29 settembre 2013

"L'equilibrio sospeso degli aironi" di Liliana di Ponte



di Marisa Cecchetti

Perfettamente aderente ai molteplici aspetti della società moderna, L’equilibrio sospeso degli aironi, secondo romanzo di Liliana di Ponte, è una dimostrazione di quella che il sociologo Zygmunt Bauman definisce  liquidità e fluidità delle cose, del loro trasformarsi, della loro breve durata, si tratti di ciò che desideriamo e possediamo, o degli affetti stessi, l’amore,  le relazioni familiari. Così Thomas, un ragazzino molto sveglio, intuitivo e sensibile, ha visto finire il legame  tra suo padre e sua madre: lui vive in Inghilterra, lei a Firenze ha un nuovo amore, un fotografo impegnato spesso in zone di guerra. Ma anche i nonni di Thomas sono molteplici, perché la nonna materna, una gallerista fiorentina, ha un fidanzato bancario che vive  all’estero, e il nonno materno, personaggio per altro un po’ inquieto,  ha una nuova compagna. Thomas vorrebbe una famiglia normale, senza doversi dividere tra il padre e la madre, ma sa adattarsi con elasticità al grande gruppo, soprattutto desidera che  tutto funzioni, comprese le relazioni corrette tra gli ex. Un gruppo con le sue tensioni interne, con momenti di crisi e di distensione, che fa tornare in mente il film “La famiglia” di Ettore Scola,  regista che aveva già interpretato le trasformazioni in atto nella nostra società e nel costume .
Nel romanzo l’autrice, partita da questo affresco di varia umanità, all’improvviso dà una sterzata, crea la suspence del giallo intorno a Thomas, che un giorno non rientra a casa da scuola.  Il dramma in cui precipita la famiglia rende più complesse le relazioni, perché il dolore vuole silenzio, perché le parole di conforto e di speranza cadono nel vuoto.
Non ci sono solo i problemi privati nel romanzo, ma lo sguardo spazia sul mondo, le barriere non esistono, l’Europa è casa comune, l’Afghanistan è presente con il suo carico di tragedia. Fanno pensare ad aironi che riposano su una zampa sola i bambini delle foto, bambini “a cui una mina aveva portato via una gamba”,  che “sono contenti che qualcuno si interessi a  loro. Scherzano in gruppo, si muovono con naturalezza sulle stampelle, come se avessero messo in conto da sempre ciò che sarebbe accaduto”.
Ma forse tutti i personaggi hanno un equilibrio precario, come se camminassero su una gamba sola. E’ l’indeterminatezza dell’esistere che va oltre i personaggi e abbraccia l’umanità intera. Può essere superata solo con gesti d’attenzione e di amore. La scrittrice  si affida ad un  narratore esterno che si affianca e si alterna alla narrazione in prima persona. Sono pause, angoli,  dove ogni personaggio si apparta per raccontarsi, per scendere nel suo privato. Il diario diventa  un rifugio e un confidente virtuale, indispensabile soprattutto per accogliere quel dolore materno che, al momento della scomparsa di Thomas,  altrimenti troverebbe via d’uscita solo nella pazzia.

Liliana Di Ponte, L’equilibrio sospeso degli aironi, Arezzo, Zona Contemporanea, 2013, pp.142, euro 14.00




"Corpi estratti dalle macerie" di Franco Calandrini



Scontri di coppia 
in una sola stanza 
 senza esclusione di colpi


di Luciano Luciani

Balzato inopinatamente agli onori delle prime pagine dei giornali estivi per un maledetto imbroglio politico-diplomatico, ormai, come sempre accade per storie del genere, avviato a un repentino e definitivo oblio, il remoto Kazakistan fa da sfondo a Corpi estratti dalle macerie di Franco Calandrini, pubblicato dalla sempre benemerita editrice Quarup: un romanzo breve, o racconto lungo, di rara intensità sull’interno/inferno di una coppia alla ricerca del desiderio impossibile, quello che non conosce l’entropia dei sentimenti, non si deteriora e non si sfilaccia nel logorio dell’assurdo quotidiano. 

Filmaker, scrittore ed evidentemente uomo di teatro, l’Autore intreccia abilmente nella sua narrazione un non luogo con un non tempo: lo scenario claustrofobico di una sola stanza in un lussuoso residence a poche centinaia di metri dal fiume Ural che divide in due parti Atyrau, “la città del fango, adagiata circa venti metri sotto il livello del mare, in piena depressione caspica” nei giorni insensati delle festività natalizie di uno degli anni di questa nostra malmostosa contemporaneità. Invernale, ghiacciato, il paesaggio, sospeso tra due continenti, tra un anno che muore e uno presumibilmente altrettanto morto che fatica a nascere: due signori Nessuno, Martha, “contabile tedesca, capelli folti e mossi rosso rame, maestosa, abbondante, regale, un viso bellissimo, deturpato da una cicatrice” e Ivan, “ construction manager, slovacco, piccolo, arcigno calvo, muscoloso un fascio di nervi nudo”, amanti clandestini ma non troppo, forti ancora di una loro carnale, feroce sensualità, se le danno, metaforicamente e non, di santa ragione, attingendo a un vasto repertorio di colpi bassi, rinfacciandosi gelosie e delusioni, invidie e fughe dalle responsabilità… Le parole diventano allora armi improprie, oggetti contundenti, clave che usate senza nessuna pietas fanno un male cane. Come pure i silenzi, densi, cattivi che spezzano le manifestazioni d’affetto, bloccano la spontanea effusione dei sentimenti. E tutto sotto l’occhio implacabile e maligno di un collegamento Skype, il moderno cordone ombelicale dei nostri tempi globalizzati che propone e ripropone, ossessivamente, il terzo lato dell’eterno triangolo amoroso: il marito di lei, presenza tanto rimossa, quanto ingombrante e invadente. Utile, però, a scatenare sensi di colpa e rimpianti e a far crescere la tensione tra i due verso l’acme di un contrasto lancinante, figlio di un’opaca incomunicabilità e di un’acutissima sofferenza interiore. 

Senza pause, né cadute di tensione Calandrini conduce il suo dramma teatrale in forma di romanzo verso un umanissimo, sorprendente, precipite finale: nessun vincitore, nessun vinto. Resta solo da raccogliere, se e quando è possibile, quello che resta: le rovine che si depositano tra noi, dentro di noi, quando abbiamo esaurito il tempo fisiologico della distruzione di ciò che amiamo.


Franco Calandrini, Corpi estratti dalle macerie, Quarup, Pescara 2013, pp. 70, Euro 12,90

26 settembre 2013

"Sedie di Parigi" foto di André Kertész



di Caterina Donatelli

Parli poco ultimamente, ti sottrai dalla comunicazione forse per scelta o è solo un’esigenza del momento, non lo sai e non vuoi indagare, così devi scegliere cosa dire, quelle poche volte che lo fai.

Allora finisci per ingoiare il magma dell’esistenza e la comprimi in un unico buco e spingi; quello che ne esce è l’estratto, una stilla di tutto ciò che ti ammutolisce e reprime l’anima.

E più il tempo passa, più il mucchio di cose non dette si accampa da qualche parte, a costruire un spazio vuoto che stacca te dal mondo, lasciando una risacca di passioni abbandonate che scheletriscono al sole.

Come queste sedie, scarne e malinconiche disposte casualmente, ombre reduci di tutte le presenze passate da lì, fermate in un tempo di attese sospese e poi andate via lungo quel viale stanco, schiacciato da nervosi tacchi neri.

Ma tu lo sai che basterebbe poco, un gesto, un atto di riscatto, basterebbe aggrapparsi al frusciare dei rami che svettano sopra quei tronchi duri e lasciare salire il respiro oltre le fronde.

 Lanciare in aria le sedie che tirerebbero fuori ali bellissime pronte a esibirsi in acrobatiche geometrie di libertà e ti inviterebbero a danzare, a spogliarti nella leggerezza.

25 settembre 2013

"Corrado Formigli e Riccardo Iacona" di Maddalena Ferrari



Due modi diversi
 di fare giornalismo

Lunedì 16 settembre , poco dopo le 21, La7 manda in onda “Piazza pulita” di Corrado Formigli; è la seconda puntata di questa stagione e in quella precedente il tema era stato “Nessuno mi può giudicare”, naturalmente sulla condanna definitiva di Berlusconi e sulla sua futura sorte in seguito a quanto deciderà la giunta per le elezioni al senato. E stasera qual è l’argomento? “Il cavaliere nel bunker”: chi può andarlo a trovare? I falchi? Le colombe? I familiari? Le olgettine? I bene informati dicono...E avanti con il dibattito.

E’ davvero insopportabile che in una fase così complessa e confusa dal punto di vista politico, per non parlare della difficile situazione economica, si parta sempre e comunque dal gossip, mettendo in primo piano, magari anche parlandone male, chi è stato ed è massimo responsabile di una deformazione personalistica e leaderistica della cosa pubblica. Si vuole fare “piazza pulita” : da chi e da che cosa? E come? Aleggia lo spirito di Grillo, che non per niente ha continuato ad apparire nella trasmissione molte volte come un protagonista alternativo, positivo

In contemporanea, su Rai3, si svolge “Presa diretta” di Riccardo Iacona, e siamo in tutto un altro ordine di idee e di giornalismo. E’ il racconto di un viaggio in pullman dalla Sicilia alla Germania o al Belgio: persone di diverse età partono alle prime luci dell’alba da paesi e città, dove l’automezzo le raccoglie, per emigrare.

E’ un’emigrazione di gruppo. Iacona parla con loro, le incoraggia come un amico e al tempo stesso ci fa toccare gli elementi concreti del viaggio: volti, corpi, oggetti, ma anche le ore che passano, il paesaggio vecchio che si lascia e quelli nuovi che si incontrano. 
 I luoghi di destinazione sono per questa gente una speranza, ma per chi è già lì da qualche tempo si sono rivelati più civili e solidali della terra d’origine: l’integrazione non è un miraggio.
E  intanto in Sicilia paesi e cittadine si spopolano, offrendo un quadro desolante.

Formigli e Iacona provengono entrambi dalla scuola di giornalismo “di lotta” di Santoro. Con esiti opposti: il primo si accoda ai sensazionalismi da prima pagina e alla routine dei dibattiti noiosissimi fra ospiti di diverse tendenze; il secondo fa entrare lo spettatore nella realtà dei problemi, conducendolo alla riflessione ed alla presa di coscienza di una società in movimento e in trasformazione, oltretutto con una capacità narrativa accattivante.    

"Malfamati amori toscani" di Luciano Luciani







Firenze.

“La malafemmina è 
come l’ellera: 
disfà il muro 
che abbraccia”




A Firenze le migliori casate della città, direttamente o attraverso i propri intermediari, non disdegnavano di affittare case e stanze alle prostitute. È il caso di Rosso di Giovanni di Nicolò de’ Medici che, come riporta il Catasto fiorentino del 1427, il primo nella storia di Firenze, cedeva l’uso di un’abitazione nei pressi di Chiasso Malaluna a Biagio d’Antonio, macellaio di carni suine che, a sua volta, subaffittava sei piccole stanze a un gruppo di prostitute. Altissima la pigione. Per ogni locale, le donne si impegnavano a versare una cifra mensile che oscillava tra le 10 e le 13 lire, ovvero assai più del salario medio di un artigiano fiorentino, quattrini che presumibilmente dovevano finire tutti o almeno in gran parte nella borsa dei Medici all’inizio della loro avventura politica a Firenze. ‘Malacucina’ era il toponimo che nella città toscana additava lo spazio esclusivo riservato ai tenutari, ai ruffiani, alle meretrici. San Frediano era il quartiere a più alta densità di luoghi del genere, designato nel gergo furbesco e malandrino del tempo come ‘Camaldoli’ per via di un convento camaldolese ospitato proprio in quella zona. Fin dal 1403 toccava a una speciale magistratura fiorentina, gli Ufficiali dell’Onestà, sovraintendere alle attività connesse al sesso a pagamento, inteso, appunto, come un servizio necessario e, soprattutto, un’occupazione che, al pari e più di altre, rappresentava una fonte di lauti guadagni che potevano essere convenientemente tassati e diventare così occasione di introiti per l’intera comunità. Gli Ufficiali, oltre a vigilare sui lupanari, sulle prostitute e i ruffiani, imporre tasse e concedere licenze, svolgevano anche visibili compiti di ordine pubblico: giravano infatti in coppia, armati e accompagnati e protetti da una scorta.


Per il trasgressivo Antonio Beccadelli detto il Panormita (Palermo, 1394 – Napoli, 1471), esponente di rilievo dell’Umanesimo italiano, non era Roma ma Firenze il cuore della civiltà culturale e artistica che stava rifiorendo: e il cuore di Firenze era, secondo lui, rappresentato proprio dalle sue cortigiane. “Lì”, non lontano dal Mercato Vecchio, assicurava questo letterato nomade dalla penna colta ed elegante, esisteva “un posto gioioso” dove è possibile incontrare “puttane e signore dalle quali potrete avere molti piaceri.” E non sorprenda la spregiudicatezza del Beccadelli che tra la generale condivisione, in tutta tranquillità, era solito affermare che le cortigiane sono più utili al mondo delle monache più devote.



Abili, abilissime le fiorentine, le donne in generale, ma soprattutto le cortigiane famose che, come si suol dire, “facevano tendenza” in città, a mantenere desto il desiderio maschile, richiamandolo su zone erogene certo consuete ma sapientemente valorizzate. Per esempio, il seno, spinto verso l’alto da un corsetto attillato e reso ben visibile da vertiginose scollature. Se ne lamenta, un po’ moralisticamente come suo solito, Dante, che, per bocca dell’amico letterato e avversario politico Forese Donati, condanna l’impudicizia delle sue concittadine:



O dolce frate, che vuoi tu ch’io dica?

Tempo futuro m’è già nel cospetto

cui non sarà quest’ora molto antica,

nel qual sarà in pergamo interdetto

alle sfacciate donne fiorentine

l’andar mostrando con le poppe il petto.

(Dante, Purgatorio, XXIII, 97-102)



Ma era nell’alcova che ai frequentatori delle cortigiane era riservata la più audace delle sorprese erotiche. Stiamo parlando dell’uso delle mutande, considerate negli anni del Magnifico Lorenzo, un indumento lussuoso e lussurioso di esclusivo monopolio delle più raffinate dispensatrici dei piaceri di Venere: calzoncini in tela bianca nella sua versione più semplice, intessuti d’oro e d’argento nelle situazioni di maggiore raffinatezza. Nihil sub sole novi, potrebbe dire qualcuno.



“Un pezzo di carne con dua occhi”: questo le meretrici per il domenicano Girolamo Savonarola (1452 – 1498), priore del convento di San Marco a Firenze. Vaccae pingues, grasse vacche, le donne d’amore ai suoi occhi di asceta radicale e riformatore cristiano: pubbliche concubine che non si vergognano neppure di giacere con preti e frati, colpevoli le une e gli altri di quel peccato di lussuria che “fa perdere la grazia di Dio, et etiam lo intelletto”.

Ma la città che era stata laurenziana fin nelle midolla, che aveva amato gli svaghi carnascialeschi e l’essere percorsa dalle “liete brigate, consapevole e fiera del suo ruolo di capitale delle bellezze umanistiche in fondo, dopo un’adesione iniziale, non aveva nessuna intenzione di trasformarsi in una severa “nuova Gerusalemme”. Puntuale il rogo ridusse in cenere le speranze dell’utopia savonaroliana e i suoi appassionati e intolleranti protagonisti.



Interessante anche l’origine geografica delle prostitute pubbliche a Firenze intorno alla metà del XV secolo: nessuna fiorentina, più di un terzo provenienti dai Paese Bassi, in virtù della fama di grande sensualità delle fiamminghe, un quarto circa tedesche, qualche francese, rarissime le inglesi. Dati rassicuranti circa la moralità delle donne di Firenze, ma che trascurano, probabilmente in maniera voluta,  lo stato della prostituzione privata. Questa doveva, invece, essere assai fiorente se qualche anno dopo il ritorno dei Medici a Firenze (1512) possiamo leggere che le puttane “le vanno come pare loro e … le menono la coda più che mai”. Per gli amori facili Firenze è rimasto, dunque, ancora un vero e proprio locus amoenus, destinato però nel giro di neppure un quarto di secolo a intorbidarsi, stretto tra i ricorrenti sussulti del cupo moralismo savonaroliano e un clima culturale dominante intriso del rarefatto platonismo di derivazione ficiniana. E, se al tempo di Cosimo I (1519 – 1574) era possibile trovare a Firenze il raffinato cenacolo erotico - letterario che ruotava intorno alla celeberrima, e ormai non più giovane, Tullia d’Aragona (1506 – 1556), il compito di garantire soddisfazioni meno rarefatte ai fiorentini toccava alle intellettualmente più modeste Maddalena Salterella, Fioretta Bolognese, Nannina Zìnzara e la Cecca… Così, nel 1562, racconta la città e le sue venditrici d’amore un nobile veneziano che, offeso nell’onore, chiede, senza particolari speranze di ottenerla, giustizia alla magistratura fiorentina degli Otto di Guardia: “Accade signori che come fanno li huomini senza consorte alchuna volta conversano con donne et meretrici come è intervenuto a me che essendo indotto a casa la Giulia Napolitana et convenuto seco che lei venissi a dormire a casa mia gli lasciar scudi 4 d’oro … Parve che la prefata o da lei o da altri fusse consigliata a farmi scorno et così manchò non ostante che lei mi habbia fatto burlare da infinita suoi amici di modo che ricorrendo all’officio dell’honestà et pensando che mi dovesse essere administrata iustitia è accaduto che ho visto apertamente gli smisurati et aperti favori fattili d’alchuni di detto uffizio...” Sarà invece proprio la letteratissima cortigiana Tullia d’Aragona a rimanere invischiata nella normativa anti prostituzione emanata nel 1546 da Cosimo che vietava per le ‘donne pubbliche’ l’uso di vesti di seta e tornava a imporre loro di portare sulla testa, ben visibile “un velo o pezzo di stoffa oppure una striscia larga non meno di un dito di colore giallo” prevedendo per ogni trasgressione multe e pene di ogni tipo. Solo grazie alla solidarietà femminile, espressasi attraverso i buoni uffici di Eleonora, moglie del duca, Tullia d’Aragona venne assolta. L’umiliazione, però, era stata troppo grande e la donna, offesa e delusa, deciderà di allontanarsi da Firenze e di abbandonarla alla pesante cappa di autoritarismo politico e religioso che cominciava ad avvolgerla, preferendole Roma, la città all’origine della sua fama.






17 settembre 2013

"Storia di un romanzo" di Thomas Wolfe



noterella di Gianni Quilici

Morto soltanto a 38 anni, di Thomas Wolfe è il primo libro che leggo.
In questo Wolfe racconta la storia di come nasce, si sviluppa e infine si conclude
l'elaboratissimo, gigantesco secondo romanzo per il quale ha lavorato per quattro  anni, scrivendone in realtà ben tre.

Di Wolfe colpisce la dedizione totale verso lo scrivere e l'osservare.
C'è in questo approccio un desiderio smodato di appropriazione di una realtà anche infinitesima; un'ossessione di catalogare mostruosa, che lo potrebbe portare nel vicolo cieco, al fallimento totale.

Questo il fascino, ma qui forse anche il limite della Storia di un romanzo.
Perché non si contenta mai di spiegare. Il suo periodo diventa accumulatorio,   
oggettivamente compiaciuto senza esserlo soggettivamente, stancante e, a volte,  fastidioso. 
 

Thomas Wolfe. Storia di un romanzo. Fazi editore

12 settembre 2013

"Domokos, 1897: i garibaldini a fianco del popolo greco" di Luciano Luciani




Gli ideali di libertà e solidarietà per la nazionalità oppresse furono sempre un tratto distintivo del pensiero mazziniano e dell’agire garibaldino. Tale sensibilità, assai marcata nella generazione che aveva fatto l’Italia, rimase accesa anche nella successiva. Quando nel garibaldinismo la delusione per i modi centralistici e autoritari con cui era stata realizzata l’unità d’Italia si trasformò conseguentemente nella convinta adesione alla causa dei popoli, tutti i popoli, che si battevano per la patria e la libertà, l’uguaglianza e la giustizia sociale.

Assai vivo si mantenne nel nostro Paese il filoellenismo, ossia quel movimento di condivisione attiva e operante per i destini della Grecia, che, con la sua reiterata lotta per l’indipendenza dall’Impero turco, a partire dagli anni venti dell’Ottocento, aveva commosso l’intera Europa.

Così, quando nel 1896 l’isola di Creta insorse contro i turchi e proclamò l’unione con la Grecia, tale sentimento si ridestò in Europa e in Italia, assumendo nel nostro Paese caratteri dichiaratamente antiaustriaci e antigovernativi. Il governo italiano, infatti, vincolato dalla Triplice Alleanza con l’ Austria-Ungheria e la Germania, condividendo con questi alleati le preoccupazioni per gli equilibri balcanici, aveva partecipato al blocco navale dell’isola. In Italia si costituirono, invece, numerosi Comitati “Pro Candia” per soccorrere gli insorti, procedendo a raccolte di fondi e all’arruolamento di volontari, in genere di orientamento repubblicano, socialista e libertario, che intendessero partecipare direttamente alla guerra greca-turca scoppiata nell’aprile 1897. Nonostante l’impegno profuso dal governo italiano nell’ostacolare la partenza dei volontari, circa 1500 italiani riuscirono a raggiungere la Grecia e a organizzarsi in un “Corpo garibaldino” guidato da di Ricciotti, figlio dell’Eroe dei due mondi e di Anita.

Drammatica la prova del fuoco di questa formazione. Il 17 maggio 1897, nei pressi di Domokos in Tessaglia, l’esercito greco subì una dura sconfitta solo in parte riscattata dal valore dei volontari italiani in camicia rossa che pagarono un alto prezzo in termini di feriti e caduti.


Tra questi, il più illustre fu l’on. Antonio Fratti (1848 - 1897), veterano garibaldino della III guerra d’indipendenza, di Mentana e della Francia, giornalista, deputato repubblicano di Forlì, molto amato per la sua ferma opposizione all’involuzione autoritaria crispina e per il suo generoso tentativo di coniugare la tradizione mazziniana con le novità rappresentate dal socialismo.
Sbarcato ad Atene il 1 maggio con “una mezza biblioteca di libri di storia, di carattere tecnico e politico della Grecia”, il 17 maggio cadde tra i primi a Domokos.
Giovanni Pascoli gli dedicò uno dei suoi Inni, che termina con questi versi:
[…] Fratti, se morti non erano i morti
per l’alto tuo cuore,
anche tu vivi. Non muoiono i forti
già, come si muore.
Altri si piega e distende,
ma in piedi altri resta e dimora,
come una statua che accende
nel bronzo perenne l’aurora.
(da Odi e Inni, Ad Antonio Fratti)


Luciano Luciani

05 settembre 2013

"Venezia, una città in amore" di Luciano Luciani




Al son de sta campana, ogni dona da ben se fa putana (proverbio veneto).
Alla fine del XV secolo Venezia appariva al culmine della sua potenza economica, politica e commerciale. Forte di un efficiente apparato di governo, la Serenissima comprendeva i territori corrispondenti all’odierno Triveneto, la parte orientale della Lombardia con Bergamo, Brescia e Cremona, il Polesine, la riviera romagnola e, a est, l’Istria. Imponente e articolata la sua rete di traffici che si allargava all’intero Mediterraneo e a buona parte del vicino Oriente. Nonostante che già a metà del XVI secolo cominciassero a manifestarsi gli effetti dello spostamento delle correnti commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico e che nell’Adriatico si facesse sempre più aggressiva la presenza turca , Venezia rimaneva la maggiore città commerciale e industriale d’Italia: la manifattura della lana, la lavorazione del vetro artistico, i prodotti di lusso che abbellivano i luoghi del potere e del culto di tutta Europa, l’intenso sviluppo dell’attività editoriale, permettono alla Serenissima di conservare ancora tanta parte del proprio splendore e la propria importante collocazione sullo scenario politico ed economico continentale. Anche all’indomani di Cateau Cambresis e della riaffermata egemonia spagnola sull’Italia, lo Stato veneziano cercherà sempre di garantirsi una sua autonomia facendo appello a tutte le risorse che avevano fatto un tempo della città veneta una potenza navale e mercantile esaltata da ruolo decisivo giocato dal Leone di san Marco nella grande vittoria cristiana di Lepanto (1571). Ancora ricca fino all’opulenza, edonista sino all’eccesso, la società veneziana, rispetto a un mondo circostante in gran parte ancora soggetto a vincoli feudali, appariva più mossa, più vivace e per alcuni tratti e, per quanto consentivano i tempi, addirittura laica e liberale. Allegra e soddisfatta la sua vita notturna che vedeva al centro, apprezzate e ricercate, proprio le cortigiane che nella città lagunare sembravano trovare il loro luogo d’elezione. Per loro nessun provvedimento restrittivo, nessuna tassa specifica, nessuna possibilità di vedersi confiscare i beni accumulati: erano ben 11.654 le ‘màmole’ che, come testimoniano i vivaci e dettagliati Diari di Marin Sanudo, popolavano la città e l’entroterra vivacizzando l’esistenza di aristocratici e ricchi mercanti, militari e imprenditori che, altrimenti, nelle loro sontuose dimore di Murano, del padovano e del bassanese non avrebbero saputo come godersi le ricchezze accumulate per mare, nella mercatura e nelle rapaci imprese di conquista lungo le coste dell’Adriatico.

Una condizione privilegiata
Una condizione privilegiata che non poteva sfuggire all’occhio attento di Pierre de Bourdeille, signore di Brantome ed elegante scrittore (1540 – 1614) che nelle pagine delle sue Vies des dames galantes non può fare a meno di magnificare “le meraviglie della città di Venezia, le sue particolarità, e la libertà di cui godevano tutti gli abitanti, fino alle puttane e cortigiane”. Sì, l’immaginazione degli uomini di tutta Europa non poteva non rimanere impressionata dal racconto dello spettacolo fornito dalle bellissime ed elegantissime cortigiane veneziane a passeggio per la città lagunare: seguite da un corteggio di paggi e servitori, le ‘oneste’, altissime su zoccoli che le innalzavano anche di trenta/quaranta centimetri, incedevano per le calli vestite di raffinati soprabiti di velluto, le ‘zimarre’, ornati di bottoni d’oro e impreziositi di pelliccia di ‘vaio’, ovvero di scoiattolo. Anche le sopravvesti erano foderate di pelliccia e le sottane, lunghe fino ai piedi, erano di raso e seta cangiante. Biondo – rosse le loro capigliature, una nuance che piacque a Tiziano Vecellio, valorizzate ed esaltate da una profusione di gioielli e un uso sapiente del trucco che non si limitava al viso ma valorizzava soprattutto il seno:

fazzendose le tete rosse e bianche
e descoverte per galanteria.

Dimentiche spesso, le ‘oneste’, del fazzoletto giallo da collo che indicava la loro professione e del divieto di esibirsi e pavoneggiarsi in piazza San Marco. E non sono rari i casi di rampolli di famiglie benestanti veneziane che per amore delle “màmole” dilapidano per intero il proprio patrimonio:

Gli giovani incauti e oziosi, che punti dal dardo d’amore e ad altro non attendono, ch’alla lascivia per parer belli alle loro amate, e fallace Donne: il più delle volte vogliono abbattersi d’incorrer nell’amor di tali meretrici, le quali ad altro non mirano, che acavarli di mano le loro sostanze proprie, e tenerli perpetuamente nelle dure leggi d’amore, le quali conversano con loro lusinghevoli parole, e falsi gesti, e inchini. Onde avviene che quelli tali datsi in preda a così mendaci lusinghe di varie Donne, traboccano precipitosamente nel peccato della lussuria: del quale non vogliono ritrarre il piede se non con totale sterminio delle loro facultà.
(Giacomo Franco, Habiti delle donne venetiane).

Qualche nome? Angela del Moro, conosciuta come la Zaffetta, cioè figlia di uno zaffo, uno sbirro, apprezzata dall’Aretino, dal Sansovino, da Tiziano e amante, tra gli altri, del cardinale Ippolito de’ Medici; la Zufolina; l’Andriana Schiavonetta, maritata, a cui faceva da mezzana la madre; la celeberrima Veronica Franco… Una città, Venezia, dove si trovarono del tutto a loro agio letterati come Pietro Aretino (1492 – 1556), che proprio sulla laguna scrisse i celebri dialoghi delle prostitute, Ragionamento della Nanna e dell’’Antonia (1534) e Dialogo nel quale la Nanna insegna alla Pippa (1536), e Lorenzo Venier (1510 – 1556), poeta noto per due poemetti osceni in ottave, La puttana errante (1531) tre libri per complessive 138 stanze, un attacco frontale contro la cortigiana Elena ballerina descritta come affetta dal ‘mal francese’, dedita ad amori bestiali e pronta a vendersi per soli 4 scudi, e Il trentuno della Zaffetta, 114 strofe dove si racconta in versi il trentuno cioè uno stupro collettivo ai danni della povera Zaffetta, costretta ad avere rapporti sessuali con trentuno uomini di fila come pena per un rifiuto amoroso. A Lorenzo Venier viene attribuita anche la famosa Tariffa (titolo completo Tariffa delle puttane ovvero ragionamento del forestiere e del gentil’huomo: nel quale si dinota ilprezzo e la qualità di tutte le cortigiane di Venegia col nome delle ruffiane; ed alcune novelle piacevoli da ridere fatte da alcune di queste famose signore agli amorosi), un dialogo tra un nobile veneziano e un visitatore, in cui vengono prese in esame le peculiarità erotiche, con relativi costi, delle più conosciute “màmole” operanti nella città lagunare. I Veneziani, fa dire Pietro Aretino alla Nanna, protagonista dei Ragionamenti, in cui “insegna a la Pippa sua figliuola ad esser Puttana”, “hanno il gusto fatto a lor modo, e vogliono culo, e tette, e robbe sode, morbide, e di quindici, o sedici anni, e fino in venti e non de le petrarchescarie”.

Per tutti i gusti
A San Marco e dintorni ce n’è davvero per tutti i gusti: alla fine del Quattrocento, le locali venditrici di sesso, incalzate dalla concorrenza, non hanno particolari remore morali ad acconciarsi i capelli secondo la moda maschile e a offrire un ulteriore “servizio”, nonostante che le pratiche erotiche sodomitiche, come abbiamo visto, siano le più sospette e detestate dalle autorità laiche ed ecclesiastiche. Sembra prevalere un clima diffuso di esaltazione sensuale che coinvolge anche i più giovani:

I puti te dirà: “mostra la mona”
e ti la mostrerà per un sesin.

Venivano meno i confini tra donne per bene e prostitute, in base all’assunto per cui in ogni donna si nasconde una sgualdrina. Lo ribadiscono in terza rima i versi del Manganello, 1530, operina tanto facile quanto oscena impropriamente attribuita all’Aretino:

Femina non fu mai che non sia croia (dura, testarda);
femina non fu mai che non sia pazza;
femina non fu mai che non sia troia.
Elle vorrebbon star sempre a la piazza,
e tirar la sampogna e ‘l manganello,
sempre con la bugada e con la guazza.
Femina non fu mai senza coltello;
femina non fu mai senza ruina;
femina non fu mai senza bordello.

Attorno alla Venezia rinascimentale, dunque, una larga fama di libertà, tolleranza e spregiudicatezza dei costumi: una nomea non confermata, però, dai dati in possesso degli storici che sembrano parlare un linguaggio piuttosto diverso. Ci dicono, infatti, che anche Venezia confermava la tendenza di tante altre città del Rinascimento a circoscrivere la prostituzione in un’area ben definita: nel caso specifico quella del cosiddetto Castelletto, aperto fin dal 1358, non troppo distante da Rialto, il cuore pulsante delle attività economiche cittadine. Ai Signori di Notte, una speciale magistratura, era affidato l’incarico di controllare quella particolare zona della città, le sue abitatrici, l’andirivieni dei clienti… E, se i documenti veneziani dimostrano che una qualche forma di protezione veniva garantita contro le violenze, le rapine, le aggressioni, raccontano anche un’altra realtà: quella fatta di vessazioni, di richieste di denaro o, più spesso, di prestazioni sessuali gratuite imposte alle donne dagli addetti alla sorveglianza che non avevano particolari scrupoli a trarre vantaggio dalla loro posizione di potere. E non è arbitrario pensare che il famigerato Consiglio dei Dieci, costituitosi con compiti di sorveglianza e repressione interna dopo la congiura popolare del 1310, si sia servito spesso di cortigiane e prostitute come efficaci strumenti per carpire informazioni e metterle al servizio della sua occhiuta polizia segreta.