Due secoli di fotografia ci hanno insegnato che in uno scatto gran parte del senso è riposto, o meglio, felicemente sbilanciato, nella zona cruciale del 'non visto': l'immagine vive, si prolunga e ramifica oltre il campo visivo della messa a fuoco; e questa apertura vale come trasgressione di tutti i confini visibili della forma artistica, qualunque essa sia, ed è ciò che alimenta l'interpretazione di chi osserva e partecipa ad aggallare il 'non visto'.Questo principio è il fulcro della foto: la suggestione (e impostazione) iconica del guardare in basso unita a quel preciso movimento inclinato delle spalle, suggerisce quella pensosità nata dalla calibratura dei pesi del corpo: fuori campo, il piede e la gamba stanno per comporsi in tensione armonica; l'arco della schiena si prepara a bilanciarsi in una curva elegante, la sola che possa ruotare sul proprio asse;e forse, poco discosto, c'è l'asse degli esercizi e lo specchio; o forse è già il liberarsi senza ostacoli delle evoluzione nello spazio.Il 'non visto' oltre il fuoco visivo - cercato dal fotografo in un momento avanzato del processo creativo - evoca così il gesto della ballerina, proprio come i disegnatori e i pittori occidentali (i Degas, i Lautrec, i Francesco Messina ecc), oltre che i fotografi, ce l'hanno restituita: con quella particolare torsione del collo e degli occhi e delle braccia, che vengono a costituire i 'puncutum' fissi della danzatrice, nell'arte e nell'immaginario.Sono i semi fecondi del "pensiero in figura" che sempre dalla pittura trasfondono nella fotografia.A commento di questa foto e per spingere fino in fondo il dialogo tra linguaggi artistici, lascio la parola ad una grande poetessa, Nori Fornasier: "Affilato compasso/ il tuo passo deciso/ fissa ora un punto / ruota ampio su se stesso./ Cerchio perfetto oggi/ il mondo che percorri / sulle punte dei piedi/ in un unico volo / senza fermarti."
...si anch'io ho pensato alla posa delle ballerine...forse nel gesto inconsueto di un riposo apparente...il detto del non detto...il visto del non visto...ma l'emozione passa e noi con lei guardiamo un abbandono sognante e delicato..peccato leggermente sfuocata..ma la bellezza del gesto supera l'imperfezione tecnica..perchè l'intestità emozionale supera la logica...come i più bei ritratti i difetti diventano bellezza e arte..
Diceva il pittore Donizzetti che l'arte è la capacità di far funzionare gli errori; e portava come esempi i molli e sensuali nudi muliebri di Rubens e l'allungata odalisca di Ingres, entrambi "sbagliati" anatomicamente, come la Venere botticelliana priva dello scheletro, che Longhi assimilava ad un' "alga insinuata dalla corrente" L'equilibrio massimo è tra sapienza tecnica e realismo visionario; se c'è fusività tra questi due piani il dilettantismo diventa 'superiore e scompare.'Per questo ho tirato in ballo l'oltre-focus dello scatto e ciò che esso andava a smuovere, come archetipi, nell'immaginario. Se si ha desiderio di percorrere il territorio della percezione estetica occorre sempre accettare la vertigine della caduta oltre la forma. Quando non avviene significa che siamo nella decorazione o nell'arabesco calligrafico di basso livello..
30 agosto 2012
"Chiara Giromini" foto di Isabella Eugenia Monti
21 agosto 2012
Una foto di Robert Doisneau
di Gianni Quilici
Tra i fotografi del ‘900 Robert Doisneau non è il più grande, ma
forse il più poetico, quello che coglie e scolpisce straordinariamente la
misura del vivere quotidiano.
Nelle sue foto non ci sono i
grandi avvenimenti della Storia; ci sono le microstorie di bambini
(soprattutto) e adulti del popolo parigino fotografati in movimento con ironia
e affetto e grande capacità compositiva.
Prendiamo questa foto. E’
adorabile. Lo è immediatamente al primo sguardo, senza bisogno di
approfondimenti. Per il violoncello –curioso- che galleggia sull’acqua nella sua
classica eleganza; per la testa (e l’ombra) del giovane, che sbuca dall’acqua,
in cui è immerso con lo sguardo sorpreso e un po’ parodistico; per le forme
concentriche formate dalle acque come sfondo, che tutto avvolgono.
Una foto essenziale, perché
pochi e netti sono gli elementi che entrano in gioco.
Una foto ironicamente,
affettuosamente bizzarra, perché inconsueta è la scena rappresentata.
Una foto poetica che colpisce
gli occhi, ma anche li anima.
20 agosto 2012
"Carne" di Angelica D'Agliano
foto di Gianni Quilici
Questo racconto di Angelica D'Agliano è stato scritto appositamente per un incontro -spettacolo "Vedrai vedrai... Vedrai che cambierà" realizzato durante la Festa di SEL Piana di Lucca, con il proposito di collegare la Parola con la Musica, dando un Senso alle une e alle altre.
Angelica ha scelto la parola Carne ed ha lasciato trasparire il suo pensiero attraverso un racconto, il racconto che possiamo leggere qui sotto.
"Carne" è un racconto secco, di una secchezza dolorosa e implicita ed ha un andamento dialettico-musicale. Per un verso il bimbo (immaginiamolo in un film) appare immobile, statico ("si lasciava vestire"); per un altro invece è mobilissimo: noi leggiamo nei suoi pensieri un misto di disgusto (per un padre "perfetto", per il taglio dell'anatra naturalmente "perfetto") e di pietà (per i piccioni). Tutto questo attraverso dettagli precisi e associazioni di pensiero conseguenti. La sintesi conclusiva giunge rapida e secca, e lascia risonanze. Tratteggia, in qualche misura, un destino.[Gianni Quilici]
Carne
Una domenica di sole un bambino si lasciava vestire per il pranzo
della festa. La tata, una tata bionda e misera e grassa, spiegava la
camicia sulla quale era ricamata una caravella e una fila di bottoni
faceva riflesso della luce e il riflesso odorava di glicine e gli
altri fiori secchi che riposavano in una coppa per rallegrare la
stanza. Il bambino sapeva che avrebbe sceso le scale e trovato un
tavolo grande, più alto di ogni altra cosa, e al confine del tavolo un
padre fragrante di colonia dal collo un po' strozzato da una cravatta
squisita e lucidissima. Egli avrebbe inciso un budino di brodo
ristretto e una volta giunti al culmine del pranzo avrebbe fatto
scoprire un vassoio e nel fumo sarebbe apparsa un'anatra incrostata di
sale e ancora sfrigolante; ed egli l'avrebbe tagliata nel senso della
lunghezza, dal cerchietto dell'ano fino alla gola e nel piccolo spazio
del corpo si sarebbe rivelata una pasta di formaggio e altra materia
speziata da mangiare col pane.
Sapendo tutte queste cose, che accadevano ogni domenica, il bambino si
lasciava vestire. La tata portava forcine dorate e parlava con una
voce e l'accento dei popoli dell'est. Quando si chinava il bambino ne
sentiva i movimenti, la morbidezza delle braccia da fornaia e le
ginocchia farcite grasso. Così la tata lo vestiva e gli mostrava una
nuca bionda e poca peluria sul collo. Quella domenica accadde che essa
starnutisse: piccole gocce di fresco si posarono sul dorso del piede
del bambino come un'acquasanta. La tata, che se ne accorse, pulì con
un lembo della manica e lunghi rintocchi suonarono dal campanile del
paese. In quel momento il bambino pensò alle passeggiate in piazza
nelle mattine incerte, quando il tempo è rancoroso e non si sa se
metterà a pioggia. Il bambino pensò a quelle passeggiate e provò
compassione per i piccioni, le uniche creature a lui note che avessero
un piccolo spasimo, come un tremito o una vergogna, ogni volta che
sporcavano di guano un cornicione o un monumento – e quasi senza
ragione, o forse per troppe, lo stomaco strinse un nodo che non poté
più essere sciolto.
Angelica D'Agliano
Questo racconto di Angelica D'Agliano è stato scritto appositamente per un incontro -spettacolo "Vedrai vedrai... Vedrai che cambierà" realizzato durante la Festa di SEL Piana di Lucca, con il proposito di collegare la Parola con la Musica, dando un Senso alle une e alle altre.
Angelica ha scelto la parola Carne ed ha lasciato trasparire il suo pensiero attraverso un racconto, il racconto che possiamo leggere qui sotto.
"Carne" è un racconto secco, di una secchezza dolorosa e implicita ed ha un andamento dialettico-musicale. Per un verso il bimbo (immaginiamolo in un film) appare immobile, statico ("si lasciava vestire"); per un altro invece è mobilissimo: noi leggiamo nei suoi pensieri un misto di disgusto (per un padre "perfetto", per il taglio dell'anatra naturalmente "perfetto") e di pietà (per i piccioni). Tutto questo attraverso dettagli precisi e associazioni di pensiero conseguenti. La sintesi conclusiva giunge rapida e secca, e lascia risonanze. Tratteggia, in qualche misura, un destino.[Gianni Quilici]
Carne
Una domenica di sole un bambino si lasciava vestire per il pranzo
della festa. La tata, una tata bionda e misera e grassa, spiegava la
camicia sulla quale era ricamata una caravella e una fila di bottoni
faceva riflesso della luce e il riflesso odorava di glicine e gli
altri fiori secchi che riposavano in una coppa per rallegrare la
stanza. Il bambino sapeva che avrebbe sceso le scale e trovato un
tavolo grande, più alto di ogni altra cosa, e al confine del tavolo un
padre fragrante di colonia dal collo un po' strozzato da una cravatta
squisita e lucidissima. Egli avrebbe inciso un budino di brodo
ristretto e una volta giunti al culmine del pranzo avrebbe fatto
scoprire un vassoio e nel fumo sarebbe apparsa un'anatra incrostata di
sale e ancora sfrigolante; ed egli l'avrebbe tagliata nel senso della
lunghezza, dal cerchietto dell'ano fino alla gola e nel piccolo spazio
del corpo si sarebbe rivelata una pasta di formaggio e altra materia
speziata da mangiare col pane.
Sapendo tutte queste cose, che accadevano ogni domenica, il bambino si
lasciava vestire. La tata portava forcine dorate e parlava con una
voce e l'accento dei popoli dell'est. Quando si chinava il bambino ne
sentiva i movimenti, la morbidezza delle braccia da fornaia e le
ginocchia farcite grasso. Così la tata lo vestiva e gli mostrava una
nuca bionda e poca peluria sul collo. Quella domenica accadde che essa
starnutisse: piccole gocce di fresco si posarono sul dorso del piede
del bambino come un'acquasanta. La tata, che se ne accorse, pulì con
un lembo della manica e lunghi rintocchi suonarono dal campanile del
paese. In quel momento il bambino pensò alle passeggiate in piazza
nelle mattine incerte, quando il tempo è rancoroso e non si sa se
metterà a pioggia. Il bambino pensò a quelle passeggiate e provò
compassione per i piccioni, le uniche creature a lui note che avessero
un piccolo spasimo, come un tremito o una vergogna, ogni volta che
sporcavano di guano un cornicione o un monumento – e quasi senza
ragione, o forse per troppe, lo stomaco strinse un nodo che non poté
più essere sciolto.
Angelica D'Agliano
19 agosto 2012
"Il sogno di un uomo ridicolo" di Fedor Dostoevskij
di Gianni Quilici
Racconto breve che il grande
scrittore russo pubblica nel 1887,
mentre era intento a scrivere I fratelli karamazov.
Inizia così:
"Io sono un uomo ridicolo. Adesso loro mi chiamano pazzo.
mentre era intento a scrivere I fratelli karamazov.
Inizia così:
"Io sono un uomo ridicolo. Adesso loro mi chiamano pazzo.
Sarebbe un avanzamento di grado,
se non mi trovassero sempre lo stesso uomo ridicolo.
Ma adesso non mi arrabbio più, adesso li amo tutti, e persino quando se la ridono di me, anche allora, mi sono particolarmente cari.
Io stesso riderei con loro, non di me stesso, ma per l'amore che gli porto, se non fossi così triste nel vederli".
Basta l'inizio per capirne lo stile travolgente.
Primo:
è scritto in prima persona in un rapporto diretto con il lettore, perché diretto e concitato è quello con gli altri, cioè il mondo.
Secondo:
questo rapporto è di tipo dialettico, perché sposta continuamente i termini delle questioni e delle visioni.
Ma continuando a leggere, il racconto si intreccia con il messaggio filosofico-ideologico: rappresentazione di ciò che l'uomo è e ciò che è stato o potrebbe diventare.
L'uomo- dice, in sostanza Dostoevskij- ha perso la sua innocenza, cioè la sua bontà, ma potrebbe, per quanto difficile, recuperarla [la sua innocenza, che è la sua (vera) felicità.]
Fedor Dostoevskij. Il sogno di un uomo ridicolo. Newton & Compton.
Ma adesso non mi arrabbio più, adesso li amo tutti, e persino quando se la ridono di me, anche allora, mi sono particolarmente cari.
Io stesso riderei con loro, non di me stesso, ma per l'amore che gli porto, se non fossi così triste nel vederli".
Basta l'inizio per capirne lo stile travolgente.
Primo:
è scritto in prima persona in un rapporto diretto con il lettore, perché diretto e concitato è quello con gli altri, cioè il mondo.
Secondo:
questo rapporto è di tipo dialettico, perché sposta continuamente i termini delle questioni e delle visioni.
Ma continuando a leggere, il racconto si intreccia con il messaggio filosofico-ideologico: rappresentazione di ciò che l'uomo è e ciò che è stato o potrebbe diventare.
L'uomo- dice, in sostanza Dostoevskij- ha perso la sua innocenza, cioè la sua bontà, ma potrebbe, per quanto difficile, recuperarla [la sua innocenza, che è la sua (vera) felicità.]
Fedor Dostoevskij. Il sogno di un uomo ridicolo. Newton & Compton.
17 agosto 2012
"Con il piombo sulle ali" di Eugenio Baronti
di Marisa
Cecchetti
Pubblicato
nel giugno 2011 il libro di Eugenio
Baronti non poteva essere più azzeccato per i tempi che allora stavamo vivendo,
presente ancora il governo Berlusconi, ma
continua a mantenere la sua forza anche perché non è cambiata la schiera
dei politici attaccati alle loro poltrone, dove si sono trovati magari senza
merito, e che difendono senza scrupoli. Del resto Baronti riconosce che già nelle Giunte comunali “sta
crescendo la categoria dei senza lavoro per i quali fare l’amministratore
diventa un mestiere come un altro, non per un tempo determinato, ma
possibilmente per tutta la vita”. Categoria che lui ritiene pericolosa, perchè
sono individui facilmente ricattabili, se non altro perché difendono la sopravvivenza economica
personale.
Militante
di Rifondazione, “dopo trent’anni di militanza politica attiva passata
all’opposizione…inaspettatamente catapultato dall’altra parte della
barriera…nominato assessore con deleghe e responsabilità amministrative assai
pesanti tra cui l’ambiente”, in un Comune, quello di Capannori in lucchesia, roccaforte della destra fino al 2004, poi nel 2007
assessore regionale della Toscana, Baronti
porta nel suo incarico passione e coerenza, vede i danni della cattiva
politica, indica strade nuove ed ha il
coraggio di percorrerle, subisce le conseguenze delle sue aperture, quando
queste contrastano con gli interessi del partito.
Davanti ad un popolo che ha trovato in Berlusconi il
suo modello culturale di riferimento, davanti a governanti che “giocano con il fuoco con il tema della
paura, trasformandola, irresponsabilmente, in strumento politico accumulatore,
lui sente che il modo di far politica deve
cambiare, che bisogna riprendere i contatti con la gente, perché “la nostra
imperdonabile colpa, come sinistra, è quella di aver abbandonato a se stesso
questo pezzo grande della società. Non siamo stati capaci di offrire strumenti
di difesa e quindi molti italiani sono stati completamente risucchiati dentro
il vortice del grande consumificio, il market globale di sogni e desideri che
li ha trasformati da cittadini a clienti”. Su questa linea si muove, cercando
di guidare verso il recupero di un equilibrio perduto, verso politiche che
contrastino la corsa all’accaparramento dei beni, che creano divari vergognosi
tra ricchi e poveri, in nome di un rispetto per le risorse naturali, al fine di
interrompere la prassi consolidata di vivere “a credito, attingendo
egoisticamente alle riserve destinate alle future generazioni”. Fondamentale
avvicinare di nuovo i cittadini alla cosa comune, sensibilizzarli e svegliarli
chiedendo suggerimenti e ascoltando problemi. Allora sì alla raccolta
differenziata, sì a progetto rifiuti zero, al ritorno dell’acqua pubblica nelle
scuole – perché per produrre le bottiglie di plastica si consumano enormi
quantità di greggio-, al recupero delle fontane. Sostiene un nuovo modello di
sviluppo che punti al recupero ed alla riqualificazione urbanistica, evitando
ulteriori sprechi del suolo.
Come assessore regionale lamenta il mancato
investimento in edilizia popolare, vede nel piano casa di Berlusconi “una
regalia elettorale al popolo delle villette”; in giro per la Toscana vede alloggi
finiti e non assegnati e divenuti fatiscenti, “mentre un migliaio di famiglie è
in lista d’attesa”; vede decine di alloggi per giovani coppie rimasti
abbandonati per 15 anni, vede cose che fanno tristezza e vergogna; ma denuncia
anche l’uso improprio della casa popolare, perché “l’assegnazione è sempre e
comunque considerata l’anticamera della
proprietà… e i sindacati insegnano come aggirare le leggi”.
Voce talvolta
scomoda quella di Eugenio Baronti, in una cultura del “tirare a campare” e del “ma chi
te lo fa fare”, in mezzo ad un individualismo dilagante e alla perdita di senso
della politica, per cui è difficile volare alti, le ali si appesantiscono di
piombo, talvolta anche di quello della parte amica. Guai, infatti, a pensarla
diversamente da chi controlla il partito
e decide. Non può derivarne altro che l’isolamento.
A
livello economico per Baronti bisogna incominciare “non solo a pensare, ma a
realizzare buone pratiche e azioni concrete che prefigurino già, qui ed oggi,
la prospettiva futura verso la quale vogliamo andare, avviando processi di
riconversione, riqualificazione, innovazione, per un’indispensabile opera di diversificazione produttiva capace di
creare nuova imprenditorialità, occupazione e nuova ricchezza sociale
Eugenio
Baronti, Con il piombo sulle ali,
Daris Libri 2011
"La nuova terra il tempo e i cinque sensi" di Paolo Tommasi
di Marisa Cecchetti
Un
testo di non facile interpretazione quello di Paolo Tommasi, direttore
d’orchestra e concertista europeo, che ha avuto prestigiosi maestri come Gaetano Giani Luporini e Sergiu
Celibidache, ed ora al suo esordio con la poesia. L’elemento musicale, la
sonorità e la rotondezza della parola attraversano i testi, dando voce a
immagini di forte rilievo cromatico, tattile, olfattivo: “I giorni migliori
precedono l’estate/quando nell’ultima frescura/si miete il grano/ e il sole
arrossa le ciliege/quando i papaveri/occhieggiano al vento sulle messi/e
l’ultimo temporale/ dilava la polvere
sulle more”.
Ma
non ci si illuda sulla trasparenza del significante. Infatti i versi di Tommasi non giocano su un aspetto lirico-narrativo ma
piuttosto lirico-emotivo, e rispondono ad una esigenza di percorso
intertestuale, come già indica il titolo, che rimanda a La terra desolata di Eliot, di cui ritornano parecchi elementi, in
primis la divisione in cinque parti e il recupero del mito. C’è la rinascita portata
dalla buona stagione: in Eliot è Aprile il mese più crudele dell’anno, perché
il suo rigoglio e il suo miracolo definiscono per contrapposizione la miseria
umana. In Tommasi “i giorni migliori sono quelli di san Giovanni”, “i giorni
migliori/ precedono l’estate”, mentre “Aprile
esausto dei segni restava sepolto/ dalla lava, dalle saette/dalle trombe dei
numeri sacri”.
La
poesia di Tommasi è carica di rimandi ad altri autori che si affacciano ovunque
dai versi, carica di simbologia pagana a cristiana, stillante carnalità e
forza. Il linguaggio da lussureggiante si fa sanguigno, ferrigno, il sangue di
cinghiali sgozzati e del marinaio morto è sangue sacrificale che diventa vita:
“Atena/mandò diciassette cinghiali/li dissanguarono/tutti,/senza eccezione, li
dissanguarono/dalle fosche giugulari alla femorale/quel venerdì/un giovane
dimenticando/sulla nave sbancata sulle sabbie…Il sangue bilioso/dalla poca
acqua sulla nave/coagulava sulla sabbia/tra minuscoli cardi. Era il pegno della
vigna”.
I
sensi sono desti e pronti a mordere la vita come fiere che stanno per
attaccare, perché il tempo scorre inesorabile: “Si è fatto buio ancora una
volta e troppo presto”, perché è indispensabile vivere il presente, l’assenza
ha un peso che schiaccia e non si possono recuperare i momenti del passato:“Potessi
riavere le parole di ieri/quando ti aspettavo/per riabbracciarti in quest’alba
furiosa/di sonno e di ricordi…Baciami ieri/nella notte di carezze lontane…la
promessa del tempo/è una finestra sulla notte/una clessidra di sogni/tra i
granelli di sabbia”. Un vento, ricordo dell’immanenza divina di luziana
memoria, passa attraverso i luoghi delle brutture e della paura e “ad ogni
curva/sembrava deviare/tra le ginestre e le zolle d’erba”. La gioia appartiene
al passato, che regala immagini di vita e di energia: “Correvamo insieme nel
vialetto,/insieme alle foto/sopra uno sgabello di legno/nel dolce autunnale
staccare frutta”; la violenza è di oggi ed anche il respiro del cielo si
raggela sulle messi “d’un tremito sul viso”.
La donna, nel precipitare di
tutto, è presente, punto saldo, Natura salvifica, madre e compagna: “Quando scoprendo le
foglie/i semi lenti vedessi attaccarsi alla terra/e buttare piccoli seni bianchi
e gialli/allora potrei pensare che stai arrivando”. E ancora: “Di nulla di
vento alla finestra usata/tra le tele tessute senza attesa/mordevi le labbra e
pensavi all’amore”. La donna-madre-terra
racchiude in sé la forza delle stagioni, perché “lo spirito della terra
sono le stagioni”.
Nel nascere e morire di tutto sta il senso della vita. Nella
consapevolezza e nella accettazione del continuum vita-morte-vita di
whitmaniana derivazione, sta l’unica apertura alla speranza, alla resurrezione
anche di questa umanità. Perché “La terra beve le lacrime dei vivi/e si nutre
del corpo dei morti”. Allora “Le cose ritrovano il giusto posto./Anch’esse
ritrovano la luce/dopo l’oblio e il giusto posto”. Forse la pace, shantih, che
Eliot ripete in chiusura ben tre volte?
Paolo Tommasi, La nuova terra il tempo e i cinque sensi,
ETS 2011
Iscriviti a:
Post (Atom)