29 agosto 2013

"Del Sedere" di Maurizio Della Nave



"La sedia di Gauguin" di Vincent Van Gogh

Prendiamo una sedia.  Con la sua struttura oramai consolidata, qualcosa che da terra si alza per arrivare ad un piano su cui sedersi e dal quale eventualmente continua una superficie d’appoggio..., con forme e materiale diversi è pur sempre una sedia. Nessuno si sognerebbe di farla capovolta se non per pura espressione artistica o di design estremo..., la sua funzione è perfettamente espletata da una primitiva struttura di base che nel tempo non è mai mutata.

In fondo, ciò che cambia effettivamente in una sedia è l’essere umano che vi si siede (tralasciando di considerare particolari esperimenti da circo con elefanti e cose similari). Non tanto per la diversità personale, quanto per l’azione del sedersi.., sempre diversa e con angolazioni e posizioni dissimili. Certo esistono delle regole di postura, regole ergonomiche che imporrebbero misure e posizioni ben definite in funzione della persona.., ma raramente vengono rispettate.  E del resto lo stesso essere umano costruisce delle sedie che nulla rispettano della struttura ottimale, creando egli stesso anomale posture che fanno ingiustamente imputare alla sedia colpe di dannosa scomodità.

Cosa deve sopportare una sedia!... Per non parlare di come viene trattata e di cosa gli tocca subire: stoffe ruvide e sporche, deretani pesanti e sudati, odori nauseabondi e suole di scarpe... Non c’è rispetto per chi da sempre si dedica al riposo ed allo stato di comodità dei sedenti. I quali, poveretti, non hanno neppure ancora raggiunta una stabile e consolidata struttura di base non ostante (sembrerebbe) esistano da maggior tempo delle sedie stesse.

Una veloce analisi di queste disquisizioni porterebbe naturalmente a pensare che la sedia, nel suo silenzio secolare, ha raggiunto un equilibrio ed una maturità senz’altro infinitamente più profondi di un qualunque essere umano.., e ciò la dice lunga su questo pianeta. Dove invece si tenta spesso di eliminare la sedia in quanto ostacolo all’attività sempre più frenetica di produzione e di movimento fine a sé stesso. Quando l’essere umano scomparirà le sedie resteranno ma forse avranno perso la loro funzione... Esiste dunque un rapporto di simbolica simbiosi tra le due entità: l’uno ha bisogno della sedia per non stancarsi della vita e l’altra ha bisogno della vita per non perdere il suo significato strutturale...

 Una meditazione da considerare...

  © 2012

"La famiglia Karnowski" di Israel Joshua Singer



di Fabio Greco

Ho appena letto La famiglia Karnowski di Israel J.Singer, fratello maggiore del Premio Nobel Isaac (e non solo per età). E ora?

Mi arriva sempre, dopo aver letto uno dei rari romanzi straordinari che allargano la mente e scombussolano l’anima, la paura di non riuscire a riadattarmi alla letteratura di tutti i giorni. Così è avvenuto anche dopo la lettura di questa epopea tragica che accompagna tre generazioni di ebrei nei conflitti, nelle miserie, negli sconvolgimenti e nelle sofferenze di mezzo secolo (da fine Ottocento alla vigilia della seconda guerra mondiale), attraversando con straordinario realismo dialettico realtà diversissime come la Polonia, Berlino, New York.

Una grande tragedia collettiva e individuale, che però Israel Singer  racconta con sguardo asciutto e lingua limpida, onesta, senza calcare mai le tinte con la retorica, senza  ricorrere mai ai sotterfugi del melodrammatico.

E ora?
Bisognerà riadattarsi, perché non sarebbe neppure conveniente aver sempre per le mani libri che ti fanno i vivere la vita degli altri in modo così intenso, lancinante, talora insopportabile. Bisogna pur vivere anche la propria vita.

C’è da aggiungere che La famiglia Karnowski è anche una grande lezione di storia. Credo che sia quasi impossibile trovare qualche saggio storico che sappia ricostruire con altrettanta ricchezza documentaria, con altrettanta penetrazione psicologica e sottigliezza antropologica la vita di intere comunità. Tra l’altro risulta evidentissimo dalle pagine di Singer la sostanziale astrattezza dello stesso concetto di “ebreo”, così come venne imposto dall’ideologia nazista all’Europa intera. Nella Berlino degli anni Trenta, c’erano “ebrei” borghesi che non avevano niente in comune con il popolino ebraico di piccoli bottegai e immigrati, e che si sentivano tedeschi a pieno titolo, e c’era la povera gente “ebrea” che condivideva la stessa sorte della classe operaia del quartiere accanto. C’erano le classi, non le razze.

Consiglio dunque a tutti la lettura della Famiglia Karnowski. Soprattutto può essere un buon antidoto per quelli che si emozionano solo con Dan Brown o con Murakami Haruki. Non gli farebbe male tornare a piangere, ridere e riflettere sulla storia e sulla vita reale.

ISRAEL JOSHUA SINGER, LA FAMIGLIA KARNOWSKI, ADELPHI, MILANO 2013

28 agosto 2013

"L'attesa" di Fulvia Quirici



Quanto ci sbagliamo.

A volte si progetta febbricitanti per l'entusiasmo un viaggio, si attende con ansia una festa, un incontro, spesso struggiamo al pensiero di un acquisto ambito che si potrà realizzare di li a poco; ancora di più si mette in gioco quando si tratta di un traguardo di vita.
Si sovraccarica l'evento/obiettivo di un nutrito pacchetto di aspettative e ci si approccia con il candore di un adolescente, crescente al diminuire del tempo che ci separa al verificarsi dell'evento stesso.

Immancabile, quasi ineludibile, sulla soglia di quel bramato momento c'è la signora Delusione. Entra senza mitigare, è padrona ... e io in quei casi mi trovo imbarazzata: come poter rinnegare l'entusiasmo abnorme di un attimo prima? Deludere a mia volta le aspettative di chi per certo mi spacciava felice? Come poter dire di essermi sbagliata nell'aver desiderato tanto? E' una botta all'orgoglio, uno schiaffo sonoro all'amor proprio. Un doversi giustificare più mortificante del mancato godimento.
Allora alla signora Delusione si affianca la sorella zitella, acida e poco foriera di buone cose: l'Amarezza.

Cosa diversa è invece misurare, soppesare, disvelare e masticare i particolari con lucidità. Avere tutto il tempo per metabolizzare. Così descritta sembrerebbe a tutta prima una logica elaborazione di circostanze; uno scandagliare 'dati' per potervi applicare modelli dedotti dal buon senso e dalle personali esperienze.
Invece provo a dire: decidere un giorno, per una miccia accesa chissà per quale motivo, di staccarsi dall'immagine di se che nel disagio non si riconosce, non si sente, non si ama più, è forse una delle esperienze più sconvolgenti.
Ricordarsi della leggerezza di molti anni prima ma avere sulle spalle una 'costruzione' che permette pochi voli pindarici e che di continuo ci richiama a bomba verso le catene dei nostri doveri, ha una componente di alto rischio, che genera moti e associazione di idee fortemente destabilizzanti. Ma è una sicura rivoluzione. Un'esplosione silenziosa.

E talvolta i miei occhi brillano di questi tempi, me li sento, più che vederli ... è la pazzesca lucidità con cui centellino i miei brividi o trattengo il fuoco che divampa o carezzo la bimba piccola che in me soffre quando gli torco un paio di volte a vite l'anima e alla fine ... 'recupero'. Ovvero mi fermo, respiro, allargo i polmoni e guardo avanti spostando un poco i paletti, accomodando non per facilità ma per possibilità il mio orizzonte, quello che mi sono solo abbozzata, il solo che mi lascia la più ampia possibilità di manovra.


E allora di cosa mi preoccupo? Ho in cantiere un grande progetto, lavoro alacramente per portarlo a compimento nel migliore dei modi: ”Ho deciso di smettere di preoccuparmi di piacere alla gente” (faber).

25 agosto 2013

"Viaggio nel Trentino" di Gianni Quilici




                                        foto gianni quilici

Viaggio nel Trentino

… e poi trovare laghi
laghi da tuffarsi
distendersi alla luce
dimenticarsi
                25 agosto 2013 
---------------------------------
.

24 agosto 2013

"L’umorismo perturbante nel teatro pittorico di Arnaldo Mangini" di Davide Pugnana



Creatura a disagio, spaesata, 
il poeta intona nel folto dello sfacelo
i tempi di una sua ‘sinfonietta’, 
recita i numeri di una guitteria, 
stralunato,bramoso di cantilene e di Kitsch,
 e così appassionato di metafisica,da sembrar
filisteo, come un archivista di Hoffmann.
E per affiorare dalla baraonda
della banalità, dal grigiore dell’iterazione, 
non esita a travestirsi, 
assumendo nomi diversi, 
a cercare rifugio  negli anacronismi,
 indossando maschere ormai inusitate
 di incantatori e pierrot,
 sussiegose marsine e bombette.”
(A.M.Ripellino, Sinfonietta)




A gettare uno sguardo d’insieme sull’opera pittorica di Arnaldo Mangini ci sentiamo come rassicurati dal candore con cui egli dichiara l’eredità dei suoi padri elettivi. Così, dentro gli scenari delle sue tele il nostro occhio favoleggia di un mondo senza conflitti, senza incrinature drammatiche nel dialogo serrato con la tradizione novecentesca dei maestri: Magritte in primis; la lezione dell’automatismo surrealista e il pescaggio nella logica rovesciata dell’inconscio; qua e là, incursioni nell’atmosfera metafisica degli oggetti decontestualizzati, memore di quell’abrasione dechiriniana generata dal guanto di lattice arancione, pendente contro il frammento classico; e, proseguendo, si colgono sintesi alla Carlo Carrà nella semplificazione degli alberi, ritti come lame di coltello e silenziosi come obelischi, incastonati contro un cielo fabbricato per far da quinta alla plasticità delle nuvole, sparse e biancheggianti sopra i tetti delle case e sui birilli, mentre gli oggetti ludici del “secondo mestiere” di Arnaldo (la vita di palcoscenico) sono strumenti di una clownerie sul punto di dichiararsi figli del baule di Alberto Savinio; non ultimi, in questa galleria di padri, sono la chiostra di denti e le bocche urlanti di baconiana memoria. 
Gli stessi dispositivi formali sono in linea con un solido ritorno al mestiere pittorico: il disegno tenuto alto nel nitore del contorno; le masse chiaroscurali; la gestione attenta degli oggetti nelle scatole spaziali; la giustapposizione dei colori puri; l’accurato grado di finitezza dei soggetti, si uniscono a formare gli elementi costitutivi della lingua pittorica di Arnaldo Mangini, e, largamente, della grammatica figurativa familiare alle nostre abitudini visive. Pare insomma che in questo mondo pittorico tutto torni. Si prova quasi un piacere prossimo alla gratificazione nel calare la ricerca di Arnaldo Mangini nel solco della grande tradizione novecentesca, nel misurarla sulla lezione dei maestri della modernità. Eppure se fermiamo lo sguardo su questo tavolo espressivo, su cui le carte si dispongono ben allineate, sentiamo che ci assale un sospetto. Si sa, quando in una ricerca pittorica i referenti stilistici sono scopertamente confessati dobbiamo diffidare della loro reale incidenza. Nel caso del mondo figurativo di Arnaldo Mangini, le fonti additate si scoprono fragili crisalidi, a metà tra splendide bugie e parvenze formali.
Da dove vengono i sogni pittorici di Arnaldo Mangini? Più che dal dominio della pittura, essi escono da un sistema di saperi che l’artista ha interiorizzato nel tempo. Nessun sentimento, nessun palpito o erotismo, nessun affondo lirico scuote la limpida luce meridiana di nocturne (2013)1 o il corpo dell’Oca italica (2012), riecheggiato con maestria nell’arco verde con il tricolore sullo sfondo. Il viaggio a ritroso nella tradizione pittorica novecentesca ci porta, quindi, ad un vicolo cieco. Il profondo nucleo generatore dell’immaginario pittorico di Arnaldo è altrove. 
A voler cercare il midollo conoscitivo delle sue tele, tele così intimamente pensate, la bussola non si allontana dal quadro sperimentale del primo Novecento; ma dal Nord delle avanguardie dobbiamo spostare l’ago verso altri linguaggi. Tutto quanto compone le visioni pittoriche di Arnaldo è permeato dalla letteratura e dalla psicoanalisi. Nomi come quelli di Pirandello e Freud sono molto più che un letto di suggestioni libresche. Termini quali umorismo e perturbante (2) si configurano come modelli attivi della ricerca espressiva di Arnaldo: la loro simultanea presenza forma la graduazione necessaria affinché possa avvenire la messa a fuoco delle lenti critiche sulla visione pittorica. È dal loro terreno comune che prende corpo l’iconografia di Arnaldo, la cui cifra di realismo visionario la rende stilisticamente tanto riconoscibile. 
Esemplare in questa direzione è Il mal di denti di Apollinaire (1997). Che cosa vediamo? In pochi centimetri di tela (35X50), Mangini allestisce un sistema simbolico nel quale gli elementi in gioco sono il ritratto di Apollinaire, incastonato in una lunetta, fissato in un rictus e bendato per la ferita di guerra; in basso, a fungere da contraltare muto, un toro rosso fa capolino da una buca nel terreno e guarda il poeta; sullo sfondo, una gigantesca “A” è inscritta in un rombo fatto di tiranti e sfere agli angoli, a sua volta contenute in una seconda geometria rettangolare suggerita dal brandello di muro e dal palo di metallo, il tutto organizzato in un calibrato schema compositivo. La simbologia, colta e allusiva, non è di immediata lettura. 
Lasciamo per un momento in sospeso il rebus e passiamo ad una seconda tela: Ci rivedremo a Filippi (2012). Qui tutto il proscenio è focalizzato sul gesto di saluto dell’uomo in giacca e cravatta e dalla gigantesca bocca che pare scuotere le fuggitive apparizioni alla sue spalle: il paesaggio tutto d’invenzione e le due nuvole, pigre e svagate tra alberi e architetture, pronte a metamorfosarsi nel numero 3. Descritta questa soglia, possiamo affidarci all’interpretazione iconografica, isolare i soggetti e verificarne la tenuta alla luce di svariate chiavi di decifrazione; ma ciò ci porterebbe lontano. Quello che deve emergere nella presentazione di un artista è la sostanza primaria dei suoi dipinti: quella che Karen Blixen chiamava “il disegno della cicogna”(3), ossia la figura complessiva che possiamo ricavare dall’insieme di un racconto e che, nel caso della personale di Arnaldo Mangini, si lascia scoprire e conoscere attraverso l’unità figurale della narrazione per immagini. In questo senso, la compresenza, in mostra, di dipinti e disegni suggerisce al meglio questa uniformità di poetica.
Dove possiamo cogliere, infine, la presenza di Pirandello e di Freud nella ricerca pittorica di Arnaldo Mangini? Poniamo mente alle definizioni. Dell’umorismo noi sappiamo che è il “sentimento del contrario”(4), ossia una singolare condizione di riflessione che, azionandosi, mette un freno al riso liberatorio del comico e ci fa pensosi; mentre il perturbante è la condizione per la quale gli oggetti, esteriori ma soprattutto radicati in noi come oggetti del mondo interno, da familiari mutano in presenze ‘sinistre’, straniere e minacciose, generando un senso di profondo spaesamento. Entrambi i termini sono forme di conoscenza della natura umana ed è in questa accezione che Arnaldo Mangini le intende, intrecciandole nel suo teatro pittorico. Un teatro in cui nulla di quanto rappresentato è frutto del caso: i cieli aperti e luminosi; le irreali campagne, inondate da una luce che satura i colori; le cravatte multicolori e i colletti che chiudono menti e bocche sataniche; gli archi che danno asilo a nuvole in viaggio; l’evocazione del silenzio meridiano in cui si fissano elementi di un rebus in cerca d’autore; l’u;niverso oggettuale clownesco che punteggia gli scenari sono singole parti di una costruzione dell’opera sempre cosciente nell’artista. “Un quadro - scriveva Baudelaire -  è una macchina in cui tutti gli ingranaggi sono intellegibili a un occhio esercitato; dove tutto ha la sua ragion d’essere, se il quadro è un vero quadro; dove un tono è sempre chiamato a farne risaltare un altro, dove un errore occasionale di disegno è talvolta necessario per non sacrificare qualcosa di più importante.”(5)
Opere cruciali come Il mal di denti di Apollinaire e Ci rivedremo a Filippi sembrano configurarsi agli occhi del fruitore come teatro simbolico dell’interiorità dell’autore. Per questo, a gettare uno sguardo d’insieme sul corpus di disegni e dipinti di Arnaldo Mangini, presentati nella mostra personale alla Galleria “Lancillotto” di Sarzana, si profila nei nostri occhi un’autobiografia attraverso figure e paesaggi, nei quale la risata è tenuta al limite del grido o del rottame verbale e gli oggetti, che punteggiano lo scenario di elementi ludici e clowneschi ma in realtà straniati, sono tutt’altro che totem innocenti della fiaba e del gioco.

Note:
(1) Per le opere citate nel testo critico consultare il blog dell’artista: http://blog.arny.it/index.php/tag/pittura/

(2) Per i termini “umorismo” e “perturbante” le edizioni consultate sono: L. Pirandello,  L’Umorismo e altri saggi, a cura di E. Ghidetti, Giunti Editore, 1995, p.374; e S.Freud, Il perturbante, Bollati Borginghieri
(3) L’espressione “il disegno della cicogna” è utilizzata da Karen Blixen nel romanzo La mia Africa (“Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò o altri vedranno una cicogna?“). Su questa riflessione si incentra il saggio di Adriana Cavarero, Tu che mi guardi tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Collana Elementi, 2001, p.92
(4) L’esempio chiarificatore della poetica umoristica pirandellina è quello celebre della “vecchia signora”.  
(5) C. Baudelaire, Salon del 1846, in Scritti sull’arte, a cura di Ezio Raimondi, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2004, pp. LIV-380

L’umorismo perturbante nel teatro pittorico di Arnaldo Mangini, mostra personale di pittura, Galleria “Lancillotto”, testo critico di Davide Pugnana. Vernissage sabato 24 agosto, ore 18:30, via Lancillotto Cattaneo, n. 12, Sarzana (Sp). Ingresso gratuito.

"L'ombelico di Adamo" di Stefano Tofani



di Luciano Luciani
Una favola contemporanea, questo L’ombelico di Adamo, primo romanzo di Stefano Tofani, giovane scrittore toscano: una bella prova d’Autore, la sua, non solo divertente, ma utile alla comprensione del nostro presente nelle sue larghe zone oscure e nei suoi rari punti di luce.

In una fredda notte di uno degli ultimi giorni di un anno di questi ultimi nostri malmostosi, come dal nulla, nella piazza principale di Cùzzole “uno di quei tranquilli paesi di passaggio, pigri e anonimi, che se ne stanno adagiati tra i monti e la camionabile” fa la sua apparizione una strana statua: un nudo maschile, gli occhi coperti da una maschera, stretto in mano un mappamondo da cui è stata cancellata una remota e settentrionale area del pianeta: l’Islanda. Ma il particolare più bizzarro è quello di un perizoma leopardato che cela un particolare anatomico (indovinate quale!) di ragguardevoli dimensioni, ma spezzato. Nasce così la fama di Piporotto, che, ben presto, si allarga oltre i ristretti confini municipali per assurgere a una fama nazionale e oltre. Mentre si moltiplicano i visitatori e cresce il conseguente indotto economico di questo inopinato, originale “bene dell’umanità”, si acuiscono anche gli interrogativi che attraversano e agitano la piccola comunità. Chi ha collocato lì la statua? E perché? Chi ne è l’autore? Qual è, se esiste, il messaggio nascosto? E l’Islanda, di cui viene negata l’esistenza, cosa c’entra? Tante domande, nessuna risposta. Va senza dire che le autorità preposte all’ordine pubblico “brancolano nel buio”, quelle politiche cercano di sfruttare in termini di consenso ogni novità, mentre le tradizionali dinamiche del piccolo borgo conoscono accelerazioni e torsioni, pettegolezzi velenosi e chiacchiere maligne … Fino a quando il mistero buffo si trasforma in tragico: dieci settimane dopo quella straordinaria epifania che sta rendendo un paesotto come tanti famoso in tutto il mondo, viene ritrovato un cadavere vestito, o meglio spogliato, come l’ormai celeberrimo Piporotto. Ora, il cono d’ombra delle insinuazioni e dei sospetti non risparmia più nessuno: non il sindaco e neppure l’assessore alla cultura, il play boy locale e il parroco, il barista e l’operatore ecologico che è “strano” perché scrive poesie. E chi è davvero la giovane bella e misteriosa restauratrice impegnata a portare a nuova vita un antico mosaico della chiesa parrocchiale?

A poco a poco, con fatica, vincendo le reticenze vischiose figlie di tanti piccoli egoismi personali, cominciano a emergere schegge di verità: si tratterà solo di ricomporle in un quadro più vasto, dietro il quale si intravvedono non pochi né piccoli interessi e intrecci affaristico/malavitosi: insomma, il nostro Paese, oggi.
L’ordine tornerà a regnare a Cùzzole? Sì, ma non sarà più quello di prima: sarà appena appena migliore, un po’più sincero e condiviso, un po’ meno impastato d’ipocrisia.

Godibile la scrittura di questo romanzo, tutta intrisa di un umorismo sottile; ben impaginata la storia, verosimili, nonostante l’assunto di partenza, gli scenari. Condivisibile, poi, il messaggio d’amicizia, d’amore, di tolleranza proposto dall’Autore, ben reso attraverso un mix lieve di ironia, malinconia e speranza: sì, speranza, malgrado tutte le piccole e grandi miserie che ci affliggono, ci appesantiscono l’esistenza e rendono peggiore la porzione di tempo e di mondo in cui ci è stato concesso di vivere

Perché, dietro Cùzzole e il suo microcosmo di storie paesane e personaggi minimi, non abbiamo dubbi che de te, Italia, fabula narratur.

 
Stefano Tofani, L’ombelico di Adamo, Giulio Perrone editore, Roma, 2013, pp. 192, E. 13,00










16 agosto 2013

"Lo scrittore fantasma" di Philip Roth



nota di Gianni Quilici

Mi ha “preso”.
Perché c'è la durezza dell'io narrante -il giovane scrittore
nei confronti del padre e della comunità ebraica;
perché ci sono le ossessioni (creative e materiali) di uno scrittore famoso,
perché c'è una moglie-vittima che si ribella nella sua impotenza,
perché c'è una ragazza dalla personalità indefinita,
perché c'è una scrittura fluente, ricca, elaborata
ed una ricerca della verità dei personaggi
che è oltretutto morale
.

Philip Roth. Lo scrittore fantasma. Einaudi 

.............................................................................................

"La Grande Guerra e i suoi interpreti" di Luciano Luciani






Una letteratura sterminata.

Sterminata la letteratura intorno alle origini della Grande Guerra. Non erano ancora stati sparati i primi colpi di cannone che già ciascuno dei Paesi belligeranti si adoperava per attribuire ai propri avversari le responsabilità dello scoppio della conflagrazione mondiale. Soprattutto negli anni del conflitto e in quelli immediatamente successivi, la storiografia risentì del calore delle polemiche nazionalistiche e della imponente produzione di documenti e memorie di uomini di Stato e militari tendenti a spiegare all’opinione pubblica, spesso da punti di vista settoriali se non addirittura personali, decisioni e scelte politiche, iniziative strategiche e operazioni tattiche. Si trattava di lavori in genere tendenziosi e propagandistici che ruotavano prevalentemente attorno al tema delle responsabilità degli Imperi Centrali e del loro personale politico e militare: questi, oltre a “premeditare” la guerra, avrebbero approfittato dell’assassinio dell’arciduca austriaco a Sarajevo come di un avvenimento favorevole che aveva offerto loro il pretesto, tanto insperato quanto desiderato, per scatenare una guerra che avrebbe imposto l’egemonia germanica sul mondo. Una letteratura comunque importante perché legata alla questioni, che avrebbero avvelenato l’Europa nei decenni successivi: i trattati di pace e le riparazioni di guerra.

Un fronte compatto.
Un fronte storiografico compatto che, però, già a partire dagli anni venti iniziò a mostrare le prime crepe. Questo avvenne quando la giovane Unione Sovietica cominciò a far uscire materiali documentari che illustravano le responsabilità del governo zarista e dei suoi alleati, Francia e Inghilterra, parimenti coinvolti nella conduzione, già orientata in senso bellicista, della diplomazia di quei Paesi e nella preparazione di un clima d’odio nei confronti della Germania. Un’ondata di pensiero storico “revisionista” che segnò profondamente soprattutto l’opinione pubblica francese e quella americana sino a quel momento tenacemente attaccate alla tesi dell’unica responsabilità degli Imperi Centrali: una tendenza storiografica che conobbe anche posizioni estreme che attribuivano in particolare alla Francia e alla Russia, che avrebbero scientemente precipitato il mondo nell’immane catastrofe di una guerra mondiale, tutte le colpe, prossime e remote, del conflitto
Così, a dieci anni dallo scoppio di una guerra che aveva radicalmente ridisegnato gli assetti politici e sociali del continente europeo, il giornalista e scrittore francese Alfred Fabre-Luce riassumeva la tormentata questione delle colpe e responsabilità: “La Germania e l’Austria hanno compiuto i gesti che hanno reso il conflitto possibile; la Triplice Intesa ha fatto quelli che l’hanno resa certa”. Una formula, questa, che non arrestò negli anni successivi, fino almeno alla seconda guerra mondiale, il confronto tra storiografia antitedesca e storiografia revisionista: anni in cui si facevano strada, però, anche impostazioni diverse per interpretare avvenimenti così decisivi nella storia europea e mondiale. Lo scrittore pacifista francese Victor Margueritte, per esempio, elevava un fiero atto d’accusa nei confronti di tutti i governanti europei, formulando al tempo stesso un’assoluzione piena per tutti i popoli, mentre nel 1927 lo storico sovietico Eugenij Viktorovic Tarle in una sua celebre Storia d’Europa 1871 – 1919 proponeva un’interpretazione di quella tragica vicenda bellica come “preparata dal giuoco complesso dei contrastanti interessi economici generali del capitalismo in Europa”.

Eugenij Viktorovic Tarle.  Le responsabilità del capitalismo.
Storico russo già affermato nel suo Paese e apprezzato all’estero quando i bolscevichi assaltarono il Palazzo d’Inverno, Eugenij Viktorovic Tarle (1874 - 1955) non era marxista e non partecipò alla rivoluzione. Un decennio più tardi, nel 1927, il suo libro Storia d’Europa, 1871-1919, gli valse l’ingresso nella prestigiosa Accademia sovietica delle Scienze, ma gli attirò anche gli strali polemici degli storici di regime più ortodossi che l’accusarono di essere uno pseudo marxista, un interventista e uno storico favorevole ai Paesi dell’Intesa. Accuse che gli comportarono un esilio durato quattro anni.
La Storia d’Europa 1871-1919 ridimensionò radicalmente la questione, agitata in chiave soprattutto nazionalistica, delle maggiori o minori “responsabilità” nel conflitto di questo o quel governo europeo, per concentrare invece l’attenzione sulle dinamiche economiche e finanziarie del periodo 1871-1914,
Secondo lo storico sovietico, “mai, prima d’allora, in tutta la storia del capitalismo moderno, l’industria, il commercio, la borsa, l’agricoltura, i trasporti avevano avuto a propria disposizione capitali liberi così ingenti”. La formazione e l’espansione di formidabili capitali che finanziavano e organizzavano tutta la vita commerciale e industriale dei moderni Paesi capitalistici avevano favorito il formarsi di un’ “economia mondiale” che non determinava affatto però il quadro idilliaco dell’emulazione pacifica sognato sin dalla metà del secolo XIX  da studiosi e utopisti politici come Buckle o Cobden. Ne era derivato un conflitto tra potenze imperialistiche: in ogni Paese gli industriali si erano adoperati per spingere i loro Stati a intervenire in armi per conquistare nuove risorse di materie prime e vantaggiosi mercati di sbocco per le merci. Un comportamento simile fu tenuto dalle banche e dalle borse che, soprattutto negli anni prima del 1914, chiedevano un attivo appoggio diplomatico e militare dovunque si proponessero di investire i capitali disponibili. Una condotta che unificava gli industriali tedeschi ai capitalisti inglesi, i capi della Borsa parigini ai grandi commercianti russi. A tutto ciò, secondo Tarle, non corrispose, poi, un’adeguata presa di coscienza dei rischi insiti in quella particolare fase della politica e dell’economia europee da parte della classe operaia del continente e delle sue organizzazioni politiche e sindacali che, soddisfatte delle conquiste economiche e sociali ottenute negli ultimi decenni in termini di mantenimento dei posti di lavoro e di aumenti salariali, avevano abbandonato le parole d’ordine rivoluzionarie e della solidarietà internazionalista di classe.

Il dibattito storiografia dopo il 1945.
Se nel dibattito storiografico fece, dunque, allora il suo ingresso il tema della Grande Guerra come conflitto tra potenze imperialistiche, non per questo si esaurì il confronto sulla questione delle colpe e responsabilità, riacceso inevitabilmente dal secondo conflitto mondiale, dai suoi tragici esiti, dalla nuova sconfitta della Germania. Nel clima ancora caldo della lotta antinazista, ripercorrendo la sterminata documentazione già nota, ripropose l’argomento della colpevolezza tedesca, lo storico inglese di convinzioni laburiste A. P. J. Taylor con il suo libro L’Europa delle grandi potenze da Metternich a Lenin 1848-1918, 1961 (titolo originale The struggle for mastery of Europe 1848-1918, apparso nel 1954). Un orientamento ripreso con vigore e la forza di nuovi materiali d’archivio dallo storico tedesco Frantz Fischer, con un lavoro rimasto famoso perché letto ben oltre la cerchia ristretta degli storici di professione, Assalto al potere mondiale, 1965, che mise inconfutabilmente in luce i piani aggressivi elaborati dal governo e dai militari tedeschi prima e durante il conflitto voluto a tutti i costi dalle forze economiche dell’impero germanico.

Wolfgang J. Momsenn. Il deficit di democrazia della Germania.
Wolfgang J. Momsenn (1930 – 2004), appartiene alla generazione di storici tedeschi indotta dalle tragiche vicende del secondo conflitto mondiale a indagare sulla continuità tra la Germania dell’età guglielmina e quella nazionalsocialista. Studioso della storia tedesca e inglese nei secoli XIX e XX, Momsenn nel suo L’età dell’imperialismo 1885-1918 sostenne che alla modernizzazione economica della Germania non avrebbe corrisposto un’adeguata modernizzazione sul piano politico e civile come invece era avvenuto per la Gran Bretagna. Una fragilità del tessuto politico e un deficit di democrazia che, intrecciati con un poderoso sviluppo industriale, con le tradizionali aspirazioni tedesche all’espansione territoriale, col nazionalismo e il militarismo prussiano, fecero ricadere sulla Germania il peso delle maggiori responsabilità nello scoppio del primo conflitto mondiale. Infatti, mentre nei dieci anni che precedettero il conflitto si assisté in Inghilterra a un’ampia diffusione dei principi politici del liberalismo riformista e radicale, in Germania, negli stessi anni, l’idea dello Stato democratico ristagna o arretra. Così, in Inghilterra le elezioni del 1906 portarono ben 54 rappresentanti laburisti alla Camera dei Comuni e il governo liberale fu sollecitato ad “andare oltre gli obiettivi del Labour Party tramite una generosa politica di riforme sociali”; in Francia, nello stesso anno, Clemenceau, su mandato degli elettori, formò un governo fondato su una larga maggioranza radicalsocialista con l’appoggio dei socialisti, che, tra divisioni e contraddizioni, entrarono stabilmente e da protagonisti nella vita politica del Paese e contribuirono al progressivo ordinamento democratico dello Stato; in Germania, invece, nonostante le speranze di una nuova stagione di progresso democratico all’interno del Paese, il sistema politico e sociale rimase prigioniero degli interessi dei gruppi più conservatori. Si mantenne il potere di comando del Kaiser sottratto a ogni controllo, i politici non riuscirono a ridimensionare il ruolo sino ad allora tenuto dai militari nelle scelte governative e la Germania continuò a essere governata con metodi autoritari mentre la politica estera di Guglielmo II era guidata da preoccupazioni nazionalistiche e la classe dirigente tedesca la usava per tenere a bada le richieste di democrazia che provenivano dall’interno del Paese. Politici, militari, grandi industriale costituivano per Momsenn un blocco di potere destinato a rimanere sostanzialmente intatto anche negli anni tumultuosi della repubblica di Weimar per approdare, con reciproca soddisfazione, al Terzo Reich.
Pesantissimi, per il vecchio continente, gli esiti politici, materiali e morali del conflitto che ne seguì.

.........................................................................................................