29 gennaio 2011

"Una valigia sull’acqua" di Odino Raffaelli

di Luciano Luciani


Un mondo a parte quello dei marinai della Marina mercantile: uomini che con il loro lavoro, duro e pericoloso, spostando merci da un capo all’altro del pianeta (grano, minerali, carbone, petrolio, manufatti che riempiono le stive e ingombrano i ponti), permettono crescita e sviluppo e contribuiscono a garantire i livelli di civiltà e benessere a cui siamo abituati .

Di questo tratta Una valigia sull’acqua, secondo libro di Odino Raffaelli dopo la bella ‘storia di vita’ raccontata in Una carezza sui ricordi, pagine incantate su un’infanzia e un’educazione, rude ma altamente formativa, condotte sui monti dell’Appennino reggiano negli anni segnati dal secondo conflitto mondiale.

Ora, trenta capitoli densi di contenuti, di storie, di umanità raccontano al Lettore di una vita professionale sul mare che non ha davvero niente di romantico o di eroico. Oltre alle tempeste e agli incidenti propri della vita tra le onde (i rischi di certi carichi; l’incontro con una mina o con i pirati che ancora infestano gli oceani) è la solitudine a incombere sugli uomini, a logorarli dentro, fino a indurli a veri e propri comportamenti autistici: “La vita trascorsa in mare fu anche e soprattutto, fatta di niente: di monotonia e azioni ripetitive, di albe e tramonti che si avvicendavano sereni e tempestosi, senza storia, senza avvenimenti e colori … Lunghi silenzi interrotti soltanto dal rumore dei passi sul ponte di comando, della matita che veniva lasciata cadere sulla carta nautica e delle squadrette di legno, quando si toccavano l’un l’altra, del tossire delle vedette all’erta sulle alette e delle voci dei comandi per le consuete manovre” (dalla bandella di copertina).

Dal canale di Panama alla Corea, da Hong Kong a Durban, dal mar Rosso all’Australia, dai porti africani ai grandi scali marittimi europei, più e più volte, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, lungo le rotte solo parzialmente sicure di un mondo ancora diviso e irrigidito dai malumori della ‘guerra fredda’ e ancora intossicato dai veleni del colonialismo imperante, il giovane capitano di Marina, Odino Raffaelli, osserva tutto e di tutto prende nota sul ‘diario di bordo’ della propria memoria. Accumula, così, uno straordinario materiale documentario e, cinquant’anni più tardi, dopo averlo finalmente filtrato, sistematizzato e avergli dato i caratteri adeguati, decide di parteciparlo agli altri, ai Lettori. Che, almeno a parere di chi scrive, non potranno non apprezzare lo stile semplice e diretto, la misura e la mancanza di enfasi, con cui l’Autore ci racconta questa difficile condizione di vita e di lavoro, quale almeno si è configurata sino a mezzo secolo fa: quella dei marinai e degli ufficiali della Marina mercantile, figli di un’Italia appena uscita da una guerra devastante, un Paese ancora privo di mezzi, che nel mare vedevano la possibilità di realizzare un progetto esistenziale decoroso per sé e la propria famiglia. È l’Italia degli anni cinquanta, quelli ‘poveri ma belli’: per chi c’era, però, soprattutto poveri. Episodi dolorosi si alternano a vicende buffe e comiche, viaggi tranquilli si susseguono a rotte movimentate e piene di difficoltà per gli uomini del mare incapaci di dimenticare l’odore di casa.

Odino Raffaelli, Una valigia sull’acqua, Daris – libri e stampe, Collana “cartacarbone”, Lucca 2010, pp.244, Euro, 15,00





28 gennaio 2011

"L'abc del mondo contemporaneo" di Alfonso Berardinelli

di Gianni Quilici


E' un libro esile, concentrato e sintetico: l'inizio di un piccolo dizionario.
L' abc sono: Autonomia, Benessere, Catastrofe più altri articoli integrativi, tra cui “Politica e terrore”, “Scrivere”, “Leggere”, “Vendersi l'anima”, “India” ecc.
Il risultato è ampiamente positivo.
Nessuna banalità ed invece alcuni pensieri illuminanti, soprattutto nella voce Benessere, che consentono, per chi ha desiderio di farlo, un corpo a corpo di idee (dissentire, aggiungere).

Cito uno dei tanti pensieri da me sottolineati.

Io stesso sono spesso altro da me. Scoprire in sé, nella propria identità, qualcosa che non conoscevo, un altro sé che non riesco a governare, che potrebbe anche appartenere a qualcuno che non sono io, vuol dire avere di sé un'idea non statica, ma dinamica. La coerenza è un valore. Ma anche l'incoerenza, la mutevolezza, la capacità di prendere una forma diversa da quella consueta. Conoscere qualcosa d'altro è cominciare a cambiare”.

Diversamente dai suoi libri di critica letteraria o di estetica, qui il linguaggio di Berardinelli ricco e elegante è forse un poco omologato.

Il limite?
Poteva essere forse ancora più sintetico, eliminando alcune delle citazioni esemplificative; e forse ancora più articolato nei concett
i.


Alfonso Berardinelli. L'abc del mondo contemporaneo. minimun fax, 7 euro

24 gennaio 2011

"Lucca. La stazione ferroviaria" di Luciano Luciani











Potrà sembrare strano, ma uno dei luoghi di Lucca a più intensa “concentrazione letteraria” – tra le Mura celebrate nei secoli da letterati e poeti e lo straordinario sepolcro che Jacopo della Quercia realizzò per Ilaria del Carretto, la Signora del Signore della città – è la Stazione ferroviaria, costruita contestualmente alla ferrovia Lucca – Pisa, inaugurata nell’autunno del 1846, alla vigilia del tramonto dello stato lucchese.

Promotore di quella importante realizzazione civile fu l’intraprendente avvocato di origine sarzanese, Pasquale Berghini, già esule per dodici anni in Francia, Inghilterra e Corsica per le sue convinzioni mazziniane e, una volta Lucca, accreditatosi come amico personale del duca, l’imprevedibile Carlo Ludovico di Borbone.

Complessa la vicenda economico – finanziaria che sostenne l’impresa; accidentata la realizzazione dell’opera che superò sia le notevoli difficoltà orografiche rappresentate dai Monti Pisani e dal corso del Serchio, sia l’opposizione dei proprietari agricoli contrari all’esproprio dei loro campi; palesi a tutti le intenzioni politiche di un’opera che avrebbe dovuto riproporre all’opinione pubblica toscana, nazionale ed internazionale l’immagine di un sovrano liberale e riformatore, da sostituire a quella bigotta e reazionaria, più nota e ormai inadeguata ai tempi che cambiavano.

Treni tra poesia e politica

Il 22 giugno 1846, due convogli ferroviari trasportarono oltre 400 persone da Lucca a Ripafratta. Il tratto si allungò fino a bagni di Sam giuliano il 25 settembre e, finalmente, il 15 novembre dello stesso anno con un’austera cerimonia venne inaugurata l’intera linea Lucca – Pisa.

Comprensibile, quindi il giubilio con cui i lucchesi accolsero questa vigorosa prova di capacità organizzative ed imprenditoriali: quel clima di entusiasmo è ben espresso in libello celebrativo dato alle stampe, motu proprio, dal tipografo ed editore lucchese Giuseppe Giusti: “Volendo io festeggiare nel miglio modo che io possa il benefizio della strada ferrata… mi sono proposto di dar fuori co’ miei torchi alcune composizioni di nobili ingegni, a bella posta scritte per questa occasione…” Si tratta di versi non particolarmente memorabili, stesi per la circostanza da intellettuali delle cui opere si è persa la memoria.

Non era un poeta - e si sente - il marchese Antonio Mazzarosa, patrizio illuminato e storiografo della città quando con brutti versi epigrafici plaude all’evento: IN QUELLA VIRTU’ MOTRICE / STUPORE DEI NOSTRI TEMPI / ONDE OSTACOLI E INDUGI AL MESOLARSI DELLE NAZIONI / SONO VINTI / IL VOLGO NON ISCORGE / CHE UTILE E COMODITA’ / MA IL SAPIENTE / VI ANTIVEDE IL MODO PER COMUNANZA DI AFFETTI / AD IMMEGLIARE IL MONDO. E sulla stessa lunghezza d’onda dell’enfasi oratoria del Mazzarosa si mantiene l’avvocato, professore di diritto e filantropo Luigi Fornaciari. Questo il sonetto – dal gusto che mescola tradizione arcadica, echi manzoniani e anticipazioni di un incipiente positivismo – con cui il Consigliere di Stato Fornaciari, esponente di spicco del cauto liberalismo lucchese, partecipa all’esaltazione letteraria dell’avvenimento:

-Siete fratelli, amatevi – Ecco il grido

Della natura, il grido del Vangelo:

Né franca l’uom diversità di cielo

Da questo amor, o estremità di lido;

E il navile che solca il flutto infido

Con remigio di foco al par di telo,

Tutte affratella in questo ardente zelo

Le genti, che più il mar strania di nido.

Di questo amore è dolce messaggiero

Il novo cocchio ignito, che la via

Corre quasi con l’ali del pensiero;

Sol tai mirande invenzioni aborre

Chi dispaiati gli uomini desia,

Perché l’amore è inespugnabil torre.


Neppure il siciliano Giuseppe La Farina ( Messina 1815 – Torino 1863) era un poeta, ma un patriota: e si sa che, anche quando le intenzioni sono buone, la retorica spesso è in agguato, nascosta nelle penne dei politici. Così, pieno di entusiasmo per il progresso che avanzava sotto la specie del treno a vapore, in una canzone in endecasillabi e settenari, si esprimeva il futuro segretario della cavourriana Società nazionale:

“Il genio creator del secol nostro

Che affrena gli elementi

Creò di ferro infaticabil mostro

Per gareggiar co’ venti: …

… Ha lungo il collo e dalla bocca nera

Getta fumo e faville,

Sbuffa, nitrisce, scuote la criniera

Trapassa borghi e ville…

È lui che unisce con virtude arcana

Il castello a castelli,

Alle cittadi la città lontana

E intreccia fra fratelli

Le catene d’amor, per cui somiglia

Al ciel la terra che d’amore è figlia…

Per lui di Lucca i figli e quei di Pisa

Formeranno una sola

Città, non più da stolte ire divisa,

Né da insana parola…

Oh! tra genti sorelle e al bene amiche

Si sperda il suon delle querele antiche!…”


E non basta. Ad altezze poetiche simili seppero librarsi anche gli altri Autori del libello. Ricordiamo almeno i loro nomi: Antonio Peretti, poeta di corte a Modena ma già in odore di liberalismo, in un poemetto in versi sciolti ribadiva la sua ferma convinzione che niente e nessuno sarà in grado di arrestare il progresso:

“… A gloriosa meta /

il secolo cammina, e la codarda /

Lusinga d’arrestar l’igneo suo carro /

È delirio od innocente /

Insania di fanciullo…”;


in un suo lirico appello alla concordia tra gli italiani il ligure Francesco Ramagnini prediligeva il settenario sdrucciolo, mentre Emanuele Celesia ricorreva al più tradizionale sonetto per rivendicare al genio italico l’onore della scoperta della macchina a vapore.

L’indotto sollecitato da questo breve tratto di ferrovia sembra essere soprattutto letterario: anche il poeta Federigo Trenta sente il dovere di affidare ad un foglio volante, stampato dal solito Giusti, nientemeno che un inno. Al lettore curioso ne forniamo almeno un paio di strofe significative:

“… Il Commercio, per celeri lampi

Cui l’Industria sa mettere a prova,

Rifiorisce dovunque si trova

Le ferrate Stazioni a calcar.


Di già il Parto il Germano ed il Franco

Fraternizza in virtù del Vapore

E l’Ibéro di regni signore

Stende all’Italo amica la man…”


Eppure, non doveva trascorrere neppure un anno dall’edizione di quei versi rotondi e sonori, che il treno e la strada ferrata da Lucca a Pisa avrebbero svolto la funzione emancipatrice e civilizzatrice auspicata dai nostri generosi Autori.

Durante tutta la primavera e l’estate del 1847, infatti, anche a Lucca, come nel resto d’Italia, il movimento riformatore aveva ottenuto importanti successi: la libertà di stampa era finalmente divenuta realtà ed il 1 settembre era stata istituita la Guardia civica e affidato al Consiglio di Stato l’adozione delle riforme politiche ed amministrative ritenute necessarie ed adeguate ai veloci cambiamenti in corso d’opera in tutta la penisola.

Il mito di Pio IX° papa liberale agiva potentemente nella cattolicissima città delle Mura: i cortei popolari assomigliavano a processioni; il tricolore veniva deposto come una reliquia sacra su altari improvvisati: sacerdoti prendevano pubblicamente la parola, mescolando gli ideali religiosi con quelli nazionali e costituzionali.

In quei giorni furono centinaia i Pisani che raggiunsero Lucca per portare sostegno politico e morale, solidarietà, entusiasmo ai fratelli toscani: “A Lucca giunsero anche centinaia di livornesi e per tutto il giorno e gran parte della notte fu un tripudiare continuo per le piazze e per le vie ed a sera la città venne rallegrata da una splendida luminaria. A notte inoltrata, un drappello di donne, che camminavano a tre a tre portando in mano delle torce accese, accompagnarono gli ospiti alla stazione ferroviaria. – Addio fratelli! – era il grido dalle mura che formicolavano di gente e risplendevano di lumi mentre le stesse parole si ripetevano lungo la strada ferrata e dal treno: Addio!” ( M. Noferi, Per l’apertura della strada ferrata da Lucca a Pisa, Pisa 1992): Pratica e calda la dimostrazione dell’inutile anacronismo dei confini tra città e paesi uniti invece da vincoli forti di lingua, storia, tradizioni, costumi, interessi.

Realizzava, così, il treno gli auspici di fratellanza espressi un anno prima nei versi - ammettiamolo - brutti ma profetici di Antonio Mazzarosa, Luigi Fornaciari, Giuseppe La Farina, Antonio Peretti, Francesco Ramagnini, Emanuele Celesia e, a parte, Federigo Trenta: il treno, la strada ferrata avevano davvero diminuite le distanze, avvicinati gli uomini, cancellate le differenze.

Come è noto, Carlo Ludovico di Borbone per cavarsi d’impaccio di fronte all’onda delle agitazioni nazionaliste e riformatrici, nei primi giorni di quell’ottobre 1847, senza neppure avvertire i propri ministri, preferì firmare l’atto di reversione alla Toscana in cambio di un cospicuo appannaggio. Dopo quanto detto non farà meraviglia sapere che, qualche settimana più tardi, il Borbone lucchese, in una lettera al suocero, attribuiva soprattutto a due cause la sua inopinata decisione: la libertà di stampa, praticata, a suo dire, in maniera distorta da giornalisti “antipatizzanti” e le vie ferrate, che in meno di un’ora, da Pisa e Livorno, avevano rovesciato a Lucca centinaia e centinaia di facinorosi a sostegno degli scarsi e sprovveduti liberali lucchesi… Dal suo punto di vista di bigotto reazionario aveva davvero ragione!





19 gennaio 2011

6° Lucca Digital Fest “Il dono” di Giorgia Fiorio

di Gianni Quilici


Lucca Digital Fest, nato e in buona parte gestito a Lucca sotto la direzione artistica di Enrico Stefanelli, è da sei anni uno dei pochissimi appuntamenti annuali di spessore europeo della nostra città.

In questi sei anni ha visto, infatti, la presenza fisica e/o fotografica di grandi personaggi come Steve McCurry, Elliott Erwitt, Richard Evadon, Roberto Bazan, Berengo Gardin; ha organizzato una miriade di incontri: letture di immagini e proiezioni, filmati e presentazioni di libri, riflessioni sulla fotografia e meditazioni; infine, ha un successo costante di pubblico.

Quest'anno sono state presentate 17 mostre, tra cui quelle di maestri consacrati come Jan Saudek o Horst P. Horst e la consueta rassegna con il grande concorso di fotogiornalismo della “World Press Photo 2010”.

Tra tutte queste mostre mi ha colpito particolarmente “Il dono” di Giorgia Fiorio, il cui libro, non a caso, ha ottenuto il patrocinio dell'UNESCO per la salvaguardia del patrimonio immateriale.

Innanzitutto mi ha colpito per la sottigliezza e la complessità con cui la Fiorio motiva questo titolo.

Il dono” è, infatti, per la fotografa “ la vita umana ricevuta quale grazia e offerta come tributo, sacricio, conservazione... è (quindi) la vita stessa, e poiché indissolubile da essa, anche la morte”.

Da qui una ricerca fotografica durata nove anni, attraverso trentotto Paesi. Paesi, per lo più, poveri, che più radicalmente hanno conservato le memorie del Passato, in cui è più possibile, quindi, documentare la storia del Credere, perché più diretto è il rapporto con il Mistero e il Sacro e più percebile è il senso dell'esistenza tutta nella sua complessità. Motivazioni che sembrerebbero più da antropologa che da fotografa. Soltanto che in popolazioni, dove le credenze concorrono a creare un'identità forte, questo tipo di rapporto non è soltanto intimo ed intenso, ma anche pubblico e collettivo, filtra attraverso riti e spoliazioni, sacrifici e danze, meditazioni e rigenerazioni. Con al centro la visibilità del corpo e dei corpi e ciò che essi esprimono dentro e fuori.

Giorgia Fiorio quindi ha raccolto per un verso un enorme materiale fotografico utile alla storia e alle varie branche di essa; per un altro verso ha “fissato” attimi di intensa bellezza espressiva.

Prendiamo uno di questi scatti, che ha apparentemente una dimensione più spettacolare-sportiva che religiosa. In questa foto Giorgia Fiorio ha colto l'attimo più straordinario di un rituale iniziatico estremo praticato nell'isola di Pentecoste, il bungee jumping, in cui gli uomini si lanciano da rudimentali e alte torri, alle quali sono legati con delle liane come auspicio per il raccolto dell'igname. Foto straordinaria perché ferma il preciso momento, in cui il corpo appare sospeso orizzontalmente nel vuoto come per miracolo divino. Equilibrio ammirevole di bellezza fisica e di geometrie, di esibizione e di ritualità. Si può non sapere niente di ciò che la foto vuole esprimere; colpisce di per sé, al di là di ogni conoscenza.

da Arcipelago, rivista dell'Arci di Lucca























"Stanislaw Moniuszko, un dimenticato Verdi polacco"

di Luciano Luciani

Vi è un ambito della cultura nel quale la Polonia offre una straordinaria ricchezza e può a buon diritto aspirare a essere addirittura compresa fra le “potenze mondiali”: la musica, da secoli una caratteristica “forte” di questo Paese che vanta in proposito un’antica e nobile tradizione, viva e vitale anche quando la Polonia era stata cancellata dalla carta politica d’Europa.

Se, a buon diritto, Fryderyk Chopin è stato ed è ancora il compositore polacco più noto, pure la musica polacca ha saputo esprimere anche altre importanti e significative personalità: per esempio, Maciej Kamienski (1734-1821), autore della prima opera su testo in lingua polacca La miseria mutata in felicità, in cui si ritrovano ritmi e melodie del folclore slavo; oppure quel Jan Stefani (1746-1829) violinista e compositore di origine italiana, il cui vaudeville, Il presunto miracolo ovvero Cracoviani e montanari, presenta un soggetto intriso di patriottismo e interessanti aperture ai canti popolari e al colore locale; o Josef Ksawery Elsner (1769-1854), direttore del Conservatorio di Varsavia e maestro di composizione di un giovanissimo Chopin, animatore instancabile della vita musicale polacca attento ai movimenti culturali e politici del primo Ottocento.

Non a tutti, poi, è nota l’attività di Stanislaw Moniuszko, un grande compositore, la cui fama è rimasta purtroppo oscurata dal genio del suo contemporaneo Chopin.

Nato a Ubiel, non lontano da Wilno, nel 1819, Moniuszko dopo aver studiato a Vienna e a Minsk ed essersi perfezionato in composizione a Berlino, fu direttore d’orchestra, organista e a sua volta insegnante. La sua infanzia trascorse nel clima esaltatato e appassionato dei continui e purtroppo sterili tentativi di insurrezione al giogo zarista e la sua giovinezza si intristì in un’atmosfera cupa di forzata rassegnazione a rapporti di forza politico militari che non consentivano al popolo polacco di realizzare le proprie aspirazioni nazionalistiche e di giustizia sociale.

Malfermo di salute, di carattere timido e introverso, non partecipò mai direttamente a iniziative di aperta contestazione al potere autocratico russo. Lottò per l’indipendenza e la liberazione del suo Paese con le solo armi a lui congeniali: le note musicali e una fervida fantasia.

Viaggiando in lungo e in largo per la Polonia Moniuszko aveva studiato le melodie e i modi del canto slavo e a esso si ispirarono sia le canzoni con cui intese educare la masse polacche al culto delle tradizioni popolari, sia le opere liriche dense di contenuti patriottici e sociali insieme che contribuirono a tenere desta la ribellione contro istituzioni politiche e amministrative rimaste anacronisticamente insensibili agli avvenimenti della rivoluzione francese e ai rivolgimenti delle rivoluzioni nazionali europee.

Nacquero così i melodrammi che gli dettero una meritata popolarità in patria e godettero di stima e ammirazione anche all’estero: Halka, La contessa, Il castello dei fantasmi, i più famosi.

Importante soprattutto il primo titolo, considerato tanto dalla critica quanto dal pubblico di allora e di oggi come l’atto di nascita dell’opera nazionale polacca: una bandiera, un simbolo il cui successo trascende gli stessi valori artistici. Tratto da un poema di Kazimierz Wojcicki, il melodramma era già pronto nel 1847, ma l’occhiuta censura zarista ne vietò la rappresentazione fino al 1858; infatti i temi della prepotenza dei nobili e del conflitto di class vennero ritenuti sconvenienti per una rappresentazione scenica e pericolosi perché rischiavano di infiammare gli animi degli spettatori. Fondendo mirabilmente modelli tratti dalla musica del tempo, soprattutto italiana – ma anche francese e tedesca – con le armonie della musica popolare, Moniuszko portò in scena lo scabroso tema di Halka, giovane contadina che, sedotta e abbandonata dal nobile Janusz, di fronte all’ennesima umiliazione inflittale dall’egoismo dell’amante, ha ancora la forza morale di preferire il suicidio alla vendetta.

L’opera, rappresentata a Varsavia più di dieci anni dopo la sua realizzazione, ebbe oltre cento repliche consecutive e fruttò al suo autore quella serenità economica che fino ad allora la fortuna gli aveva negato. Un’affermazione clamorosa, incondizionata dovuta alla straordinaria capacità di questo sensibile musicista di rispecchiare con penetrante intuito le aspirazioni delle masse e di farsi portavoce dei suoi slanci più immediati e genuini. Particolarmente pregevoli le romanze dell’opera dove il canto spiegato si anima di un’intensa carica emotiva ottenuta con sonorità in cui la concitazione drammatica si distende in tenere ondate di suoni. Bellissimi poi i motivi di danze i cori ispirati dal folclore popolare. Il celebre direttore d’orchestra e pianista tedesco Hans von Bulow affermò che le romanze della Halka possono trovare dei corrispettivi solo nei più perfetti esempi di melodia dei grandi maestri occidentali come Wagner e Bizet.

Forte della celebrità ormai raggiunta, Moniuszko si recò anche all’estero: nel 1862 era a Parigi dove frequentò Gounod e Auber e riscosse l’ammirazione di Rossini. Intanto la sua produzione si arricchiva continuamente di pregevoli pagine di musica da camera, pianistica, vocale, sinfonica e sacra senza disdegnare il genere alla moda dell’operetta. Il suo stile musicale doveva esercitare una notevole influenza su Cajkovskij e su numerosi altri musicisti slavi della fine dell’Ottocento.

Così come aveva fatto Erkel per l’Ungheria e Smetana per la Boemia, Moniuszko fu il fondatore dell’opera nazionale polacca allineando così il suo Paese nel campo del melodramma a quella dignità artistica che altri paesi come la Germania e l’Italia avevano da tempo raggiunto. Nel periodo risorgimentale Moniuszko rappresentò per la Polonia quello che Giuseppe Verdi significò per l’Italia: fu il musicista della redenzione e della riscossa. Infatti, come nell’Italia degli anni quaranta del XIX secolo, i giovani animati da sentimenti patriottici erano soliti cantare polemicamente in faccia alla sbirraglia di Radetzky le note dei celebri cori del Nabucco e dei Lombardi alla prima crociata, così in Polonia le arie delle canzoni di Moniuszko volavano di bocca in bocca quale presagio di un avvenire migliore.

Se l’Europa ha in parte dimenticato questo compositore, la sua terra – e non poteva essere diversamente – continua amorevolmente a ricordarlo: un Festival di canto, dedicato prevalentemente alla sua opera, si tiene annualmente nel mese di giugno a Kudowa-Zdroj nella Bassa Slesia. Poi, un concorso internazionale per giovani vocalisti organizzato per la prima volta nel 1992 a Varsavia porta il suo nome e ripropone ai giovani musicisti europei le cantabili armonie di Stanislaw Moniuszko, malinconico e tenace compositore romantico.


" Il 9 scomparso" di Darwin Pastorin

di Gianni Quilici

Darwin Pastorin è un giornalista sportivo, con il vizio della letteratura, innamorato del calcio con il quale, più che un rapporto tecnico, ha un rapporto sentimentale. La sua penna attinge ai profili dei calciatori con ricordi che spesso diventano o vogliono divenire mitico-favolosi.

In questo breve romanzo un giovanissimo e grandissimo centravanti brasiliano viene rapito prima della finale mondiale con l'Italia. L'io narrante, un giornalista sportivo sui generis, alias Darwin Pastorin, attraverso alcuni minuscoli indizi, non è convinto di questo rapimento, e, dopo una veloce ricerca, intuisce la verità, che si rivela esatta.

Il racconto dapprima ricorda un poco il noir alla Marlowe: frasi brevi, azione, atmosfera vagamente romantica.

“ Mi tirai dietro la porta, sbattendola. In un attimo ero giù dalle scale e fuori nella notte. Ritornavo in pista. La notte non aveva stelle. Il cielo era di uno scuro monotono”.

Poi diventa invece favola didascalica. Il giornalista intuisce ben presto come sono andate le cose. Troppo lineare, troppo semplicistica la risoluzione del “giallo”. Perché? Ciò che interessa, ed ha condizionato Pastorin, è la morale: il grande campione era “tornato ad essere il figlio della favela”.

Come favola avrebbe dovuto creare più contrasti, più sorprese: sembrare più realistica nel suo essere favolosa.


Darwin Pastorin. Il 9 scomparso. I corti. Edizioni E/O. Euro 6.00

15 gennaio 2011

" Maigret e il caso Nahour" di Georges Simenon

di Gianni Quilici


“E’ un 14 gennaio freddissimo a Parigi. La città sembra deserta. Il commissario Maigret, reduce con la moglie dalla cena mensile in casa dei coniugi Pardon -unico vero amico che il Commissario abbia, a parte i suoi uomini- dorme di un sonno agitato da incubi, quando squilla il telefono. E’ proprio il dottor Pardon che lo vuole subito da lui. Maigret lascia quindi il calduccio del suo letto per uscire in strada, al gelo. Il dottore gli racconta una strana storia: pochi minuti prima ha accolto nel suo studio una coppia formata da un sudamericano di 26 anni circa e da una giovane donna biondissima, una vera nordica, ferita al dorso. Dopo aver curato la donna ed estratto un proiettile calibro 6,35, il dottore si ritrova solo nello studio: i due sono andati via alla chetichella su una potente macchina rossa, un’Alfa Romeo”.

Questo l'inizio del romanzo, ricavato, con qualche taglio o correzione, dal blog di Giuseppina La Ciura. Dietro questo “colpo di pistola” c'è, come si scoprirà subito, un delitto.

Georges Simenon sa concertare bene la vicenda riuscendo a tenere aperto fino quasi alla fine il mistero di chi sia l'assassino. Non con colpi di scena artificiali, ma attraverso una dialettica tra i personaggi, che mette in difficoltà Maigret, costringendolo a penare e a soffrire.

Questo per la qualità di alcuni di questi personaggi.

Il primo è Nahour, l'assassinato, ricchissimo, giocatore professionista conosciuto in tutti i casinò d'Europa, perché capace di fare rapidamente complicati calcoli probabilistici, sposato con la biondissima (e molto bella) ragazza, che abbiamo trovato ferita all'inizio, con un altro. Nahour è personalità abile e solitaria, inibito (con le donne) e possessivo (con la moglie), con un grande patrimonio economico, e lascia trapelare, dalla sua vita, un mondo del gioco dietro cui si muovono associazioni, che funzionano come società finanziarie, e tutta quella bella vita fatta di hotel di lusso e feste.

Ancora più efficace (come personaggio) è il segretario di Nahour, un libanese impeccabile nei modi e dal volto impassibile, dapprima gelidamente indisponibile a collaborare, sottilissimo poi nel coprirsi di alibi ed affilatissimo nel demolire (o cercare di demolire) le congetture del commissario con insinuazioni, che possono essere plausibili. C'è un dialogo in cui i ruoli si rovesciano: Magreit è costretto, in qualche misura, a rispondere alle domande insinuanti con cui il libanese ricostruisce la scena del delitto.

Ma anche la bella e bionda moglie e il suo amante, personaggi non approfonditi, conservano tuttavia il mistero, nel loro rimanere aperti.

Infine: è un romanzo “giallo” che potrebbe essere studiato semiologicamente per comprendere più da vicino quali siano i momenti in cui Simenon riesce, con l'abilità dello scrittore penetrante, a sfuggire a possibili meccanicismi.


Georges Simenon. Maigret e il caso Nahour (Magreit e l'affaire Nahour). Traduzione di Annamaria Carenzi Vailly. Adelphi. Euro 9.00













14 gennaio 2011

"Cosa fa vivere gli uomini" di Lev Tolstoj

di Gianni Quilici


E' uno dei racconti editi da Repubblica, qualche anno fa. Lo leggo di getto in aereo. Nella copertina bellissimo disegno (non trovato in rete) di Tullio Pericoli su Tolstoj, che coglie, negli occhi determinati e profondi, quella profondità estremistica, quasi folle, e, nella barba enorme e fluente, anche il testimone, il profeta.


Il racconto inizia in questo modo:Viveva un calzolaio, con la moglie e i figli, nella casa di un muzik: non aveva né una casa sua, né terra sua, e per campare, lui con la sua famiglia, aveva soltanto il suo lavoro di calzolaio. Il pane costava caro, il lavoro invece costava poco, e così tutto quel che guadagnava lo spendeva per mangiare”.

Inizia come una novella, che poi leggendo, più esattamente, diventa una parobola. Una parabola evangelica. Un inno all'amore. Dice infatti l'uomo-angelo nel messaggio finale che ci lascia: Chi è nell'amore è in Dio e Dio è in lui, perché Dio è amore

Messaggio, a pensarci bene, laico, perché la misura vera di Dio non è in Dio stesso, ma nell'amore.

Si è Dio attraverso l'amore, ma non si è Dio senza l'amore. In altri termini si può essere in Dio inconsapevolmente, semplicemente vivendo l'amore.

La parabola ha la sua bellezza e grazia per la luminosità con cui si concatena una vicenda incalzante che lascia trapelare un mistero che un po' delude nel suo sciogliersi, perché diventa ideologia, conservando tuttavia un valore pedagogico che, se raccolto nella sincerità disinteressata della sua verità, dà energia.

Tolstoj -leggo- la rielaborò sulla base di una leggenda che aveva udito da un contadino.

Lev Tolstoj. Cosa fa vivere gli uomini. Racconti di Repubblica 4.

11 gennaio 2011

"Henri Toulouse-Lautrec" di Luciano Luciani

Henri,
tra grazia
e dissolutezza


È la notte del 24 novembre 1864. Un uragano imperversa sulla Linguadoca nella Francia meridionale, infuriando particolarmente sulla città di Albi. Nel castello dei Toulouse-Lautrec, casato di antichissima nobiltà, la contessa Adele è alle prese con le doglie del parto: un fatto assolutamente naturale, ma che nel caso della giovane donna si carica anche di altri significati. Il suo, infatti, non è stato fino a quel momento un matrimonio felice. Il cugino che la contessa Adele Taple de Celeyran ha sposato, forse affrettatamente invaghitasi della divisa del brillante ufficiale di cavalleria, si è rivelato un individuo fatuo e superficiale e un marito certo non all’altezza dell’impegnativo nome della famiglia.

Il parto, sebbene laborioso, avviene regolarmente: è un maschio e mentre il marito esulta, Adele sospira sollevata. Al bambino, cui ignaro toccava il difficile compito di riunire due genitori già divisi per gusti, sensibilità e interessi diversi, viene assegnato il nome Enrico Maria Raimondo di Toulouse-Lautrec. Più familiarmente Henri, in onore di Enrico V di Borbone, pretendente legittimista al trono di Francia, nipote di quel Carlo X con la cui cacciata nel luglio 1830 i parigini e i francesi avevano definitivamente chiuso con l’età della Restaurazione.

Passano alcuni anni. Il bambino cresce bene, allegro, intelligente e in buona salute: studia il latino e il greco, impara a cavalcare, segue i genitori nei loro continui vagabondaggi di oziosi benestanti. Ma i contrasti tra i due coniugi si accentuano e la separazione si rende inevitabile: quando dalla provincia decidono di stabilirsi a Parigi, la loro vita in comune è ormai ridotta a poco più che una formalità. Li tengono uniti le convenzioni sociali e il piccolo Henri, da educare e a cui preparare nella capitale un futuro degno del prestigio familiare.

Nel 1872 il ragazzo viene iscritto al Liceo Fontanes dove stringe una fraterna amicizia con il cugino Louis Pascal e con Maurice Joyant, che gli sarà vicino e fedele per tutta la vita e oltre, autore di un’opera fondamentale sull’artista e fondatore del museo di Albi.

Ma lo sviluppo fisico di Henri non è normale. Intorno ai dieci anni comincia a manifestare una salute cagionevole e, soprattutto, non cresce. E se in casa tentano di consolarlo vezzeggiandolo e chiamandolo petit bijou, i compagni di scuola parigini, crudeli come solo i bambini sanno essere, non gli perdonano né l’origine provinciale, né la disarmonia fisica che comincia a palesarsi. Così lo ribattezzano petit bonhomme, attribuendogli il nomignolo che per secoli in Francia ha designato il contadino francese tonto, sgraziato, sempliciotto.

Nonostante la madre preoccupata per le sue condizioni fisiche lo abbia ritirato da scuola per ricondurlo ad Albi, la sua salute non migliora, anzi subisce un duro colpo. Il 30 maggio 1878 Henri si trova nella sua città natale: mentre tenta di sollevarsi da una sedia a sdraio dove è disteso, cade e si frattura il femore sinistro, la cui riduzione risulterà assai difficile per i medici a causa dell’eccessiva fragilità delle ossa. È un brutto colpo per quest’adolescente pensoso e sensibile che aveva già dimostrato una straordinaria vocazione per il disegno riempiendo quaderni e margini di libri di immagini di animali e caricature di insegnanti e compagni di scuola: “non state a piangere sui miei guai” dice con grande fermezza d’animo a chi lo circonda “me lo sono meritato perché mi sono dimostrato troppo malaccorto”. Quindici mesi più tardi una nuova caduta e una nuova frattura peggiorano uno stato di salute cronicamente malfermo: un giorno della primavera 1880, mentre Henri e la madre passeggiano in un bosco nelle vicinanze di Albi, il ragazzo precipita nel letto di un torrente asciutto, profondo poco più di un metro: le ossa cedono di nuovo e questa volta è la gamba destra che si rompe all’altezza del femore. Malgrado le cure, la malattia che lo affligge, identificabile con una grave forma di distrofia poliepifisaria fa il suo corso devastante. I tessuti ossei a causa della ridotta vascolarizzazione non si sviluppano normalmente, diventano fragili e degenerano. Così il giovane Toulouse-Lautrec che a 13 anni era alto normalmente un metro e cinquanta vedrà bloccato il proprio sviluppo fisico e da adulto non raggiungerà il metro e cinquantadue: gambe e braccia sono troppo corte, la testa grossa, i lineamenti appesantiti e quasi deformi, il naso appiattito, le labbra larghe da risultare grottesche ricadono su un mento sfuggente.

Sono anni di sofferenza, di cure, di speranze deluse. Incoraggiato da parenti e amici, Henri fissa sulla carta tutto quanto colpisce la sua fantasia ricavandone motivi di gioia e consolazione. Continua anche gli studi regolari: nel 1881 ottiene il baccellierato. L’anno dopo, con il consenso della madre, rientra nella capitale e comincia a lavorare presso lo studio di René Princeteau, amico del padre Alphonse a sua volta scultore non del tutto sprovveduto: il maestro parigino ne apprezza le qualità e, sentendosi inadeguato rispetto all’allievo, lo orienta a collocarsi presso l’atelier di Leon Bonnat, un pittore accademico con lo sguardo rivolto al passato, ma capace di insegnare tutte le malizie del mestiere. Henri lavora duramente, s’impegna su temi storici e mitologici che non gli piacciono affatto, ma si appropria della tecnica. Il maestro, malgrado il suo lavoro disciplinatissimo, non lo apprezza ed esprime giudizi assai poco lusinghieri: “La vostra pittura non è male, c’è del garbo, sì, davvero, niente male… ma il vostro disegno è semplicemente orrendo”.

Henri passa poi nello studio di Fernand Cormon, alla periferia di Montmartre. Gli amici e i colleghi lo trascinano di bar in bar e lo mettono a contatto con l’umanità mossa, fervida, dolente di quell’area di Parigi. Toulouse-Lautrec inizia a osservare e a riprodurre questo mondo duro, tagliente e insieme ingenuo di umiliati e offesi: ubriaconi e prostitute, omosessuali e gaudenti, sconfitti e spossessati di ogni risma cominciano ad affollare le sue tavole. Il freddo accademismo delle origini viene abbandonato per una pittura aderente alla realtà che supera, però, il naturalismo degli impressionisti e privilegia l’uomo privato, la sua interiorità, sovente fissandosi su soggetti abnormi, casi patologici, situazioni al limite… Oppure si concentra sui luoghi: povere sale da ballo, circhi di periferia, bordelli, caffè concerto, il “Gatto nero”, il “Moulin de la Galette”, il “CircoFernando”, il “Bar d’Achille”… Henri si immerge completamente nell’atmosfera di Montmartre, teso a non perdere né un solo istante di quella vita, né un solo particolare di quegli spettacoli, ripugnanti e insieme attraenti, alla continua ricerca di atmosfere e persone, di tipi umani, immortalati in tratti stilizzati che isolano ed esaltano gli elementi psicologici distintivi di quella umanità povera e reietta.

Un giorno conosce Clementina Valadon, un’ex lavandaia, trapezista, già modella di Renoir: bella, desiderabile Clementina non ha pregiudizi e i due diventano amanti.

Henri, l’ultimo discendente di due tra i più illustri casati della Francia meridionale ormai ricalca perfettamente il clichè del bohemien anticonformista. Quasi sempre ubriaco, rappresenta un motivo di scandalo per l’aristocratica famiglia che, però, gli offre i mezzi per aprire uno studio a Montmartre. Clementina lo segue, ma quando i suoi tradimenti si fanno troppo palesi avviene la rottura tra i due, un altro motivo di sofferenza per il sensibilissimo Henri.

Nel 1888 Toulouse-Lautrec espone per la prima volta “Aux arts Incoherents” e nel settembre 1889 ottiene il suo primo grande successo al quinto Salone degli Indipendenti con il celeberrimo Bal du Muolin de la Galette. A Bruxelles nel 1890 le sue opere appaiono assieme a quelle di Renoir, Signac, Cezanne, Zidler: il proprietario del Moulin Rouge – il locale dove Henri seduto sempre allo stesso posto per avere la stessa visuale trascorreva tutte le sue serate ed era diventato quasi una figura leggendaria – acquista, pagandolo lautamente, “La danse au Moulin Rouge”, la sua terza grande composizione. Nel settembre 1891 un manifesto dipinto da Toulouse-Lautrec per lo stesso locale rende improvvisamente celebre il suo autore. L’anno dopo Degas, il grande impressionista per il quale Henri aveva sempre professato un’ammirazione sconfinata, dopo aver visto alla galleria di Maurice Joyant una quarantina di sue opere, stringendogli la mano gli dice: ”Bene, anche tu ormai fai parte della banda”.

Lautrec è ormai celebre. I suoi atteggiamenti indispongono i benpensanti, scandalizzano gli accademici, provocano i conformisti… Intanto la Montmartre che amava si andava spegnendo: il pittore l’abbandona e disperato si mette a frequentare tutti i bordelli della città. Irascibile, intrattabile, lavora febbrilmente passando dai quadri ai manifesti, ai disegni, alle illustrazioni per libri e giornali, alle litografie.


Nel 1896 espone a Londra ma l’esito di questa esperienza inglese non è felice. La stampa lo attacca impietosamente, criticando i contenuti del suo lavoro e le sue scelte formali. Viaggia in Olanda, Belgio, Spagna, Portogallo. Rientrato a Parigi ha una crisi di delirium tremens: soffre di allucinazioni e amnesie, ma ha ancora voglia di vivere e di guarire. La madre, l’unica persona di cui l’artista accetti preoccupazione e sollecitudine, lo fa ricoverare in una clinica di Neuilly. Si rimette in salute ed esegue, proprio per dimostrare ai medici e agli amici di essere in grado di intendere e lavorare, i famosi trentanove disegni del circo, tutti caratterizzati da un elemento ricorrente, agghiacciante: l’assenza degli spettatori. Quei gradini vuoti sono come il brivido della morte ormai prossima. In maniera forsennata lavora ancora a ritratti e disegni.

Nell’estate del 1901, sentendo prossima la fine, si dedica a terminare le opere incompiute, firma dipinti e disegni, riordina i propri materiali. Il 15 agosto è colpito da una paralisi alle gambe: eroicamente, malgrado la malattia, si sforza di portare a termine la sua ultima opera, Un esame alla facoltà di medicina, una grande tela dai colori cupi, che, secondo l’ultima maniera dell’artista, scava meno nei dettagli dei visi e si rivela più attenta agli effetti di luce.

Muore il 9 settembre 1901, fra le braccia della madre.

Così, alcuni settori dell’opinione pubblica francese ne salutano la scomparsa: ”Abbiamo perduto qualche giorno fa un artista che si era acquistato una celebrità nel genere laido… Toulouse-Lautrec, essere bizzarro e deforme, che vedeva tutti attraverso le sue miserie fisiche… È morto miseramente, rovinato nel corpo e nello spirito, in un manicomio, in preda ad attacchi di pazzia furiosa. Fine triste di una triste vita”(“Lion Republicain” del 15 settembre 1901); “Come ci sono gli amatori entusiasti delle corride, delle esecuzioni capitali e di altri spettacoli desolanti, vi sono amatori di Toulouse-Lautrec. È un bene per l’umanità che esistano pochi artisti di questo genere” in “Le Courrier Francais” del 15 settembre 1901…

Eppure, nonostante l’incomprensione dei critici a lui contemporanei e la cattiveria dei giudizi, le tavole di Henri de Toulouse-Lautrec hanno esercitato e continuano a esercitare fino ai nostri giorni profonde suggestioni su tutti coloro che con le linee e il colore hanno inteso indagare sul difficile, difficilissimo mestiere di vivere.




01 gennaio 2011

"Sangue mio" di Davide Ferrario

di Andrea Bocconi

Un uomo esce dal carcere , ci ha passato gli ultimi diciotto anni. Fuori lo aspetta in un bar una persona che non conosce affatto, sua figlia. Aveva lasciato la madre incinta, e non l'aveva mai più vista. Lei gli chiede di accompagnarla in un lungo viaggio verso Maratea, su una scassata Panda a gas. Due estranei , con una vita piena di non detti, lui la segue perché forse non ha altro da fare, perché é curioso, non si sanno mai tutti i perché. Lungo il viaggio si raccontano qualcosa, si annusano, litigano, comprano camicie più decenti, cercano pezzi di passato, incontrano la desolazione di un' Italia indifferente e sfregiata.

Era difficile scrivere questa storia senza scivolate nel patetico o negli stereotipi del duro che si scioglie. Ferrario ci riesce- e bene- perché ha distillato un'esperienza decennale di lavoro nelle carceri. che ha raccontato anche nel film " Tutta colpa di Giulia".

Benchè Ferrario abbia un interesse profondo per la marginalità, sarebbe assai riduttivo etichettarlo come artista impegnato. La storia, raccontata con un linguaggio asciutto, molto visivo, scava nei due viaggiatori in profondo : c'è la malattia di lei, c'è il passato e l'incerto presente, c' è una ricerca della dignità . A volte l'irruzione di un linguaggio lirico segna l'affacciarsi dell'autore nella storia, e questo mi piace meno. Ma , come nei buoni film, Ulisse Bernardini rapinatore e sua figlia continuano il loro viaggio dentro chi legge anche dopo che il libro l'hai finito.

Davide Ferrario. Sangue mio. Feltrinelli 2010 , euro 16