30 maggio 2016

"Storie di vita: la grande famiglia" di Antonella Mari




                  Dal vicolo. Foto di Antonella Mari
I nomi attribuiti agli enormi mostri di cemento gettati in riva al mare servivano evidentemente a giustificare la mancanza di rispetto per quella natura così generosa. La prepotenza edilizia finiva per manifestarsi attraverso le persone che li popolavano e in breve si tramutava in arroganza verso tutti coloro che ne erano fuori. Miramare e Montedolce erano sinonimo di appartenenza a luoghi che evocavano scenari silenziosi e immuni alla bruttezza. Un'illusione collettiva o forse una consapevolezza mai confessata di quanti in quel posto ci erano nati.

Il mare c'era ed era meraviglioso. Ma non tutti da casa lo vedevano allo stesso modo. Chi non aveva la fortuna di essere in prima fila era costretto a guardarne un pezzetto attraverso il vicolo, o ad ammirarlo di traverso perché il balcone non era posto esattamente fronte mare.

 Io il mare lo guardavo attraverso il vicolo. Mi bastava per sentirne l'odore. Avevo però la visuale aperta sull'universo che si stendeva ai piedi del Montedolce, sul lato opposto al mare.

Sotto di me si muoveva una grande famiglia. Non erano zingari e non erano nomadi. Vivevano tra le lamiere e la loro esistenza somigliava alla nostra: anche loro possedevano solo un pezzo di mare. Nelle giornate di sole mia madre teneva le persiane abbassate a metà e la casa era sempre nella penombra;credo che volesse nascondere a nostri occhi la visione di quel mondo: ciò che le faceva paura era da escludere, oscurare. Nessuno ha mai parlato di loro. Erano invisibili sebbene almeno un centinaio di famiglie affacciasse su quell'enorme buco.

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Io ero curiosa e sognavo di poter incontrare un giorno qualcuno di loro. Di nascosto, tutte le mattine e tutte le sere controllavo che fossero accese le lanterne tra le lamiere per assicurarmi che quel pezzo di mondo non fosse sparito. Speravo che qualche bambino alzasse gli occhi verso la mia finestra e scoprisse che c'ero. Ma i bambini laggiù guardavano la terra e io non ho mai potuto incrociarne lo sguardo. Se almeno una volta avessero guardato per aria si sarebbero accorti dell'infinità del cielo e magari avrebbero capito che dopo la pioggia qualche volta compare un arcobaleno. Avevano la pelle e i vestiti puliti nonostante le disastrose condizioni igieniche in cui vivevano. A ora di cena le madri li richiamavano e loro sbucavano da qualche tana correndo come topolini affamati.

Per tutta la mia infanzia mi sono sforzata di capire l'architettura di quella costruzione,alla fine mi sono convinta che fosse un labirinto. Di notte gli uomini della comunità ne modificavano l'assetto in modo che, se qualcuno vi fosse caduto dentro, per caso o per curiosità, non avrebbe ritrovato la via d'uscita. Lo avrebbero squartato e diviso in tanti pezzi e si sarebbero nutriti della sua carne. E poi l'avrebbero condivisa brindando con vino rosso scadente. Io li sentivo ridere di sera. Erano felici. Di tanto in tanto qualcuno appiccava il fuoco all'erba secca intorno alle baracche e allora li vedevi correre e urlare senza comunque mai allontanarsi troppo. Rischiavano di bruciare vivi pur di proteggere il loro mondo.

Osservavo in silenzio la vita brulicante che si svolgeva sotto i miei occhi. Io che potevo giocare solo con i bambini che vivevano davanti, quelli che potevano abbracciare il mare, non parlavo degli invisibili. 
Un giorno, tornata da scuola, non ho più trovato le baracche. Non le aveva distrutte il fuoco, ma le ruspe chiamate da qualche osservatore silenzioso. Dove un attimo prima esisteva un universo di vita ora c'era niente. Non ho mai fatto domande davanti a quel vuoto che mi si apriva dentro e sotto i piedi. Mi piace pensare ad un bambino che scappando riesce per la prima volta a vedere il cielo.

25 maggio 2016

“Orani” foto di Franco Pinna



di Gianni Quilici

Apparentemente sembra una foto facile a farsi. Apparentemente però.
Primo: devi esserci; secondo: devi trovare-scegliere il punto giusto da cui scattare; terzo: devi avere una buona luce; quarto: devi scegliere l’attimo giusto dello scatto.

Franco Pinna ci è riuscito donandoci innanzitutto una foto di documentazione storica.
Siamo, infatti, in Sardegna nel 1956 a Orani, cittadina situata nella provincia di Nuoro alle pendici del monte Gonare, durante una festa popolare di balli tradizionali. Ed è questa una delle tante foto che Pinna scattò in occasione di un reportage fotografico sulle tradizioni popolari della gente del Sud, ricerca coordinata da Ernesto De Martino, che consentì di realizzare una sterminata documentazione fotografica e audiovisiva.

Una foto che tuttavia oltrepassa la semplice documentazione. Vediamola.
Colpisce, immediatamente ad un primo sguardo, la geometria  nella disposizione delle persone nei due circoli presenti con alcune sottili scelte di inquadratura.

Innanzitutto la scelta del fotografo di inserire nell’angolo destro della foto soltanto  teste e spalle della prima fila, allargando invece successivamente lo spazio per dare il senso delle presenze alla festa.

La scelta poi di allargare l’inquadratura facendo balenare la cittadina come sfondo: la piazza adiacente, la chiesa in alto con il raggruppamento delle case e la montagna come orizzonte ultimo.

Inoltre il piccolo cerchio di persone, un po’ disordinato, dentro il cerchio più grande, non solo non disturba la geometria dell’insieme, ma anzi la rafforza, perché crea una piccola curiosità : “ ma che cosa stanno guardando?”

Ciò che tuttavia si insinua di primo acchito nello sguardo è il contrasto di colori: il biancore della piazza con i vestiti scuri dei corpi che la contengono.

Lo scatto fotografico di Franco Pinna coniuga, quindi, la pura (im)perfezione cromatica e architettonica di una festa sarda con il tempo della Storia, la storia dei più umili.

Franco Pinna. Orani (Nuoro). Anno 1956.

24 maggio 2016

Margherite Duras, una nota e tre riflessioni sulla scrittura" di Davide Pugnana




In una bella intervista, pubblicata col titolo "La passione sospesa" (edizioni Archinto), Marguerite Duras racconta le radici della sua scrittura. Racconta che cominciò a cercare le parole in Cocincina, con trenta gradi all'ombra, all'età di undici anni. Scriveva poesie: "si comincia sempre da lì - sul mondo, la vita di cui non sapevo niente". Passò alla prosa narrativa con "Gli impudenti", nel 1943, e i trenta gradi all'ombra divennero il correlativo oggettivo di una materia incandescente d'origine, che lei ebbe il coraggio di bucare e conoscere: scrisse un libro suo conflitto con il fratello, un romanzo di erosione e di scavo su quello che Freud chiama "il primo tempo dell'amore", che non è l'unione, ma il conflitto, l'abrasione, lo sbrego, l'odio. Lo spedì a Queneau che la scoprì e la pubblicò. Su questo scenario si stagliano tutte le figure di donne dei suoi romanzi, soprattutto due, che, almeno per me, rimangono indimenticabili: la protagonista di "Moderato cantabile" e l'attrice di "Hiroshima mon amour".

È proprio la lacerazione delle maschere che mi intriga nella narrativa di Marguerite Duras: quel suo andare sottopelle all'educazione, alla morale, all'indifferenza, all'estraneità che alza diaframmi tra le persone; quel suo descrivere il fuggire di fronte alla nudità in cui ci mette l'altro; e mi affascina quel suo scrivere malgrado l'isteria del vuoto innominabile che ci rende irrimediabilmente difficili e insoddisfatti. La domanda latente dei suoi romanzi è questa: sotto la pelle tesa e lucida dell'amore, cosa c'è? C'è il desiderio di trovare un centro, di dare forma ad un "progetto" che dia un senso al nostro esistere; ma questa certezza dei confini si sposta continuamente; fugge, si nasconde, si rarefà, erode se stessa, per questo nessun amore può darsi senza venature. Le coppie di Duras mettono in scena questo assioma: nessun amore è possibile fino in fondo perché non è possibile "dire" col puro sguardo. Il silenzio è un'eloquenza imperfetta. Occorrono parole. Qui si genera la sfasatura. Sarebbe bello poter girare lo specchio delle iridi innamorate e mostrare all'altro come noi lo vediamo: "Guarda, ti vedo così. Proprio così." d'improvviso, capirebbe ogni cosa e ogni parola sarebbe noiosa e superflua. Ma, quaggiù, siamo condannati a fabbricare parole per il nostro desiderio e questa condizione conosce, purtroppo, una fatale imperfezione. In Duras, tra le parole, tra le frasi, si allunga sempre una vasta zona di bruciante e appallotolato silenzio: un non detto che non è solo scrittura scarnificata, sottrazione, tensione; è l'arte che smantella i rapporti umani al di là delle illusioni e li rivela nella loro disarmante fragilità.

"Volevo dirti che non bastava scrivere bene o male, fare degli scritti belli o anche molto belli, non bastava più perché fosse un libro da leggere con un’avidità personale e non comune. Che non bastava neppure scrivere così, lasciando credere che non ci fosse nessun pensiero dietro, che fosse guidato solo dalla mano, così com’era troppo scrivere avendo in testa solo il pensiero che controlla l’attività della follia. [....] Ti ho detto anche che bisognava scrivere senza correggere, non necessariamente alla svelta, in fretta e furia, no, ma secondo se stessi e secondo il momento che si attraversa - se stessi, in quel momento - buttar fuori la scrittura, maltrattarla quasi, sì, maltrattarla, non togliere niente della sua massa inutile, niente, lasciarla intera insieme al resto, non moderare niente, né precipitazione né lentezza, lasciare tutto allo stato dell’apparizione."

"All’inizio quel che arriva è l’immagine di un luogo o di un movimento, talvolta di un
movimento in un luogo. Una specie di battito visivo interrotto da un’immagine muta. E poi ne vengono fuori delle parole, lanciate come proiettili nudi, senza la sintassi che le collega abitualmente in una catena. Sotto i colpi di questo rigetto violento della sintassi appaiono degli intervalli, degli spazi bianchi (des blancs, in francese). È un universo solo abbozzato. Nella nuova catena, gli spazi bianchi hanno il loro posto. Se c’è un senso, emergerà più tardi. Sul momento, c’è anestesia, soppressione. […] È un lavoro che porta su una regione non ancora scavata, forse. È il bianco della catena, questo femminile. […] Probabilmente è ciò che accade
quando non ci si difende e che, donna, ci si lascia immergere in questo abisso impersonale che si è, questo blocco di sordità."

"Quando scrivo, quel che cerco di raggiungere è uno stato di ascolto estremamente intenso, ma come dall'esterno. Di solito le persone che scrivono dicono: quando uno scrive, si concentra, io direi: no, io quando scrivo ho la sensazione di essere nella totale deconcentrazione, non mi possiedo più, sono diventata une passoire [un colino, un colabrodo]. In questo modo, non posso spiegare le cose che scrivo, perché ci sono cose che non riconosco, in ciò che scrivo. Dunque mi arrivano proprio da altrove, quando scrivo non sono sola a scrivere."

21 maggio 2016

" Intervista con Paolo Tognocchi" a cura di Luciano Luciani





Paolo Tognocchi, scrittore emergente, ha pubblicato recentemente il romanzo 6 un Milo Martini. Il libro, presentato giovedì 28 aprile u. s.  presso la biblioteca Artemisia di Capannori, colpisce il Lettore per i suoi contenuti carichi di pessimismo sul presente e, soprattutto, sui giovani della nostra contemporaneità.
Abbiamo pensato di fare cosa utile ai frequentatori di "Libere Recensioni" ponendogli alcune domande:

- Il protagonista del tuo romanzo più recente, 6 un Milo Martini, risulta particolarmente antipatico, anzi... di più.
Perché concentrarsi su una figura così negativa?
Perché se mi guardo intorno noto tanti Milo che girano per le nostre strade. Persone maleducate, ignoranti, presuntuose, malate di protagonismo, che vedono solo se stessi e che ne hanno fatto uno stile di vita. Il loro motto è: prima io, poi ancora io... e poi vediamo. Ovviamente Milo essendo un personaggio di fantasia è un concentrato di queste caratteristiche, che in alcune pagine raggiunge l’acme dell’individualismo, calpestando i valori basilari della convivenza.

- Né sembra migliore il contesto: Milo è il degno figlio di una società moralmente malata?
Sicuramente. Quella che viviamo è una società che ha scartato i valori etici alla base della convivenza per passare ad una morale provvisoria che si adatta ad ogni circostanza. Una morale egotica: l’etica dell’ego. Io vengo prima di tutto. Non esiste legge, regola, norma, che possa permettersi di interrompere la mia felicità. 

- Insomma, non si salva nessuno?
La mia visione è pessimista. La società attuale è permeata dal denaro e le persone fondano la propria esistenza proprio sul denaro. Questo è l’unico valore che, purtroppo, ci unisce. Per il denaro, ci vendiamo, mentiamo e ci inchiniamo. Abbiamo dato al denaro un valore assoluto e adesso non riusciamo a prendere le giuste distanze. Da mezzo è diventato un fine. Per cui l’altro, il mio vicino, diventa un nemico di cui diffidare perché potrebbe “rubarmi” il mio denaro.

- A tuo parere, l'attualità ci offre personaggi assimilabili a Milo Martini? Chi, per esempio?
Io credo che noi tutti, chi in poco, chi in tanto, siamo dei Milo Martini. Nella nostra vita quotidiana compiamo delle “milate” che si avvicinano a quelle compiute dal protagonista. Certo, la vita pubblica ci offre personaggi discutibili, soprattutto per cafoneria, che hanno contribuito a far nascere Milo Martini. Penso a politici, sportivi, persone della tv e del cinema, ma non faccio nomi. Lascio che siano i Lettori a riconoscere i vari Milo che ci circondano.

Paolo Tognocchi, 6 un Milo Martini, Edizioni Youcanprint, 2014, pp. 325, Euro 14,00

20 maggio 2016

“Esperienza” di Giorgio Caproni



Esperienza

Tutti i luoghi che ho visto
che ho visitato
ora so   ne son certo
non ci sono mai stato.
              Giorgio Caproni     

 nota di Gianni Quilici
E’ una di quelle poesie che si potrebbe imparare a memoria
E’ fulminea
soltanto quattro brevi versi.

E’ musicale
una rima alternata
e una miriade di assonanze.

E' perentoria
“ora so”.

E’ aforistica
di un aforismo sottile e profondo
su cui si può e si potrebbe discettare a lungo.

L’esperienza (titolo della poesia) è un Io che ha vissuto,
un Io che ha vissuto e che ha naturalmente ricordi,
ricordi di luoghi che nella memoria sempre più si restringono
fino a divenire immagini remote,
immagini remote senza più corpo,
irreali.

“Esperienza” da : Il muro della terra” ( 1964-1975) di Giorno Caproni.

18 maggio 2016

"Amore e Psiche" in Antonio Canova e François Gerard



di Dafne 

E’ stato tutto una sorpresa: arrivare a Milano e sentirla piccola e semplice, guardare il Duomo grigio-rosa, bellissimo, e non sentirlo incombere. Percepirlo, invece, discreto, misurato pur con le sue guglie, il suo gotico, e lo spingersi verso l’alto. Pensavo a Milano in modo diverso prima di trovarmici.
L’atmosfera tranquilla, quasi ovattata, i movimeti lenti delle persone e dei mezzi davano un’impressione di pazienza e accettazione.


La fila di persone davanti a Palazzo Marino era proprio così, paziente e compiaciuta dell’opportunità di potersi trovare, di lì a poco, di fronte ad Amore e Psiche del Canova ed alla Psychè et l’Amour di  François Gerard.




La perfezione, l’armonia ed il senso di eternità di” Amore e Psiche stanti” si intuiscono in virtù della loro compostezza, delle linee combacianti e dello spazio occupato, dalle due figure,  in modo netto e raccolto, composto. E’ questo, credo, che dà senso di infinito, di una coscienza senza tempo; da tale impressione si è rimandati all’idea che la scultura che vediamo e ciò che riesce a trasmetterci sarà vero e valido per sempre. L’immortale Amore è umanizzato, credibile, vicino a noi e la mortale Psiche consegna la sua anima (la farfalla) nella mano di Amore da lei sorretta, tenuta, nella piena consapevolezza del reciproco trasformarsi. La naturalezza del gesto e delle espressioni dei volti incantano.
La visione del Gruppo scultoreo è suggestiva, appare leggero e morbido, il marmo riluce nel quasi buio della sala, lo sguardo è catturato e si è spinti alla contemplazione ed al silenzio; siamo davanti ad un mito, si avverte pienamente.

La bellezza di “Psyche et l’amour” di Gerard sembra derivare dalla perfezione, dalla pura sensualità dei corpi, dalla raffinatezza della rappresentazione del mito. Amore, invisibile, bacia Psiche, la quale incrocia le braccia sotto il seno a dimostrare la percezione di una forte emozione e di uno stupore che trapela dalle labbra socchiuse. E’ questa la prima opera che vediamo, colpiscono subito la delicatezza e la bellezza dei colori tenui, perfettamenti manifesti, nelle loro sottili sfumature, grazie al buio in cui è posto il quadro.

A completare il percorso espositivo vi è un interessantissimo video dove artisti, esperti, critici esprimono le loro idee ed impressioni sull’amore e la sue rappresentazioni. Considerazioni allo stesso tempo semplici e pregnanti come quella riguardante il confronto fra pittura e scultura: il quadro, a causa della sua bidimensionalità, risulterà sempre più enigmatico di una scultura che si propone, per la sua tridemensionalità, più coerente al nostro abituale modo di percepire visivamente la realtà. Oppure quando il massimo esperto  parla di  sensualità nell’arte, ad indicare il percepire con consapevolezza la vita attraverso i sensi, una missione umana che trova aiuto e rifugio nell’arte, massimamente nell’arte classica.
Niente di più sorprendente trovarsi in una città, percepita prevalentemente come motore produttivo ed economico, ed addentrarsi nei meandri dell’ Amore e della Psiche.

15 maggio 2016

"Dolce madre, più non riesco a tessere la tela" di Saffo



Dolce madre, più non riesco a tessere la tela
amore mi ha preso d’un giovinetto
e la molle Afrodite.
                       Saffo

di Fortunata Romeo
                               Cito a memoria, così come riaffiora nel ricordo, questo frammento di Saffo. Ho cercato invano la traduzione che riporto e di cui non ricordo l’autore. Ho deciso i proporla comunque, perché nessun’altra versione di quelle da me trovate, ha la stessa chiarezza espressiva .
Da molti anni, dai tempi del Liceo, conservo nella memoria e ancor più nel mio cuore questi  brevi versi, che non finiscono mai di commuovermi per la loro delicatezza e forza.
La considero  ancora oggi nell’età  e nell’epoca del disincanto, dopo infinite letture  sulle cose d’amore, una delle più tenere poesie sull’innamoramento.

In questo frammento  è riconoscibile tutta la maestria di Saffo nel tratteggiare immagini indelebili.
In tinte  tenui e vibranti  qui la poetessa dipinge la magia del sorgere dell’amore nell’animo umano.
Il  verso, dolce madre,  già è verso d’amore, amore per la madre, intriso di nostalgia, perché sta per lasciare il posto al nuovo sentimento che la giovane fanciulla annuncia.

Cogliamo nei versi successivi l’essenza dell’amore nel suo nascere con l’impossibilità di proseguire nell’ordinario, nella vita quotidiana, non posso più tessere la tela, dice la fanciulla, amore che dis-trae, conduce altrove, che impedisce di restare fedeli a ciò che si era,  che richiede l’abbandono di abitudini care.
Amore mi ha preso, di un giovinetto , altre traduzioni dicono, soggiogato, domato
l’innamorato è preso, soggiace, non sceglie, vittima  compiacente e complice di un evento ineluttabile, la cui causa è divina... e la molle Afrodite….
L’aggiunta di una personalizzazione dell’amore nella figura della dea che lo incarna, suggerisce  senza necessità di altre parole, un’immagine di eccezionale bellezza e sensualità.
In una parola, nella dea, scorgiamo il carattere di amore.
E comprendiamo perché davvero continuare a tessere la tela non è più possibile, se l’amore ci ha presi.






14 maggio 2016

"Francesco Orlando: un maestro" di Davide Pugnana




Una volta, non ricordo dove, Giovanni Testori ha scritto che Roberto Longhi era un "maestro" perché, guardando le opere di Piero della Francesca e di Caravaggio, era divenuto per sempre e fatalmente impossibile non sentire la pellicola delle sue parole depositata sopra quelle tele, come una velatura.

Lo stesso principio di magica imprescindibilità vale per chi, come me, è stato allievo di Francesco Orlando: dopo averlo ascoltato, nel corso della sue lezioni ed "esercitazioni", e dopo averlo letto, nessuna pagina di letteratura può più prescindere dal suo sguardo di lettore e dalla sua scrittura saggistica.

E' come una striatura perlacea, una bava di lumaca, un ectoplasma senza possibilità di esorcismo: la parola del "maestro" è un atroce e bellissimo segno d'amore che si materializza tra te e il testo letterario.

13 maggio 2016

" Io vivere vorrei ..." di Sandro Penna



Io vivere vorrei . . .
Io vivere vorrei addormentato
Entro il dolce rumore della vita
                            Sandro Penna
                             
di Gianni Quilici
E’ una poesia da leggersi ad occhi chiusi lentamente
per cogliere la semplice e complessa profondità
di un desiderio, almeno apparentemente, contraddittorio,
dormire e vivere,
che in Penna diventa desiderio di fusione
come se il corpo nel sonno sparisse
ma rimanesse vivo, scevro da ogni pesantezza
nel “dolce rumore della vita”.

Poesia epigrammatica che coglie poeticamente quel sottilissimo desiderio
in un distico ricco di consonanze
che infondono quella sonorità onirica
che lo stesso senso richiama.
Una di quelle poesie da imparare a memoria
e da recitare tra sé e sé o alla persona amata 

12 maggio 2016

“Ai nobili del circolo della caccia” di Pier Paolo Pasolini




Ai nobili del circolo della caccia
Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini:
       ora un po’ esistete perché un po’ esiste Pasolini.  
                                    da “La religione del mio tempo”

Invettiva che diventa poesia!
C’è la musicalità della rima baciata
in due versi lunghi e oppositivi
che hanno altre sonorità
anafore che si rincorrono.
Soprattutto vive non l’odio
ma una tensione contro,
una tensione che si avverte morale
e che lascia risonanze
                                 Gianni Quilici
 

10 maggio 2016

"Ceserana. Viaggio in Garfagnana" di Gianni Quilici


                                                                     foto Gianni Quilici

Mattina solare. Obiettivo  Ceserana, paesino della Garfagnana,  già visitato diversi anni fa,(qui sopra la foto anno 2004), di cui conservo un’immagine che vorrei rivivere.
Credo che il viaggio diventi tale, quando si riesce a viverlo come aspettativa, come sentimento. In più il sottoscritto ha bisogno di scolpirlo con immagini e parole. Gli scatti fotografici sembrano apparentemente più facili, ma non se  si cerca l’espressività, il senso, l’eventuale poesia. Le parole sono sempre difficili e quindi faticose.
La luce si accompagna al viaggio, se non che a Borgo a Mozzano una lunga fila, una di quelle, che procedono per avanzamenti graduali. La causa? Lavori in corso scopriamo. In queste situazioni bisogna avere una pazienza cinese, eventualmente utilizzando un consiglio di Umberto Eco: utilizzare tutti gli interstizi, soprattutto quelli di un’attesa obbligatoria, per lavorare con i pensieri. Prendo il taccuino e scrivo, poi correggendola, una poesiola fantasy che recita così:
Voglio fortissimamente voglio
volare oltre la fila
come se fossi un effetto speciale
scendendo sulla strada
con l’eleganza del rallenty
portando con me
la stupefazione di tutti
gli automobilisti quanti
 
                                                      foto Gianni Quilici
Qualche Km prima di Castelnuovo Garfagnana, a Fosciandora, una stradina a destra e poi subito a sinistra porta a Ceserana. La strada è tipicamente garfagnina: si inerpica stretta, con l’ansia, in certi tratti, di  vedere, dopo la curva, un’altra macchina.
Una breve e ripida discesa ed ecco il parcheggino di Ceserana. Nessun cartello durante il viaggio che segnali la rocca, neppure lì all’inizio del paese, tanto che inizio a pensare “ma mi sarò sbagliato”. Anche perché il paese non ha niente di straordinario. Una via che sale, qualche raro palazzo, un lavatoio in buono stato, una fontana incorniciata. Quando dalla galleria di una casa ecco la rocca! E questa merita il viaggio.
 
                                                      foto Gianni Quilici
La rocca si erge sopra il paese magnifica nello sfondo di colline verdeggianti, stretta da  piccole mura ondeggianti con  torretta. Della rocca, che fu un importante presidio militare,  è rimasta quasi soltanto la chiesa romanica di S. Andrea del XII-XIII secolo, con il suo bel campanile.
Salgo. Della chiesa mi piacciono le pietre in calcare bianco disposte a filaretto, l’abside semicircolare con capitelli decorati da geometrie floreali e, in un caso, da figure umane: un prelato che consegna ad un pellegrino il bordone.
 
                            foto Gianni Quilici
Ma soprattutto è il campanile di pietre e mattoncini scuri con orologio bianco, che poggiando su una struttura di base più  ampia, si slancia e si impone allo sguardo creando una commistione singolare tra il religioso (la chiesa) e il laico (le mura).
 
                                                         foto Gianni Quilici
La rocca non sembra curata. L’erba è cresciuta alta e rigogliosa e certamente ora, in questa primavera avanzata, conserva  una sua bellezza selvaggia.
Solo il camminamento intorno alle mura di sassi tondi è libero da essa. Ecco un pozzo, l’abside, una feritoia e poi scendendo l’unica bella torretta rimasta.  Tutto intorno a 360°, a parte il vicino paese La Villa, colline e montagne ricolme di un verde fronzuto.
Mi siedo su un muretto: vedo una lucertola che guizza via, assaporo il venticello tiepido nella luce già alta, sento, come in un romanzo agreste, il cinguettio vicino di passerotti e il chicchirichì di un gallo più lontano, quando  ecco inaspettati i rintocchi dell’orologio. Uno, due, tre, quattro, cinque più un mezzo tocco. Sono le 11.30. Il tempo… questa maledizione!  
   
Ceserana. Lunedì 4 maggio 2016.

08 maggio 2016

"La scelta" di Ilaria Stabile



Forse troppe volte ci sentiamo obbligati ad una scelta definitiva che ci sottragga al caos dell'indistinto, che ci protegga da ciò che nel conosciuto non conosciamo, da ciò che ci fa paura perché suscettibile di evoluzioni imprevedibili. Imprevedibili. Questo è il punto.


Una scelta. Sarà poi una scelta questa? …o forse un semplice modo per dire un basta che però, a ben guardare, non è una fine reale della sofferenza ma un riproporla con drammi, contenuti, parole e toni differenti, camuffati, perciò difficili da smascherare.

La scelta ci assilla e si insegue il cambiamento. Termini da cui la bocca è inflazionata tanto che non riesce più a mangiare per il tanto…continuo…incessante…sfibrante…alienante…ruminare. Si crede che la scelta ci possa mostrare orizzonti differenti, mezzi e strumenti nuovi per guardare alla vita, nuovi occhi addirittura con cui vedere. Questa è la scena dello spot che continua beffardo a correre sui binari vecchi e stridenti della nostra mente.

Questa scelta è, ahimè, essa stessa incapacità a vedere, un vacuo tentativo di assumere un umore differente che possa guidare il nostro corpo verso diverse percezioni, solo uno spogliarsi di vecchie cose che, abbandonate così violentemente, possono solo resuscitare in forme diverse, più mostruose. Con queste  scelte ci sentiamo più forti perché si accompagnano ad uno stranissimo…sottile…silenzioso…seducente…sentimento di padronanza verso il destino rispetto a cui si crede di star agendo ma, a volte, è il desiderio di sentirsi padrone di qualcosa a guidare le nostre scelte che, così, divengono solo l’espressione esasperata di questa ricerca, a volte incontrollabile, di essere.

Non è così. Lo scenario è uno spot. La verità nascosta. La realtà rovesciata. Tiriamo il freno. I binari stridono, il treno fatica a fermarsi, gli ingranaggi non si toccano da troppo. Ecco, ci si ferma. Il percorso si inverte e la corsa rallenta.

A partire da un'umile consapevolezza di quel che si è, da una vago sentire di quel che si vuole essere e dalla fede in quel che si tenta di raggiungere, deve effettuarsi una scelta e, laddove questa riesca a incarnare il desiderio soggettivo, più autentico, semplice e originario, presentifica se stessi al mondo. E' solo da questo che può derivare un duraturo, profondamente proprio, sentimento di padronanza, di legittimità e di sostegno che deriva dall’aver saputo nel modo più proprio direzionare la propria vita, affidandola a te e al caso.

Ma il più della volte le cose non vanno così. Tra l'andare indietro e l'andare avanti, c'è la sottile linea di mezzo. C'è la sosta o peggio la fermata. E ci si affida a scuse. Non solo non riusciamo a vedere la realtà ma ci ostiniamo nel sopore di noi stessi, per non guardar le nostre parti più deboli, vergognose, umilianti. Umane. L’impossibilità, dunque, a proferire parola che possa rendere il nostro vivere visibile al mondo, comunicabile agli altri e palpabile a noi stessi, spesso troppo spaventati per vedere le ipocrisie e i rimandi che esistono nella nostra mente.
Troppe bugie e troppi sotterfugi sono disseminati dentro ognuno di noi, ci fermano, giustificando la fermata.
Giugno 2001



07 maggio 2016

"La ragazza con l’orecchino di perla" di Tracy Chevalier



di Maddalena Ferrari


L’autrice è nata a Washington, ma dal 1984 vive in Inghilterra.
Il suo romanzo, da cui è stato tratto il film omonimo di Peter Webber, con Colin Firth e Scarlett Johansson,                                                                                                                                          
è intriso di spirito europeo, non solo per l’argomento e l’ambientazione, ma soprattutto per una sorta di adesione ad una cultura, ad una tradizione, quasi  che la scrittrice se ne senta figlia ed erede.

La storia è quella di Griet, giovane figlia di un rinomato decoratore di piastrelle di Delft, la quale, a seguito della perdita del lavoro da parte del padre, è costretta a fare la domestica nella casa del grande pittore Jan Vermeer. Tra la ragazza e il pittore c’è un rapporto di fascinazione, che rimane represso, per motivi sociali, a cui si aggiungono le peculiarità caratteriali dei due personaggi.

Lei è da subito attratta dall’uomo: parla di “lui”, narrando in prima persona; il suo racconto,
fatto in uno stile scarno, lascia trapelare la sua intelligenza, la sensibilità, l’affettività ed anche il gusto estetico: è una giovane donna dalla personalità più complessa di quanto lei stessa sia consapevole e sente il peso di una condizione sociale culturale e di genere subordinata; non senza reagire a volte con energia. Oggetto delle attenzioni volgari di un ricco protettore dell’artista, che vorrebbe approfittarsi di lei, riesce a salvarsi,  grazie a una scelta, che la rinchiuderà in un ruolo convenzionale.

Lui vive in una casa borghese, circondato da donne: la moglie, con cui la protagonista ha un rapporto conflittuale, e ciò appare abbastanza scontato, la suocera, autorevole e autoritaria, quasi protettiva verso Griet, le figlie, le domestiche...Vuole tenere separati il mondo dei legami familiari e quello dell’arte, dove è e vuole essere solo e diverso, nella sua ricerca maniacale della perfezione; Griet rientra in questo mondo di arte e rischia di sconfinare nell’altro, ma, quando ciò sta per succedere, l’artista si ritrae.
Ad entrambi i personaggi manca il coraggio.

Le dinamiche dei rapporti interpersonali narrate nel romanzo sono motivate, anche se, in parte, prevedibili . Il ritratto di Vermeer  risulta affascinante, nel suo egoismo, nella sua pavidità, nella ricerca continua dei modi e delle tecniche per assecondare l’ispirazione. La ricostruzione storico-ambientale è accuratissima e riesce a comunicare la concretezza quasi tattile di luoghi ( Delft e i suoi canali, le case ) e di oggetti. La scrittrice è capace di dare vita ad un mondo, ad una società del passato ed anche di rendere credibile l’antefatto di un quadro, oltre che bellissimo, misterioso: una giovane donna, vista quasi di spalle, si sta voltando verso di noi, come ad un richiamo, e ci guarda, sorridendo appena, con la bocca socchiusa; l’abbigliamento, anche se inconsueto, è ordinario; ma all’orecchio sinistro splende una perla preziosa.    

Tracy  Chevalier. La ragazza con l’orecchino di perla. Traduzione di  Neri Pozza

06 maggio 2016

"Le migrazioni" di Liou Xiaodong



di Maria Teresa Landucci

Liou Xiaodong, uno dei pittori cinesi viventi attualmente più noti in madrepatria, è stato invitato dalla Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze a riflettere e lavorare sul tema delle migrazioni ed in particolare sulla comunità cinese di Prato, la più grande d’Europa.

 Il frutto della riflessione di Xiaodong è ora in mostra alla Strozzina: una serie di tele di grandi dimensioni, accompagnate da un video che documenta l’esperienza dell’artista e la genesi delle sue opere.

 Xiaodong è ospite in Toscana fra l’autunno 2015 e la primavera del 2016, qui entra in contatto con la comunità cinese di Prato e da lì parte per allargare la sua riflessione oltre i nostri confini, verso altre zone europee coinvolte dai flussi migratori. Xiaodong compie un vero e proprio viaggio di avvicinamento alle zone calde dell’ingresso in Europa, ma a ritroso, rispetto alle rotte dei flussi migratori. Toccando Vienna, Xiaodong si reca nell’isola di Kos per conoscere e vivere fra i profughi siriani, fino a spingersi sulle coste turche, animato dal desiderio di ritrovare la spiaggia dove Aylan, migrante di 3 anni, abbandonò il proprio corpo nel settembre 2015.

Questo è il viaggio compiuto dall’artista, questa la genesi delle undici grandi tele esposte alla Strozzina. Xiaodong propone una pittura che è sintesi tra esigenza documentaria ed interpretazione espressiva della realtà.

Con gli occhi del cronista, studia il presente, ricerca il contatto diretto, congela le visioni in immagini fotografiche, che sono il punto di partenza del suo processo creativo. Con la sensibilità dell’artista rielabora, seleziona, sintetizza l’immagine fotografica, la traspone sulla tela, talvolta cogliendo ed evidenziando dettagli, talvolta asciugando l’immagine stessa.

Il lavoro di Xiaodong è un lavoro en plein air, davanti al soggetto, dentro il soggetto. In Chinatown 4 ad esempio, l’artista coglie un momento di vita all’interno di una azienda cinese in Prato, dove lavoro e svago, attività e riposo sono interconnesse e convivono nella stessa cultura. Nella sua pittura i gesti di vita quotidiana acquistano così grande dignità, fino a divenire gesta eroiche.

Xiaodong ci propone quindi una sorta di diario di viaggio, documentato da immagini fotografiche, appunti e disegni che trovano la sintesi nelle grandi tele da lui dipinte. Il suo pennello sceglie, evidenzia, seleziona, enfatizza o sfuma. La sua pittura è una pittura in bilico fra realismo di cronaca ed espressionismo emotivo. Una pittura di strada, comunque, in stretto contatto con il soggetto, quasi le sue tele fossero istantanee di vita vissuta, ma amplificate e caricate di pathos.

Quale il fine di Xiaodong, se non quello di creare un ideale ponte fra le culture, un percorso di avvicinamento reciproco, di scambio a metà strada, in cui l’arte possa assumere il ruolo di interprete fra linguaggi diversi o di mediatrice, tramite l’utilizzo dell’idioma universale dei segni e dei colori?

03 maggio 2016

"Quell'aprile del 1966 morì Paolo Rossi . . . "


      e scoppiò la rivolta

di Piero Sammartino
  
Il 1966 è stato un anno cruciale per la nascita di quelli che saranno poi i movimenti studenteschi. Credo, però, che difficilmente un giovane lettore che non abbia vissuto quegli anni potrebbe capire cosa accadde all'Università di Roma in quella primavera e ancor meno il significato del manifesto a lutto con il volto di Paolo Rossi, lo studente di Architettura morto in uno scontro coi neofascisti.
 

Bisognerebbe ripercorrere fatti e ragioni dei primi anni sessanta per spiegare come sia potuta nascere e che cosa sia stata l'ondata del movimento giovanile nel 1968, e quali ne siano stati i diversi sbocchi. A Roma una tappa obbligata di questo percorso è l'occupazione dell'Università nel '66 subito dopo la morte di Paolo Rossi. Le vicende romane si intrecciano con i primi segni di crisi dei cosiddetti parlamentini, gli organismi rappresentativi degli studenti (a Roma Orur e su scala nazionale Unuri) ed è indubbio che abbiano predisposto gli studenti a una nuova fase politica.

Non sono mai state del tutto chiarite le circostanze della morte di Paolo Rossi caduto o piuttosto sospinto da un pianerottolo privo di parapetto in cima alla scalinata della facoltà di Lettere. La morte di Paolo fu il culmine delle consuete aggressioni che gruppi di universitari neofascisti muovevano ai primi esponenti dei movimenti giovanili democratici che si affacciavano all'Università di Roma, considerata la roccaforte della destra. Le indagini non accertarono i diretti responsabili ma subito emerse agli occhi di tutti la responsabilità oggettiva di chi tollerava o incoraggiava il clima di violenza e di sopraffazione che regnava all'Università di Roma. E' vero che i tafferugli di Lettere avvennero subito dopo le elezioni che vedevano la sconfitta delle liste neofasciste. E' vero anche, purtroppo, che non mancarono brogli in quelle elezioni e giovani appartenenti a formazioni democratiche e di sinistra furono coinvolti in processi che stabilirono le loro responsabilità. Ma forse non emerse tutta la verità. A sinistra restò sempre il dubbio che negli ambienti neofascisti qualcuno sapesse di più sulla morte di Paolo.

Il primo ricordo che mi è affiorato alla mente è stato il vigore rassicurante di due edili romani che mi sollevarono sulle spalle come un fuscello per attaccare il manifesto listato a lutto sul marmo liscio e nero del basamento della Minerva. Era il 28 aprile del 1966. fino a quel momento avevo avuto un po' di paura ad aggirarmi per l'Università con due rotoli sotto il braccio, secchio e pennello dall'altra parte, affiggendo a decine quei manifesti accanto agli ingressi delle facoltà o sulle lastre di travertino bianco per coprire qualche scritta ignobile, o sul muro di cinta in laterizi gialli dell'Università, che allora era solo l'Università e che solo anni più tardi seppi che si chiamava “La Sapienza”. Avevo paura ma sapevo che volevo farlo perché ero un giovane socialista ed un mio compagno era stato ucciso dalla “teppaglia fascista”.
Quando però quei due omaccioni della Fillea romana (edili Cgil) mi presero per le gambe e mi issarono d'un soffio sulle loro spalle capii che stavo al sicuro e insieme alla insolita sensazione di leggerezza del mio corpo che volava, in quel giorno segnato da tristezza e rabbia, provai per un attimo la gioia di militare in un partito operaio come ancora poteva definirsi il Psi.

Fu così che potei attaccare abbastanza in alto quattro di quei manifesti sui quattro lati del basamento della Minerva mentre i primi gruppi di studenti e cittadini si assiepavano sulla piazza. Erano le prime ore del pomeriggio e già la piazza si andava riempiendo con largo anticipo sull'orario fissato per la commemorazione funebre. 


Walter Binni, professore di Letteratura italiana nella stessa facoltà di Lettere, tenne un discorso memorabile a una folla immensa che gremiva la piazza come non ho mai più visto. L'orazione funebre di Binni meriterebbe di entrare in un'antologia come esempio di prosa civile. Chissà se ne esiste ancora un testo da qualche parte? Pezzo asciutto e appassionato con pochi cedimenti alla retorica, duro atto d'accusa contro la gestione del Rettore Giuseppe Ugo Papi, connivente coi neofascisti, terminava con la richiesta perentoria, direi quasi con l'intimazione, delle sue dimissioni. Io almeno ricordo così. Mi colpì, fra l'altro, l'invito agli studenti a non rivolgersi mai più con l'appellativo di “Magnifico” al Rettore, infrangendo una tradizione considerata un obbligo, neanche nelle rituali domande in carta da bollo, sfidandone l'invalidazione. Quando inizia la manifestazione si sa già dell'occupazione di Architettura e, prima che finisca, giunge voce che è stato occupato l'Istituto di Matematica e che ad uno ad uno sarebbero stati occupati tutti gli altri edifici dell'Università con il proposito di costringere il Rettore alle dimissioni. La sera prima, l'occupazione tentata dagli studenti di Lettere subito dopo la notizia della morte di Paolo era finita con un brutale sgombero della polizia sollecitato o comunque consentito dal Rettore. Era chiaro che si andava a una prova di forza dall'esito ancora molto incerto.
Le occupazioni a catena erano state decise e condotte da gruppi spontanei che, a quanto mi risulta, non obbedivano a una strategia dei partiti o dei movimenti giovanili.Quella stessa sera o forse la successiva, partecipai a una riunione del Centro Universitario Socialista, al quale era stato iscritto anche Paolo Rossi. L'incontro si teneva proprio con lo scopo di cercare di ricondurre alla guida delle forze politiche organizzate un movimento spontaneo. Analoghi incontri e riunioni si ebbero certo anche in altre organizzazioni politiche la cui presenza col passare dei giorni si faceva sempre più forte e influente mentre cresceva l'adesione del popolo dell'università e della città. Si racconta di un cattedratico che non si rassegnava a consegnare il suo Istituto a quei giovani fannulloni che gli avevano comunicato l'inizio dell'occupazione e che domandava con stizza se avessero fatto l'esame di Analisi Matematica. Con trenta e lode, rispondevano quei fannulloni. E qualche giornalista cominciò a chiamarla l'occupazione dei trenta e lode.
 


Dopo sei giorni di mobilitazione fu organizzata l'Assemblea generale nell'Aula prima di Legge presieduta da Nuccio Fava, dell'Intesa (l'organizzazione degli universitari cattolici) Presidente della giunta Unuri, con la partecipazione di esponenti della politica, personaggi accademici e rappresentanti degli studenti. Per l'Unuri, oltre a Fava c'era Marcello Inghilesi, socialista dell'UGI (L'Unione Goliardica Italiana, che comprendeva comunisti e socialisti), ma erano presenti anche altri volti noti della politica nazionale. Ricordo l'affanno di Pietro Ingrao che cercava di farsi largo nello sbarramento del servizio d'ordine finché qualcuno non lo riconobbe.
Al momento dell'assemblea però il Rettore si era già dimesso e bisognava decidere se interrompere o no l'occupazione. Dopo i primi giorni di lotta che avevano visto crescere il consenso di tutti i settori dell'Università, della popolazione cittadina e di gran parte della stampa, al sesto giorno di paralisi, cominciava ad affiorare qualche insofferenza interna allo stesso fronte degli occupanti, ma anche nella città, chi preoccupato per gli esami chi per il lavoro chi per la pace sociale. Difficilmente si sarebbe mantenuto lo stesso consenso dell'opinione pubblica se l'Università fosse rimasta occupata anche dopo le dimissioni del Rettore. Dopo il primo sgombero di Lettere la polizia si tenne però opportunamente fuori dall'Università in quell'epica settimana.

L'assemblea si svolse ordinatamente ma fu carica di tensioni e di emozione. Da una parte le forze politiche organizzate che avevano ripreso le redini del movimento e la maggior parte degli studenti e dei docenti che avevano partecipato all'occupazione o si erano aggiunti nel corso dei giorni. Dall'altro lato i primi gruppi estremisti fra i quali i cosiddetti marxisti-leninisti a cui si saldava però qualche settore più radicale dell'Università che raccoglieva anche molti studenti e docenti indipendenti. Furono presentate due mozioni. 


La prima, a favore della smobilitazione e della ripresa delle normali attività, fu sostenuta dal giovane prof. Tullio D Mauro che, visibilmente emozionato, tentò di trasmettere il suo sentimento all'assemblea intercalando al suo discorso un po' enfatico una frase a effetto: “si è dimesso!”. 

La seconda mozione, caldeggiata dai marxisti-leninisti ma sostenuta in assemblea dal ricercatore Giorgio Morpurgo, propugnava di mantenere l'occupazione fino a costringere il governo ad approvare la riforma dell'Università giudicata ormai a portata di mano. Ci furono diversi interventi. Ricordo la particolare efficacia delle parole di Inghilesi che richiamò i più ad un pacato ragionamento politco sulle motivazioni e sull'esito dell'occupazione parlando a favore della mozione De Mauro.
 

La votazione risultò a favore di questa, ma molti uscirono scontenti e convinti di aver perduto un'occasione irripetibile.
 

Il giorno dopo, lunghissime code all'economato, testimoniavano l'ansia di molti studenti per una sessione d'esame che pensavano di poter perdere. Ma nelle domande d'esame, il cui termine del 30 Aprile fu spostato di qualche giorno, molti da allora in poi si rivolsero al Rettore senza altri appellativi.