27 novembre 2023

"L'uomo che suonava Beethoven" di Jean-Baptiste Andrea

 


UN LIBRO CHE NON VORRESTI MAI LASCIARE

di Marigabri

Scusatemi se ogni tanto ho lo sguardo un po’ assente.

I miei occhi hanno fissato troppo a lungo regni dimenticati.”

        È la storia di Joseph, un uomo che suona il pianoforte per strada, soprattutto alle stazioni e negli aeroporti, nell’attesa di vedere comparire come per magia il suo primo e mai dimenticato amore.

        Leggendo scopriremo perché Joseph suona solo Beethoven e scopriremo che la storia di quel primo amore non è l’asse portante di tutta la vicenda, ma lo è la forza e il coraggio dei vincoli di amicizia nati dall’esperienza comune del dolore e della sopraffazione. Dalla resistenza e resilienza.

         Vedremo un mondo di adulti che traducono in sadica crudeltà le profonde ferite della loro anima e un mondo di bambini e adolescenti che tentano di spezzare le catene che li costringerebbero a seguire la perversa strada intrapresa da quei falsi educatori.

        Storia, personaggi e scrittura costituiscono un amalgama talmente equilibrato che difficilmente si riesce a staccarsi dallo scorrere delle pagine e quando è necessario farlo la nostalgia per Joseph e compagni nutre il desiderio di riprendere al più presto l’avventura.

       Insomma: ecco un libro che non vorresti mai lasciare e che non vedi l’ora di ricominciare.

      Perciò nessun cenno sulla situazione e tanto meno sulla trama…così ogni pagina sarà un’avvincente e sorprendente esperienza di lettura.

     Jean-Baptiste Andrea. L'uomo che suonava Beethoven. Einaudi


UN RACCONTINO SCIATTO E INCONSISTENTE

di Marigabri

 Un raccontino sciatto e inconsistente che risolve alla svelta la spinosa questione del fedifrago Sebastiano.

      Siamo lontani dall’epica di Rocco, dai dialoghi brillanti e dalla complessità delle trame a cui siamo abituati.

Qui Manzini ha fatto il compitino, ha buttato giù due battute porche e Sellerio se la gode.

Che pena.

 

23 novembre 2023

"Chi ha paura dei Greci e dei Romani?" di Maurizio Bettini

 

di Carla Rosco 

     Maurizio Bettini (1947) classicista e scrittore, Direttore del Centro Antropologia e Mondo Antico dell’Università di Siena, ha il dono della chiarezza e di una verve narrativa che fa attraversare i suoi libri con grande facilità e piacere.

      L’ultimo suo libro è “Chi ha paura dei Greci e dei Romani - Dialogo e cancel culture”. Per l’autore il dialogo con chi ci ha preceduto va sempre mantenuto perché il dialogo è tutto nelle relazioni umane e sociali. Dialogo con i contemporanei e con chi ci ha preceduto.

      Il fatto è che viviamo in una società che sente di essere in un presente mai conosciuto fino ad ora, forte di una tecnologia sempre più vigorosa e sofisticata, per cui la tentazione di chiudere il dialogo con il passato o di ridurlo al minimo c’è. Si tratta però di un presente fragile e minaccioso: “Come sappiamo in tutto il mondo dagli schermi sgorgano fiumi di fiction, filmati o videogiochi interamente costruiti su sesso, pornografia, violenza, torture, smembramenti, e così via. Di questo planetario (e spesso ripugnante) flusso di immagini cui sono esposte milioni di persone, donne e uomini, bambini e anziani, nessuno sembra dire una parola: mentre nelle università i professori se la prendono con Ovidio ... Di recente una scuola superiore del  Massachusetts ha eliminato dal curriculum addirittura la lettura dell’Odissea, in quanto sessista”.

    La cancel culture è un fenomeno che riguarda soprattutto l’area anglosassone, bisogna però riconoscere che quelli che esaltano la ricchezza dell’eredità classica  in genere ne fanno un uso selettivo: per esempio va bene l’Eneide di Virgilio o la Poetica di Aristotele, ma non le pagine della Politica in cui Aristotele pretende di definire le caratteristiche di quelli che erano schiavi per natura.

     Esiste anche una corrente di studi che considera la cultura classica non la cultura per eccellenza , ma una cultura fra le altre, e che propone quindi riflessioni comparative. Occorre evitare che il giudizio morale si sostituisca alla riflessione storica, al bisogno di approfondire, di capire.

       Approfondendo si possono scoprire differenze interessanti come, per esempio, in campo religioso: “La flessibilità, l’intrinseca inclusività, la continua evoluzione che caratterizzano il politeismo greco e romano contrastano visibilmente con la rigidità dei monoteismi: ancora in buona parte prigionieri delle loro fedi in un dio unico e vero che esclude tutti gli altri”.

      Il movimento della “cancel culture” è stato accompagnato da un altro denominato “decolonizing classics”, che imparentato con il primo in area anglosassone sta crescendo: si chiede di decolonizzare i classici perché essi sarebbero inestricabilmente legati all’imperialismo, al sessismo, al razzismo e al colonialismo dell’Occidente (l’espansione imperialista dell’Italia fascista seguì due direttrici “romane”: quella della disciplina e della forza militare e quella della missione civilizzatrice).

        Quindi vengono individuati testi la cui lettura, nelle scuole e nelle Università, dovrebbe essere abolita, limitata o preceduta da un avviso. Si chiede inoltre che agli studi classici accedano studenti di altre etnie, che anche i professori non siano quasi esclusivamente maschi bianchi, e che si dia spazio maggiore alle donne.

       Questioni interessanti, che ci dovrebbero far riflettere sul fatto che anche in Italia, quando ci saranno seconde, terze, quarte generazioni di giovani immigrati, ci sarà anche chi fra di loro vorrà conoscere meglio il proprio passato e farà confronti o si sentirà in conflitto con la nostra cultura.

      In ogni caso comunque l’atteggiamento che deve prevalere è quello del dialogo, della conoscenza.

     “Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo” scriveva Terenzio nel suo “Il punitore di se stesso”, che è un elogio della indiscrezione fra uomini, un invito a superare il reciproco mutismo in nome della comune umanità, nonostante gli ostacoli e le preclusioni.

 Carla Rosco. “Chi ha paura dei Greci e dei Romani? - Dialogo e cancel culture” di Maurizio Bettini. Einaudi,  euro 12

 


20 novembre 2023

"Tonino Guerra che scrive" polaroid i Andrei Tarkovskij

 


di Andrea Appetito

                            Polaroid di Tarkovskij, Tonino Guerra. Lui scrive, seduto su uno sgabellino, forse la sceneggiatura di Nostalghia, forse un’altra sceneggiatura. 

                        L’indice destro sospeso sulla tastiera, poggiata su una sedia di legno. Lo vediamo impastare, sotto la finestra aperta, una lettera alla volta, parole azzime. Niente scrivanie, niente scaffali colmi di libri, né comode facciate; c’è un libro solo, sul davanzale, sotto il bicchiere che cattura le ombre del mattino. Sul suo capo tonsurato dalla luce splendono le margherite raccolte dai prati ancora coperti di guazza e ordinate nel bicchiere. Lui è concentrato su lacerti di immagini che affiorano dal deserto della pagina bianca. 

                       Accanto alla finestra, ha montato la sua tenda per seguire l’ispirazione improvvisa e ora la consuma, mentre il tepore del mattino gli accarezza la schiena curva. Tutto il mondo di dialoghi che sta per venire alla luce poggia sulle sue spalle. Questo Atlante curvo sotto il peso dell’immaginazione è un instancabile mediatore tra il mondo delle cose rustiche e quello delle idee improvvise. Così dopo aver allestito lo scriptorium da campo, con dignità solerte si è messo al lavoro. Questo artigiano laborioso nella nicchia della polaroid ha fatto della scrittura la sua devozione, il suo stile di vita.


 

15 novembre 2023

Il sentiero del sale" di Raynor Winn

 

di Giulietta Isola

“Avremmo potuto fermarci, ma non avevamo niente da perdere e tutto da guadagnare dal continuare il cammino. Qui eravamo liberi, bistrattati dagli elementi, affamati, stanchi, infreddoliti, ma liberi. Liberi di non accamparci presso amici o parenti, essere un peso, diventare una scocciatura …Qui avevamo ancora il controllo sulla nostra vita, sui nostri risultati, sul nostro destino. Avevamo scelto di camminare e godere della libertà che deriva da quella scelta”.

       La storia di Raynor e del marito Moth è vera, bellissima e straordinaria. Questo libro, un esordio molto toccante, ruota intorno alla malattia incurabile e degenerativa che viene diagnostica a Moth nello stesso momento in cui perde la propria fattoria, per un investimento sbagliato e un errore burocratico nella difesa legale del loro diritto. 

       Raynor da agricoltrice diventa senzatetto ed infine a scrittrice a tempo pieno. I due coniugi iniziano il loro cammino nella natura e nella povertà , un percorso di 1013 chilometri da Minehead a South Haven Point, lungo le coste del Devon e della Cornovaglia . Spiagge , scogliere a picco e brughiere vengono percorse con due sacchi a pelo, una piccola tenda, un fornelletto e 48 sterline a settimana . 

        Riprendere in mano il proprio destino a 50 anni , mettersi a camminare nella natura selvaggia con la fame come “sottofondo costante”, non è facile, bisogna imparare a fare un passo alla volta ed apprezzare quello successivo, vincere la paura, l’ansia, l’amarezza . 

       Questi ingredienti rendono il racconto di Raynor forte e potente con qualche richiamo all’esperienza di tanti nomadi del nuovo millennio, così ben tratteggiati da Jessica Bruder. Moglie e marito camminano fra intemperie e stenti, dormono in una tenda montata nel fango, al freddo e sotto la pioggia battente, mangiano ciò che capita o meglio ciò che si possono permettere , vivono eventi straordinari e situazioni insolite premesse ideali per un forte cambiamento interiore, entrambi pensano : “noi non saremmo mai tornati indietro. Non avremmo mai più varcato quella porta, lasciato cadere i bagagli sul pavimento di ardesia, dato da mangiare ai gatti, passeggiato per il giardino in una notte d’estate.”

       Raynor e Moth sono consapevoli di non poter più perdere nulla, perché tutto è già stato perduto, insieme diventano più forti, vincono lo repulsione della gente , ed acquisiscono una nuova certezza: “una cosa sola era reale ora più del passato che avevamo perduto o del futuro che non avevamo: se mettevo un piede davanti all’altro, il sentiero mi avrebbe fatto procedere, e una striscia di terra spessa non più larga di una trentina di centimetri era diventata casa.” 

       Una riflessione: oggi c’è tanta gente che per la guerra è rimasta senza un tetto, è una cosa che spezza il cuore, si prova empatia e voglia di aiutare. Ma se incontriamo un barbone per strada è facile pensare a storie di droga e alcol, è facile pensare che in fondo sia colpa sua, ognuno ha una percezione diversa per situazioni simili. Leggere queste pagine sincere significa venire a patti con il dolore e scoprire il potere curativo della natura.

IL SENTIERO DEL SALE di RAYNOR WINN FELTRINELLI EDITORE

 

13 novembre 2023

"Le farfalle di Sarajevo" di Priscilla Morris

 

di Marigabri

       Sulla dannata guerra fratricida in Bosnia finalmente leggo un libro antiretorico, sincero, maturo (niente protagonisti bambini/adolescenti a pietire afflati di lettori commossi) che racconta come Sarajevo sia diventata nel giro di pochi mesi una prigione a cielo aperto.

       Distrutta inspiegabilmente la cultura multietnica che la caratterizzava, di cui il rogo della bellissima biblioteca nazionale è il tragico simbolo, la città diventa il teatro di una guerra assurda e implacabile, sprezzante di ogni diritto umano e insensibile a ogni differenza: implacabile e assurda come tutte le guerre, del resto.

      Perché l’odio inveterato cerca il suo oggetto a caso e poi colpisce a raffica, ovunque. È il caso dei cecchini appostati ai piani alti di qualche edificio che si dilettano a fare il tirassegno contro chiunque abbia la sventura di passare per strada in quel momento. Giovani, vecchi, donne, bambini: è lo stesso. L’odio praticato come religione rende tutti uguali nello spargimento di morte a caso.

      Priscilla Morris si ispira alla sua storia famigliare per raccontare di Zora, serba bosniaca, pittrice di una certa fama e insegnante all’accademia delle Belle Arti, che si trova nel giro di poco tempo prigioniera in una città assediata e ben presto ridotta alla fame. Recisi tutti i contatti col mondo fuori, Zora non riesce più a comunicare con i suoi cari: sua figlia vive in Inghilterra; suo marito Franjo l’ha raggiunta insieme alla fragile madre di lei, per proteggerla dalle prime minacciose incursioni dei nazionalisti serbi.

        Musulmani, croati, serbi sono i gruppi che costituiscono la nazionalità bosniaca: non sono etnie diverse ma appartengono allo stesso ceppo slavo. Negli anni Novanta però qualcosa si rompe, la pacifica convivenza viene lacerata dal nazionalismo fanatico che rimane tuttavia incomprensibile alla popolazione civile e agli intellettuali come Zora.

       Il racconto di una città sotto assedio è precisa, devastante, mentre segue il progredire insensato della violenza. La vita quotidiana dapprima sembra soltanto sospesa, ma in breve tempo ogni frammento di normalità viene annullato, sembra ardere nel rogo della Vijećnica, il palazzo simbolo della città, una meraviglia architettonica da cui si innalzano ora nere scaglie di cenere: quel che resta della cultura, del buon senso, della vera, autentica umanità. Una sola domanda : perché?

        E poi: “Nel giro di una settimana, Sarajevo si apre come una piaga.[…] siamo tutti i profughi ormai, passiamo i giorni ad aspettare acqua, pane, aiuti umanitari: mendicanti nella nostra stessa città.”

       Zora non può più insegnare, il suo studio distrutto nell’edificio distrutto, eppure cerca, fino all’ultimo, di continuare a dipingere: la sua specialità sono i ponti, ma quando si guarda intorno vede solo rovine: “Tutto, ovunque, è marrone e buio, fradicio e rovinato”.

      I sopravvissuti si stringono intorno a quel che resta delle loro case, alle poche coperte, al niente di cibo.

      E intanto, senza quasi più contare i giorni, un anno è passato.

     Qui c’è la storia di Zora e non solo. Personaggi che rappresentano un popolo, legami umani che si intrecciano e si spaccano, sentimenti, parole e corpi. Qui c’è una città, Sarajevo, che è impossibile non vedere e non amare.

     Qui c’è una letteratura che ci restituisce la vita nella sua nuda, essenziale e complessa verità.

Priscilla Morris. Le farfalle di Sarajevo. Neri Pozza.

 

12 novembre 2023

"A noi non accadrà" di Mario Zeppolini e Romano Zipolini

 

 


di Elisa Bertoni 

       Non è facile approcciare un libro di memorie perché si rischia di volerlo inquadrare in modo rigoroso, facendone smarrire l'identità: è storia e se ne può attingere come fosse un documento o è romanzo in cui l'aspetto di una trasfigurazione soggettiva dell'elemento autenticamente biografico traligna dall'oggettività del reale? A rendere ancora più complessa la questione è la presenza, in questo caso specifico, di una coppia di autori, padre e figlio, come se il testo fosse stato scritto a quattro mani, nonostante la pubblicazione avvenga molti anni dopo la morte di uno degli autori, Mario. Inoltre, perché padre e figlio presentano un cognome simile ma diverso?

      Il libro incuriosisce dunque già in partenza aprendo la porta a svariati interrogativi.

     Una chiave per avvicinarsi ad una comprensione più genuina dell'opera la troviamo nelle pagine che precedono la vera e propria narrazione. Si legge nella sezione Cartiglio: “Tutto è meglio della pura verità” (Pierre Sebor, 6.1.86). La dimensione soggettiva insita nella vita di ognuno è ciò che permette di vivere, nel momento in cui la pura verità, se si rivelasse limpida come un'idea platonica nell'iperuranio, nel momento in cui spazza via in modo cinico e brutale l'entusiasmo di un ideale vissuto con autentica passione, alimenterebbe solo rabbia, rinuncia se non disperazione e nichilismo. La memoria anche di fedi che hanno deluso e tradito si impone come esperienza utile per provare a rifocalizzarsi verso obiettivi di speranza e non di morte. Inoltre, vendere “pure verità” può essere la bandiera a cui si attaccano i potenziali dittatori perché il reale sfugge sempre al monopensiero delle tirannidi.

      E sempre in Cartiglio, ad apertura: “Quel giorno erano in migliaia, con le loro grida nervose ed il battimani ritmato, a sovrastare Jimi Hendrix. Invocavano sul palco i Monkees” (8 luglio 1967, Jacksonville-Florida). Perché questa citazione? Di fronte ad una epopea rivoluzionaria della musica come quella incarnata da Jimi Hendrix, il pubblico chiama a gran voce i Monkees, un gruppo che è stato creato per inscatolare commercialmente la canzone sulla scia del successo dei Beatles, tanto che il critico musicale Glen Baker li definì “la prima grande vergogna del rock”. La voce del popolo non è sempre vox dei, secondo il noto motto popolare; in epoca contemporanea la massa subisce costantemente un processo di strumentalizzazione sia nel campo dei consumi che in quello politico sociale ed il messaggio che arriva forte dalle pagine di questo diario è proprio l'occhio a non lasciarsi trascinare da effimere esaltazioni che invece di promuovere il talento/progresso inneggiano all'omologazione/regresso, all'ubbidienza cieca e acritica ad un potere che si proclama forte ed autoritario.

       Il libro si può anche considerare una sorta di romanzo di formazione con un finale che tuttavia rimane aperto. L'approdo, dopo la tragica conclusione del conflitto e la dolente percezione dell'inutile spargimento di sangue di tanti civili inermi, si potrebbe sintetizzare in una coppia di versi di Montale: “codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Lo Stato fascista pur nell'esibita ostentazione della sua forza non è riuscito a proteggere la sua gente per una insufficiente preparazione allo sforzo bellico o, secondo la ribadita opinione di Mario, per il tradimento di comandanti e di reparti, e a quanti sono stati animati da un genuino amor di patria non rimane che un cocente senso di smarrimento e sbandamento. Il vitalismo di matrice dannunziana che aveva animato il giovane Mario incline a gustare la sua vita come fosse un vero e proprio romanzo tra gesti di insubordinazione e l'eroismo della solidarietà, tra atti di coraggio ed avventure amorose molteplici, vissute tutte con intensità, come chi voglia assaporarne ogni sfumatura nella diversità degli incontri, viene barbaramente umiliato dalla storia, frustrato dal disinganno che lascia il marinaio barghigiano incapace di ritrovare in modo non contraddittorio un'altra fede cui donare il cuore. Se si esclude il valore degli affetti e dell'amicizia, specie quella per Ottone suo compatriota e compagno d'armi, che alla fine diventa il fil rouge che dà unità alla storia. Si legga in chiusa al libro “...scrutando la realtà del cielo e del mare, dalla mia nave, che ho perduto, sono stato indotto a spingermi incontro alla vastità di tutto quanto non conoscevo, a costruire il sogno della mia vita, che non si è perso nell'orizzonte, perché era celato nel corpo e nell'anima delle persone amate, in cui mi sono specchiato, per provare ad essere diverso da come mi avevano costruito”.  Il sogno miseramente vessato dalla storia si cela nel cuore delle persone amate: questa frase ha il sapore di un testimone che consegna agli affetti, anche al figlio Romano, ed è un impegno a non spegnere la vita e l'entusiasmo per essa attraverso vie diverse e nuove al di là di quelle in cui il giovane Mario si era incamminato con baldanzosa audacia e genuina speranza.

       Alla lettura si può percepire una netta cesura tra quello che avviene prima della guerra e della disfatta di Capo Matapan e il dopo: le pagine della prima parte più leggere e briose, tessute di reminescenze musicali e della giovanile esuberanza dell'autore paiono invecchiare di colpo, si fanno più stanche, nude, crude, rispecchiando la frustrazione dei reduci. Nella scrittura del diario, rispetto ad un documentario cinematografico, le immagini affiorano con la forza dei sentimenti di chi descrive eventi che ha vissuto e visto, perciò permangono con più incisività anche nella memoria del lettore. Come non figurarsi il marinaio Mario, amante della lettura e delle donne, aperto al nuovo, dotato di squisita sensibilità lirica, che si avventura nei mari pur venendo dai monti di Barga? Come non sentire vicine le sofferenze ed i turbamenti di un uomo che affronta eventi eccezionali in tempi eccezionali destinati poi a precipitare miseramente nel disincanto di chi non può fidarsi più neppure dei propri generali? Gli siamo accanto quando si riflette nel motto “tenacemente” della nave ammiraglia Zara su cui è imbarcato, accanto nella notte atroce che trascorre naufrago tra tanti commilitoni a seguito dell'affondamento dello Zara, percependo il suo stesso “disgusto infinito, per tutti quei corpi dilaniati, per quei pesci immondi, per questo freddo, per chi ci ha condannato a morire senza combattere...”, e accanto nella sua prigionia greca, a nutrirsi di olive e di paleo bollito, come prevenzione allo scorbuto.

        Il mare, nella sospensione di lunghe traversate, abitua alla riflessione: “il destino del marinaio, si legge, è... quello di sentirsi lontano da tutto e da tutti, nella grande immensità del mare, che rispecchia la vastità delle sensazioni dell'anima, con le quali si confronta”. Ci sono momenti in cui Mario, pur in un contesto storico come quello fascista, che relega la donna al ruolo asessuato di madre e moglie devota, precorre i tempi nel cammino verso l'uguaglianza di genere, quando afferma a proposito delle delusioni amorose: “o forse è difficile accettare che la donna, anche in questo, sia uguale all'uomo e che il desiderio di conquista, pure per lei, sia più forte di ogni fedeltà”. C'è in lui una forma di anarchia del pensiero che lo spinge a riconsiderare tutto alla luce delle proprie rimeditate esperienze.

        E' lui stesso a costruirsi vero e proprio personaggio letterario nel momento in cui si autobattezza Zeppolini dall'originario Zipolini, sulla scia della fama del dirigibile Zeppelin, capace di navigare i cieli così come il protagonista vola proteso sui suoi sogni; sogni che grazie al libro ci vengono riconsegnati intatti perché si stabilisca quella sana dialettica tra le epoche che dovrebbe far approdare al porto dell'evoluzione. Dallo scontro delle generazioni deve nascere l'incontro delle generazioni con le specifiche peculiarità, il foxtrot e le danze coreografiche di Tangolita amate da Mario si possono mettere accanto allo shake amato da Romano: chissà che non ne nasca un ballo nuovo che unisca tutti, il ballo dell'umanità. A noi non accadrà, in questo  imperativo futuro che si pone volutamente più come certezza che come speranza proprio nell'incertezza dolente di un mondo in cui la guerra continua ad affacciarsi, sono affidate  memorie che non si consumano in loro stesse ma che vogliono programmaticamente costruire dialoghi aperti, non settari, e per questo fortemente coraggiosi.

A noi non accadrà (un marinaio nella seconda guerra mondiale; da Barga a Capo Matapan, la prigionia, Bari) di Mario Zeppolini e Romano Zipolini. Tralerighe libri

 

 

 

11 novembre 2023

"La favola del re buono" di Castrenze Bonanno,

 


L’amor che move il sole e l’altre stelle

di Giovanna Baldini  

 La favola del re buono, di Castrenze Bonanno non è un libro di storia sulla vicenda umana e politica di Federico II, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero. L’Autore, infatti, narra una favola a sfondo morale, dove i buoni sentimenti prevalgono sempre nelle azioni dei protagonisti, accompagnati dalla comprensione verso chi sbaglia, e mai dal rancore o dalla vendetta.

Il motore che muove il mondo, pensa l’Autore, è l’amore, anche se l’uomo spesso tende a ignorare questa grande verità.

Palermo, prima metà del XIII secolo: il dove e il quando si svolgono i fatti raccontati nel libro, ambientati nella città siciliana che quel grande sovrano rese famosa per splendore artistico e culturale fino agli angoli più lontani del mondo allora conosciuto.

I personaggi, che agiscono attorno al protagonista, sono d’invenzione e l’intreccio racconta una storia d’amore e d’amicizia.

Secondo Bonanno, le idee di dominio, di sopraffazione, di potere e ricchezza, che sempre hanno spinto gli uomini ad atti efferati e distruzioni, si sono realizzate a danno di molti nel corso dei secoli. Mentre, invece, le idee di solidarietà, amore, fratellanza sono sempre rimaste minoritarie e perdenti e i portatori di questi alti valori etici e morali tacciati spesso da eccentrici visionari o sognatori.

Per esempio, Federico II, ne La favola del re buono diventa per lo scrittore siciliano il modello del monarca illuminato che, dovendo partecipare a una crociata contro gli infedeli indetta dal papa, preferisce tentare un’azione diplomatica. È convinto, il sovrano siculo-svevo, formato a saldi valori di giustizia e fermi principi religiosi, che il dialogo tra i popoli sia più proficuo delle stragi e delle distruzioni; che la pace e l’incontro portino benessere e serenità.

Ragionamenti di puro buon senso che tutti dovrebbero impegnarsi ad attuare nella vita di ogni giorno, ottemperando anche alla parola di Dio, che è unico, secondo l’Autore, anche se conosciuto e adorato con nomi differenti.

Attraverso l’amore impossibile dell’imperatore Federico II e una popolana, Anna, un uomo e una donna di classi sociali molto distanti tra loro, ma uguali nei sentimenti che provano, il messaggio della favola è chiaro: in questa nostra vita l’unico sentimento che dà senso all’esistenza è l’amore, inteso in ogni sua sfumatura.

Ma il genere umano, e Castrenze Bonanno non si stanca mai di ripeterlo, è sordo e cieco, perché, parafrasando Francesco Petrarca, “vede il meglio e al peggior s’appiglia”.

 Castrenze Bonanno, La favola del re buono, La Grafica Pisana, Bientina (Pi), 2023, p. 136, euro 12.     

06 novembre 2023

"L'arte di legare le persone" di Paolo Milone

 




L'arte di legare le persone.

Legare le persone al letto.

Legare le persone a te.

Legare le persone alla realtà.

Legare le persone a se stesse.

Legare le persone è un'arte

Inconoscibile.”

di Marigabri

         Allora Paolo Milone, da quarant’anni psichiatra, ci rende partecipi di quest’arte inafferrabile costruendo un libro frammentario, lirico, intenso, a tratti struggente e malinconico, a tratti leggero e dilettevole. Personale e universale, come sono i libri che sanno dare parola all’intima, profonda verità.

       È l’incontro umano, solidale e fraterno, con tanta e varia umanità nella quale ci riconosciamo, noi che siamo sani o folli per uno scherzo del destino. (“I matti sono nostri fratelli. La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene.”)

      Sono le parole calde, essenziali, in equilibrio delicatissimo e magico tra il vuoto e il pieno che ci fanno guardare “l’abisso con gli occhi degli altri” e cogliere la sottile e sfumata differenza tra lo psichiatra e il suo paziente.

      Lucrezia, giovane donna intelligente e scaltra, tremiamo per la tua vita. Carmelo, vecchio tossico barcollante dalle mille risorse, tremiamo anche per la tua.

       Siamo nel reparto 77, pronto soccorso psichiatrico, anteprima dell’inferno e ostinato faro nella notte nera.

      È Genova, città storta, stretta, impervia, impossibile camminarla tutta, Genova, dove un inseguimento notturno in zoccoli e camice svolazzante trova il suo limite naturale in faccia al mare (quel mare che “ascolta le persone una per una e intanto continua ad andare e venire”).

      Sono storie diverse che si intrecciano, si frastagliano e mai si completano, sono sentimenti e pensieri in cerca di un equilibrio che si fa e dis-fa continuamente. Così che i pensieri più fondi si frastagliano su uno scoglio e schiumeggiano lontani.

      Allora ritorna la prosaica, umile, necessaria realtà quotidiana come testimonia questo dialogo casalingo:

Anna, dentro di me c’è l’eco della tragedia del mondo.

Paolo, porta giù la spazzatura o te lo faccio sentire io l’eco della tragedia del mondo.

L'arte di legare le persone. Paolo Milone. Einaudi