli uomini.

Non meno del corpo, la mente sembra saziarsi dei piaceri della tavola, in un gioco continuo di conservazione e novità, consuetudine e invenzione, rispetto della tradizione e contaminazione di esperienze gastronomiche di tempi e luoghi diversi.

Sulla memoria dei mangiari poveri di una volta, modulata secondo un garbato mix di rimpianto e ironia, si sofferma Simonetta Simonetti, lucchese, appassionata ricercatrice del passato e dei costumi recenti e meno recenti della città delle Mura. E di Lucca, sul filo dei ricordi personali, l’Autrice intende recuperare la pratiche gastronomiche, cordiali e casalinghe, in uso presso le famiglie operaie e della piccola borghesia cittadina negli anni cinquanta, quelli ‘poveri, ma belli’, quando non esistevano gli snakes e il precotto, il forno a microonde e il frullatore… E la rielaborazione degli avanzi era un’arte che nasceva dall’esigenza di far quadrare con dignità bilanci familiari modesti, quando non modestissimi.

Così, intercalate da proverbi vernacoli caduti in disuso, da filastrocche, cantilene e favolette che accompagnavano l’atto del mangiare, soprattutto dei bambini ma non solo, nelle pagine che seguono fanno la loro riapparizione ricette mai dimenticate, almeno dalla memoria tattile, visiva, olfattiva, del gusto: il pane fritto, la minestra maritata, il pancotto, i carciofi ritti, il lesso rifatto… A dare a queste umili, dimesse vivande ancora più sapore intervenivano non solo i robusti appetiti dei figli del dopoguerra, ma soprattutto, sembra dirci l’Autrice, il piacere della convivialità, dell’incontro a tavola. Sì, perché la riunione delle persone per mangiare insieme era ancora un fatto importante. Era metafora dell’unione, dell’amicizia, della famiglia: non semplice atto nutrizionale, ma gesto rituale, ad alta densità simbolica, di accoglienza e condivisione, attento sia alla preparazione, sia ai modi dell’offerta. Manifestazione di omaggio, di gioia, d’amore tutt’assieme: stati d’animo tanto più intensi e profondi se espressi con l’alfabeto semplice e diretto del cibo, dei suoi afrori e profumi, dei suoi colori e sapori.

Con divertita misura Simonetta Simonetti e il suo Nulla, fa bono all’occhi ricordi, ricette, fantasie in cucina, Lucca 2010, contribuiscono a contrastare sia la perdita di memorie antropologicamente fondative, sia la barbarie rappresentata dal fast food, dal mangiare in piedi, dal cibo-spazzatura alla McDonald’s … Perché, diciamola tutta, se è vero che a tavola si conosce l’uomo, allora i nostri contemporanei ci piacciono davvero poco!


Simonetta Simonetti, Nulla, fa bono all’occhi ricordi, ricette, fantasie in cucina, Edizioni COLORè , Lucca 2010, pp.88.