30 ottobre 2013

"Sostiene Pereira" di Antonio Tabucchi



di Gianni Quilici
  
Sostiene Pereira è un romanzo con una voce che senza volere s’impone : quella del protagonista.

Una voce che ha una sua musicalità: soprattutto per la ripetizione continua di quel “sostiene Pereira”, ma anche per elementi narrativi assillanti: il caldo torrido e il ventilatore, l’omelette alle erbe e la limonata con molto zucchero. Leit motiv, formali e nello stesso tempo sostanziali, perché contribuiscono a delineare  una città e un personaggio .

Una voce che trasmette dei sentimenti articolati, che diventano poi attimi di poesia: la malinconia, di chi vive nel ricordo, nel ricordo della moglie, con la cui fotografia continua ancora a parlare, o della giovinezza viva e spavalda; la stanchezza (e la pigrizia, anche sessuale) di chi deve portarsi dietro un corpo grasso, flaccido e sofferente di cuore; un senso di morte (e dei morti) attraverso anche una complicità letteraria; il compiacimento per essere il responsabile della pagina culturale del quotidiano del pomeriggio  “Lisboa”, ed infine una percezione contraddittoria tra la scelta di neutralità politica nella Lisbona del 1938 sotto il fascismo di Salazar e nello stesso tempo il senso di  inquietudine per la semimilitarizzazione della città, per le voci che corrono di delitti del regime contro lavoratori e manifestanti.

E’ questo contrasto che dà forza alla trasformazione di Pereira, che si trova interrogato, criticato e coinvolto, che vede coi suoi occhi ciò che prima non voleva vedere e che sceglie, che agisce, che si responsabilizza rispetto alla sua terra e alla storia, aiutato da incontri, parole, fatti, che hanno una radice in lui già all’inizio, quando difende la sua neutralità e quella del giornale rispetto alla politica.

Ed è un personaggio,  quello di Pereira, mediato. Non scrive in prima persona, ma viene tradotto da chi lo, per così dire, lo trascrive (Antonio Tabucchi) . Un personaggio che, pur essendo colto sul versante letterario, spesso non sa interpretare le ragioni di ciò che ha pensato e fatto; che, a volte, rifiuta di raccontare ciò che ha provato, perché si prefigge di far conoscere soltanto una parte della sua esistenza, quella più pubblica. Un personaggio quindi, articolato e poetico, con uno spazio di mistero, che ti cattura perché reso nel tumulto di questa trasformazione.
 
Ma tutti i personaggi del romanzo hanno una loro precisa caratterizzazione, scolpiti senza ambiguità: a favore del regime, come il direttore del Lisboa o la portiera, o decisamente contrari come il dottor Cardoso e padre Antonio…

Su tutti forse Marta è il personaggio più intrigante, perché è quello che, agli occhi di Pereira, appare il più desiderabile e misterioso come si evince dal primo momento che la vede:” La ragazza che arrivò, sostiene Pereira, portava un cappello di refe. Era bellissima, chiara di carnagione, con gli occhi verdi e le braccia tornite”.


Sullo sfondo il fluire della vita di una Lisbona sfavillante nella sua bellezza, ma anche   cupa nella sua ottusa, opprimente ferocia fascista. La bellezza vive in quei sentimenti veri e contraddittori che corrono nel romanzo e che lasciano il desiderio di viverli o ri-viverli anche a noi lettori.

Antonio Tabucchi. Sostiene Pereira. Feltrinelli editore. 

28 ottobre 2013

“Antologia di un urlo” di Nico Parente

Antologia di un urlo
di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

La collana Horror Project diretta da Daniele Francardi si arricchisce di un piccolo gioiello, che nasce da una tesi di laurea scritta con competenza da Nico Parente per diventare una miniera d’informazioni per ogni appassionato.

Come sottolinea il professor Marcello Aprile si tratta di “un lavoro serio e scrupoloso, al tempo stesso leggibile e interessante, che ci aiuta a ricostruire uno spaccato di un lato molto sottovalutato della storia italiana recente”. Non solo, è “un corposo manuale, un’enciclopedia della paura con informazioni che vanno dalla letteratura al cinema”. Fin qui l’opinione del docente.

Nico Parente è un giovane saggista, classe 1986, ha il difetto che caratterizza gli autori alle prime armi – pur dotati – di voler mettere troppa carne al fuoco. Il materiale è sovrabbondante: Edgar Allan Poe, Mary Shelley, H. P. Lovecraft, Bram Stoker, Alda Teodorani (intervistata), la narrativa gotica, Tiziano Sclavi… Il terrore su grande schermo, analizzando per sommi capi il cinema di Riccardo Freda, Mario Bava, Lucio Fulci (ringrazio per il mio Filmare la morte in bibliografia), Antonio Margheriti, Ruggero Deodato, Dario Argento, Luigi Cozzi, Joe D’Amato, Lamberto Bava…

Corposa la parte dedicata alla critica dei film più importanti, ma ancora più interessante la sezione interviste, fusa in un solo corpus narrativo. L’autore ha avvicinato: Ernesto Gastaldi, Dardano Sacchetti, Edoardo Margheriti, Ruggero Deodato, Barbara Magnolfi, Eleonora Giorgi (ve la ricordate protagonista di Inferno?), Sergio Stivaletti, Marco Weba, Luigi Cozzi, Antonio Tentori. Il lavoro termina con un’appendice dedicata al fumetto e alla musica, divagando sulle fascinazioni horror dei generi popolari.

Antologia di un urlo non ha il pregio di essere un lavoro unico dedicato a questo tipo di suggestioni. Il lettore può approfondire gli argomenti trattati consultando opere di Luigi Cozzi, Antonio Tentori, Antonio Bruschini, Roberto Poppi, Rudy Salvagnini, Manlio Gomarasca, Davide Pulici, persino qualche mio libro, ma l’elenco sarebbe interminabile.

Nico Parente ha il vantaggio della scrittura fluida, del taglio 
informativo, della facilità di approccio con il lettore. Si rivolge a chi non conosce la materia e divulga il verbo dell’orrore, con stile secco e asciutto, senza fronzoli da critico impegnato e soprattutto senza pregiudizi. Un libro interessante per il neofita che vuole avvicinarsi al mondo dell’horror italiano, scritto da un autore così bravo a maneggiare la penna (la tastiera, padon!) che sto tentando di convincerlo ad aiutarmi a redigere il quinto e (per me) faticoso volume sulla Storia del Cinema Horror italiano

Non sono più molto giovane e credo che Parente conosca meglio di me i talenti dell’ultima generazione che andranno a comporre l’ultimo tomo della ricerca.

Nico Parente
Antologia di un urlo
UniversItalia – Collana Horror Project
Pag. 430 – Euro 30,00
Edit

27 ottobre 2013

"Il bambino di Essauira" di Sergio Tori




di Gianni Quilici

Di Sergio Tori ho scritto in precedenza quando ci aveva lasciati a poco più di 50 anni. Lo avevo definito foto-poeta. Del poeta scrivevo “aveva il sentimento bruciante delle 'cose', la trasfigurazione metaforica, la forza ritmico-musicale”.
Del fotografo vorrei ragionare in questo blog.

Sergio fotografava da sempre nei suoi numerosi ed errabondi viaggi nel mondo; ma sopratutto dalla fine degli anni '90 questa passione era diventata ancora più divorante e professionale. Era entrato a far parte del Circolo fotografico lucchese “PhotoLife” nel 2001 ed aveva iniziato ad esporre. Mostre a Lucca e, ogni anno, a Montecarlo, al Teatro dei Rassicurati, e infine nel 2003 a Milano e a New York. 

Per non scrivere astrattamente scelgo una sua foto qui riprodotta (“Il bambino di Essauira”) che è quella che a me pare la più poetica e complessa anche formalmente.

Ad un primo sguardo colpisce quel sentimento di libertà che il bambino che corre (colto col piede alzato), i gabbiani che volano distendendosi con le loro ali, l'orizzonte stesso indefinito esprimono con rara efficacia.

Questo sentimento liberatorio, osservando con più attenzione la foto, viene “esaltato” da due aspetti: la simbolicità maggiore che il bambino e i volatili acquistano nello scatto in campo lungo e in controluce, con il quale diventano quasi delle silhouette; la bellezza formale dell'inquadratura, che si divide cromaticamente (bianco-nero) in due parti più o meno uguali e in contrasto tra loro. 

 Risultato: una foto che, per un verso, si avvicina all'astrazione della grafica (molto moderna); per un altro verso è invece non solo concreta, ma poetica (la cattura dell'attimo bressoniano).

Sergio Tori. Il bambino di Essauira. Marocco.
                                                                                   



16 ottobre 2013

"Le nu provençal" di Willy Ronis

di Davide Pugnana
Si sa: la prima regola per una corretta lettura del 'testo' fotografico è la scelta di un lessico critico che rifugga dalla terminologia propria della pittura. Provenienti da processi creativi opposti, lingua della pittura e lingua della fotografia rischiano di darsi battaglia dentro lo spazio di un comune telaio lessicale.
  Ma è pur vero che non esiste 'scatto' che non (s)muova depositi inconsci di immagini della tradizione figurativa: la forma e la luce di una mela fissata dall'obiettivo recherà in sé fatalmente la cifra di Caravaggio e di Cézanne, al di là del giorno e dell'ora. Il nudo di donna al bagno di Ronis è esemplare del dialogo fecondo tra pittura e fotografia.
 Lo vediamo d'acchito, spingendo l'occhio nella fessura voyeuristica nella quale l'autore ci costringe: quel taglio prospettico obliquo, risolto nello scorcio della sedia che fa d'abbrivio al racconto e costruisce la spazialità di una bolla intima. 
Ma l'immagine non si apre solo allo spazio; la fotografia è arte del tempo, come la pittura. La sua fissità è sostanza apparente. Il suo tempo è il disporsi muto degli oggetti e del gesto ben oltre l'attimalità della cronaca quotidiana. 
Nel disporre la composizione, Ronis trova continuità temporale nella diagonalità sedia-brocca che riecheggiano a distanza per evocare la profondità. E il tempo è anche la narrazione della luce e dell'ombra. Impariamo tutto da quell'effondersi pulviscolare di una luce di calce e miele, implacabile e lenticolare nel dire le rugosità striate del legno; il mortaio dimenticato nell'angolo; le piastrelle irregolari; il residuo d'ombra umana, in corsa oltre il campo visivo; fino al catino incandescente e pericolosamente in bilico. 
Così non rimangono inespresse alcune finezze prossime all'astrazione, quali: l'eco replicata, dal basso verso l'alto, delle geometrie circolari del tappetto e dello specchio, passando per i dischi della struttura in ferro, quasi metafore del tempo immobile e pausato della stanza; e al centro la posa, l'accademica posa neoclassica da Venere al bagno che Ronis sottrae alla tentazione del ritratto per farle riassume in sé tutte e donne.
 E' qui lo schiaffo della luce sui capelli, sulle spalle e le scapole gracili, lasciato come una frusta a precipizio nel conteggio arcuato delle vertebre e delle costole in penombra, fino alle piante dei piedi, classicamente disposte secondo il contrapposto di una gamba in tensione e l'altra lasciata flessa e libera. 
Tutti questi elementi, fusi in uno scatto vertiginoso, rendono la foto di Willy Ronis la più 'degasiana' del Novecento. Non una citazione o un omaggio fotografico al pittore francese; ma un'assimilazione profonda della sua visione pittorica nella logica formale di costruzione dell'immagine fotografica. 
Ronis supera così l'immediatezza e la casualità del 'clic' fotografico recuperando la causalità intenzionale del classicismo di matrice degasiana, quello del sincretismo spazio-luce-figura. 
Willy Ronis. Le nu provençal. 1949



"La scena" di Cristiana Comencini






di Michela Del Testa




Un turbinio di vita, così viene da definire “La scena”, nuovo lavoro teatrale scritto e diretto da Cristina Comencini, rappresentato in prima nazionale al “Teatro del Giglio” di Lucca.

Un turbinio che sviscera ogni sentimento della vita di una donna: l’amore, la paura, il dolore, l’amicizia e tutta la fragile forza femminile di questo mondo, legata però inesorabilmente alla sfera maschile, temi che da sempre si riscontrano nell’opera letteraria, teatrale e cinematografica della Comencini.

Ad incarnare tutte queste sfaccettature due creature l’una l’opposto dell’altra, l’una la complementarietà dell’altra, interpretate da due delle più eclettiche attrici del panorama italiano: Angela Finocchiaro e Maria Amelia Monti. Tutto prende vita da una scena che Lucia, interpretata da una splendida caratterista quale è Angela Finocchiaro, attrice professionista, deve recitare l’indomani e che per questo prova di fronte a Maria, amica d’infanzia con la quale si confida e si confronta da sempre. L’interpretazione delle due donne della medesima scena è totalmente diversa, come diverse solo le protagoniste: una seria, legata al suo lavoro e con un passato sentimentale che l’ha resa guardinga verso l’intero mondo maschile; l’altra fantasiosa, spensierata, passionale come la serata che ha appena trascorso con un giovane trentenne, interpretato dal giovane e promettente Stefano Annoni, improvvisamente si presenta in mutande, desideroso di conoscere l’universo femminile , ma anche di farsi conoscere e di far conoscere quindi i sentimenti e i pensieri di un uomo.  Così, ben presto dalla scena teatrale si entra poco a poco nella vita reale e nelle diverse interpretazioni che le due donne ne danno. Visione, non più esclusivamente femminile, bensì profonda analisi dei rapporti tra uomo e donna, tra genitori e figli, aprendo a ben più vasti orizzonti ed eliminando, man mano che la discussione tra i tre personaggi va avanti sempre in modo brillante e senza assumere mai toni pesanti o grotteschi, il concetto di colpa e di chi sia effettivamente il carnefice o la vittima nei rapporti tra i due universi.

L’opera ha un ritmo serrato, sapientemente calibrato, è ricca di umorismo, mai banale e lo stretto legame tra vita immaginaria e reale, che continuamente si avvicenda sul palcoscenico, crea un turbinio di incalzanti emozioni che assorbe lo spettatore fino alla fine.

LA SCENA
di Cristina Comencini
Regia Cristina Comencini
Scene Paola Comencini
Costumi Cristiana Ricceri
Disegno luci Sergio Rossi
Con Angela Finocchiaro, Maria Amelia Monti, Stefano Annoni
Compagnia EnfiTeatro

  










15 ottobre 2013

"Hannah" di Beppe Calabretta



 L’insondabile mistero di Hannah

di Luciano Luciani

A vent’anni dalla sua prima raccolta di racconti, (Epolenep, Nerosubianco, Lucca 1993), Beppe Calabretta torna alla narrazione breve, individuata come la forma espressiva più adatta a illuminare il nostro presente, le sue contraddizioni e angustie.

Dodici i racconti, tutti dalla parte dei più deboli: anziani, adolescenti di ieri e di oggi, giovani dalla figura sociale incerta e fragile, anziani, donne… A testimonianza di una radicata ispirazione civile, mai contraddetta nella ormai lungo e meritorio lavoro di scrittura di questo Autore calabro-toscano dalla parola netta e comunicativa.

Ed è Hannah, il racconto eponimo, quello che dà il titolo all’intera antologia, a rimanere più e meglio nella memoria e nel cuore del Lettore: la storia dell’incontro, amicizia e separazione di due vite in ricerca. “Galeotta” Lucca, città dal fascino sottile che non ti aspetti mai, che ti sorprende sempre con le sue piazze, le sue strade al gusto di Medioevo, le chiese, le leggende dei suoi santi e delle sue donne famose.
Al solito un uomo e una donna: lui un Calimero venuto dal sud che cerca senso e appartenenza in una militanza politica indefessa e coerente; lei, una ragazza “senza tetto né legge” dalle origini lontane, tormentata da inquietudini esistenziali e familiari. Due tipici esponenti dei giovani e delle ansie di quella generazione sbrigativamente definita del “sessantotto e dintorni”: lui tempra la sua voglia di libertà con le pratiche quotidiane della politica, immergendosi in toto nella storia del suo tempo; lei, invece, più fragile, più mossa, più tenera e tagliente insieme, senza certezze, provvista solo della forza di un’antica saggezza, vorrebbe volare. E una sera si arrampica in cima a una famosa colonna, mimando il volo e suscitando così lo sgomento del suo compagno, più impacciato, più terrestre più legato alla concretezza ma anche alla prosaicità del quotidiano.

Ecco Hannah è la storia di un’amicizia inconsueta, difficile: “Lo sapevamo noi di che filo era fatta la nostra tela e ci bastava”. Forse perché entrambi erano venuti da lontano, in fondo stranieri in una terra straniera.

E alla fine sarà lei, l’anima meno rasserenata, a partire di nuovo alla ricerca delle proprie, problematiche radici.

Le anse, le pieghe, gli anfratti di questa storia d’amicizia e d’amore sono esplorati con attenta sollecitudine da Beppe Calabretta anche grazie a un linguaggio ora scabro e realistico, ora fortemente evocativo del mistero di Hannah. Sempre comunque capace di descrivere gli scenari magici della “città murata” e i sinuosi sviluppi dei sentimenti.
Muto testimone del trovarsi, prendersi e separarsi dei protagonisti la statua di San Michele arcangelo, che svetta sulla chiesa omonima e della piazza sottostante controlla, da quasi un millennio, amori e affari, traffici e sentimenti.
San Michele arcangelo, vincitore, ancora una volta, sul drago della solitudine e del disamore.


Beppe Calabretta, Hannah e altri racconti, prefazione di Antonio Seracini, Bonaccorso editore, Verona 2013, pp.100, Euro 12,00

" Priebke e la mia nonna Pipina" di Caterina Donatelli



foto di Caterina Donatelli
Questa mattina ascoltavo su radio3 l’avvocato di Priebke ripetere le volontà del suo assistito, così mi sono ricordata del racconto di mia nonna Pipina, che scrissi tempo fa: credo ci sia differenza tra un soldato che ‘eseguì solo degli ordini’ e un capitano delle SS che ha agito perseguendo un obiettivo politico non solo in quel preciso periodo storico, ma per tutta la vita, dato che non ha mai tolto la divisa interiore, da gerarca nazista!
Il revisionismo storico strisciante che si manifesta in queste circostanze è un assassinio a mani fredde, della memoria!




Storie semplici

Da piccola nessuno mi raccontava le favole; non conoscevo i sette nani di Biancaneve, né le scarpette di vetro di Cenerentola, o le avventure spericolate del Gatto con gli stivali, c’era qualcosa di più speciale da raccontare: c’erano le storie di famiglia. Storie semplici, rubate all’infanzia di mia madre e alla “grande casa gialla”, dimora colonica di tenaci mura in mattoni e ciottoli di fiume intonacate, pronte a contenere il palcoscenico vibrante del quotidiano, dove si esprimeva protagonista la vita, in un misto di tinte forti intrise di gioie, dolori, passioni e morte.
Adoravo sedere davanti alle sue ginocchia, o perdermi tra i bianchi capelli sottili e opachi dei nonni, quando decidevano di tirami dentro al microcosmo del loro passato; era un esercizio fecondo per l’immaginazione, oltrepassare le parole, lasciarsi catturare dal suono delle voci che mutava nella descrizione degli avvenimenti e scoprire negli sguardi, impalpabili veli di nostalgia.
Raccontavano di vite sconosciute, forse di sogni mai realizzati o di verità nascoste; una sorta di controstoria fatta di piccole cose, un cesto pieno di straordinari particolari secondari, che restituivano un circuito fiabesco di sentimenti, in un affollato mondo di presenze quasi mitologiche e simboliche, come nei quadri narranti di Henri Rousseau.
Molte di queste storie appartenevano al periodo della guerra: i soldati tedeschi, gli sfollati, i bombardamenti, le corse notturne nelle campagne per raggiungere i rifugi dove, pressati l’uno all’altro, si respirava l’odore aspro della paura.
Spesso, nei racconti di mia nonna riaffiorava il volto di un giovane soldato tedesco di nome Andrea; entrò nella sua vita per pochi giorni, ma bastò per lasciare nella memoria una traccia di malinconia che il tempo non fu capace di cancellare.
Era l’autunno del ’43, o del’ 44, gli alberi si preparavano ad assumere i colori caldi del tramonto, la natura è indifferente agli avvenimenti degli esseri umani.
I soldati tedeschi combattevano lungo la costa; spesso le truppe si ritiravano verso l’interno, forse per riposare e fare rifornimenti prima di ritornare al fronte, così capitava di averli attorno e in casa: Nin ci faciôie ni’ende¹, volevano solo un po’ di cibo, rubavano delle galline o qualche frutto.
A volte li sorprendeva a giocare con i bambini, ma bastava che passassero degli aerei tedeschi per vederli correre urlanti, tenendo le braccia in alto fino alla fatica, su e giù per le terre attorno a casa, come fossero loro stessi dei bambini.
Poi un giorno arrivò Andrea. Era mattino, il sole aveva da tempo illuminato le pareti; in cucina sul misero tavolo di legno, attendevano tre grosse tazze di latte caldo con vicino delle fette di pane, coperte dal tovagliolo di lino del corredo tessuto dalle sue mani, prima di maritarsi.
Lei trafficava nelle stanze con i figli appena svegli, sentì dei rumori e si affacciò sull’ uscio: poco lontano vide un carrarmato tutto crivellato di colpi, probabilmente era arrivato durante la notte.
Ne uscì un soldato con la divisa imbrattata di sangue, trascinandosi come un vecchio si avvicinò indicando con gesti mescolati a poche parole in italiano, il carrarmato dove c’era il suo camerata morto, non sapeva cosa fare; doveva restare lì e aspettare l’arrivo di nuovi ordini.
Lo guardò bene, era giovane, avrà avuto ventidue-ventitrè anni, i capelli spettinati un po’ scuri, due sopracciglia marcate, il corpo stanco segnato dalla paura: gli chiese se avesse fame, il ragazzo rispose di sì con la testa e così entrarono in casa. Disse di chiamarsi Andrea, questo era il nome che lei ricordava, in Germania aveva la famiglia, gli amici e voleva sposarsi, da tempo aspettava notizie da sua madre e dalla fidanzata. Jie friccicôje l’uecchie quande m’arcundôie di la mamme² .
Restarono a chiacchierare a lungo, il soldato aveva voglia di parlare, quella donna che lo ascoltava mentre sbrigava le faccende giornaliere circondata dai suoi bambini, i profumi semplici della cucina, tutto lo riconduceva a una normalità oramai dimenticata, probabilmente gli dava la sensazione di avere ancora una possibilità. Passò il giorno.
La mattina successiva arrivò una lettera, non erano notizie né della madre né della fidanzata, ma l’ordine di tornare al fronte, di tornare a combattere.
Corse da mia nonna, piangeva e tremava, con lo sguardo smarrito le mise la lettera tra le mani, lei non sapeva leggere, ma bastò poco per capire. Seguì un lungo silenzio. Ferma con i pugni sui fianchi abbassò gli occhi, sentiva il peso della rassegnazione che il ragazzo intimamente provava, allora con un gesto deciso, si arrotolò sulle braccia le maniche del vestito, pronta ad allontanare quella triste sensazione il più possibile.
Richiamò suo marito dai campi e gli disse di andare allo spaccio del paese a comprare la medicina per il sapone. Accese un bel fuoco, mise a bollire l’acqua dentro un’enorme pentola appesa al gancio annerito che dondolava al centro del focolare, poi aprì la credenza per preparagli il pranzo con quello che aveva - erano “a masseria”, una mezzadria feudale che obbligava la restituzione di parte dei raccolti ai padroni, ma quello che avanzava era sufficiente per sfamare tutti e per avere le dispense con qualcosa dentro, da mangiare.
Il soldato seguiva ogni operazione in silenzio, rapito, quasi assente, lasciò che i suoi occhi si abbandonassero ai movimenti precisi e rassicuranti della donna che, con il suo impegno e la sua presenza, stava tessendo intorno alla sua disperazione una tela di speranza. Quando mio nonno tornò dal paese, lei ordinò al ragazzo di togliersi la divisa di dosso e meticolosamente la mise a lavare nella tinozza con l’acqua bollente e la medicina. Sinnù ‘nzi scuticciôie³.
In fretta uscì e andò a raccogliere dei ceppi e della legna che mise ad ardere nel forno: quelle dua ci si cucioie lu pane4. Quando la cupola di mattoni divenne incandescente prese degli stracci bagnati, li arrotolò intorno ad un bastone e con bracciate energiche ripulì il piano dalle ceneri; strofinò con forza la divisa e la lavò per bene nella vasca dove si sciacquavano i panni, prese una sedia e la “cacciò dentro” al forno con lo schienale rivolto verso la semisfera e vi poggiò sopra i vestiti del soldato, che si asciugarono con il tepore.
Lo rivestì come si fa con un bambino, vide che mancavano dei bottoni ed allora si procurò la divisa del compagno morto e li ricucì uno per uno con il filo doppio, così non li avrebbe più persi.
Quando fu pronto gli mise in mano un fagotto con del pane, un tocco di prosciutto, del formaggio e un pezzetto di turrune chi li carracine5, un dolce ch’era riuscita a procurarsi per i suoi bambini, barattandolo con delle uova fresche.
A quel punto il soldato ruppe il silenzio e chiese a mia nonna un fazzoletto, lei prontamente andò in camera e dal cassetto del comò ne tolse uno tutto nuovo, era bianco, da uomo; il ragazzo lo prese, se lo passò tra le mani, sapeva di pulito, come fosse un oggetto prezioso lo mise delicatamente in tasca abbozzando un sorriso.
Si salutarono sulla porta e lei ricorda che disse: “Se mai campo, voi sarete i miei primi parenti”. E andò via. Camminava con la testa girata all’indietro e quando i tratti del viso non si distinguevano più, lentamente tirò fuori dalla tasca il fazzoletto bianco e  lo sventolò fino a quando non scomparve dietro agli alberi. Non è più tornato.
Una volta per provocarla le dissi: “Nonna! Hai dato da mangiare a un tedesco, i tedeschi hanno ammazzato la nostra gente”. Lei, con un sorriso strappato alla compostezza rispose: Ere sule nu bardascie6.

1 Non ci facevano niente
2 Gli brillavano gli occhi quando mi raccontava della mamma
3 Altrimenti non si pulivano
4 Quello dove si cuoceva il pane
5 Torrone con i fichi secchi
6 Era solo un ragazzo
ô ed û si leggano come eu ed u francese
 

14 ottobre 2013

"Una poetessa per volta: Katia Sebastiani" di Gianni Quilici



 

Il mio cuore


potrei gettarlo tra le pietre incatramate
che bloccano la rotaia.
Potrei affogarlo in un bicchiere di gazzosa,
o spappolarlo contro
una giornata di sole.

Purché si muova purché
torni a mostrare il suo essere rosso
per elezione
e non continui a mandare sorrisi
cortesemente a chi siede di fronte.
                                   Katia Sebastiani






“Il mio cuore”. Leggiamola.
E' una poesia contro.
Contro la cortesia, la convenzionalità, la maschera, la maschera del quotidiano.
E' una poesia per.
Per la passione, per il cuore, per il rosso del cuore, per la verità.

Soggetto: il cuore di Katia Sebastiani.
Ed è contro il suo cuore, contro la sua piattezza, il suo grigiore che scatta una furiosa invettiva.
La prima strofa ha la forza di contenuti che si fanno forma nel martellìo di quel “potrei” e nella sonorità di quei verbi sempre più violenti (“ gettarlo”, “affogarlo”, “spappolarlo”), nella originalità delle metafore tra cui splendida “spappolarlo contro/ una giornata di sole” per quel contrasto tra la ferocia e la luminosità.
C'è, infine, in tutta la strofa, un movimento anche cinematografico, che dal basso (dettaglio delle pietre incatramate) si apre in una panoramica fino a farsi vastità e luce (“giornata di sole”).

E' soltanto nella seconda strofa che comprendiamo le ragioni di questo furioso misterioso dolore: mandare sorrisi cortesemente a chi siede di fronte.
Nella loro apparente banalità questi versi disvelano, soprattutto attraverso quel felicissimo avverbio “cortesemente”, una delle angosce, in cui, spesso inconsapevolmente, ci dibattiamo in una società altamente tecnologizzata: essere ridotti (e accettare di essere ridotti) a pura forma, ad apparenza.
Con una sottolineatura: non sono versi che semplicemente spiegano; sono versi che nascono da quel furore e lo completano con lo stesso incedere anaforico ( “Purché si muova purché/ torni) con cui la poesia era iniziata.

Questo testo fa parte di una serie di poesie che  sono state raccolte in un libro stampato in pochissime copie, "Convivenze", ognuna di queste accompagnate dagli scatti in polaroid del fotografo Samuele Bianchi.


di Davide Pugnana

Bellissima e acuta analisi Gianni e brava Katia, soprattutto nell'aver saputo trasformare in ritmo il furore 'civile': quel particolarissimo sdegno etico dei poeti che sa dettare alla mente e alle coscienze, prima che al cuore e allo stomaco. E Katia (che è poetessa senza mezze misure, malgrado tutto e nonostante tutto, come Laura Pantani e tutte le altre poetesse del Novecento capaci di farsi carico di una cifra di dolore nella carne) riesce in questa compiutezza di poesia e Storia, di misura umana e di vox populi; in particolare nella seconda strofa, che, a mio parere, può anche vivere in perfetto isolamento: un unico, autonomo movimento, senza primo e secondo tempo; senza l'incipit neorealista e sironiano, né l'affondo espressionista del cuore spappolato, strafa bella di metafore graffianti ma, rispetto a ciò che segue, di più spiccata 'letterarietà'. Credo basti leggere il titolo e tuffarsi nella musica della seconda strofa, scivolare lungo la catena seghettata delle spezzature - gli enjambements "purché/ torni", "sorrisi/cortesemente" - e allora che potenza acquista!


Katia Sebastiani è nata a Camaiore e vive oggi Boveglio. Ha lavorato presso l'Ufficio Stampa del Comune di Capannori fino a tutto il 2007 ed attualmente si occupa di comunicazione per il Comune di Pistoia. Suoi testi sono apparsi sulla rivista on line "Sagarana", sull'antologia Subway e sul libro “Parole nel palazzo” per Capannori Trentanni. Nel 2008 ha pubblicato “Sagra di addio”. LietoColle. Euro 10,00.  

Ma come sempre sono le sue stesse parole che meglio la definiscono-non definendola. “Se qualcuno chiedesse/con gentilezza chi sono/ora e come sto,/lo porterei davanti alla finestra/quella bianca/che dà sul cortile/e gli direi guarda/la pazienza della federa/ fiorita ad asciugare(...).
                                         

“Stromboli” di Gordon Parks




di Gianni Quilici

Ci sono foto di cui si potrebbe scrivere “Ha colto l’attimo!”, perché, appena prima o dopo, l’immagine non sarebbe stata la stessa, si sarebbe perso “qualcosa”; appunto quell’attimo.

Qui Gordon Parks, non so se o quanto sia stato agevolato dall’essere dentro il set di Stromboli di Roberto Rossellini, ma coglie quell’attimo sincronico tra lo sguardo delle tre donne verso la Bergman e l’astrazione del volto della grande attrice.

Quindi, da una parte il primo piano di  Ingrid Bergman, raccolto e concentrato nel bellissimo volto armonico in ogni suo dettaglio; e dall’altra, sullo sfondo, in campo medio, le tre donne tutte vestite di nero, tutte col copricapo nero, tutte con occhi incuriositi, puntati su di lei.

Di più: la foto di Gordon Parks diventa anche la testimonianza di una differenza sociale e di un tempo della storia d’Italia, gli anni ’50, che il film di Rossellini rappresenterà poeticamente e sociologicamente.   

Gordon Parks. Ingmar Bergman a Stromboli, 1949