30 novembre 2018

"Nella colonia penale” di Franz Kafka



di  Gianni Quilici

   L’impressione finale: trovarmi di fronte ad un racconto perfetto.

Uno scenario desolante: “una piccola valle, profonda, sabbiosa, isolata da ogni parte da piccoli pendii scoscesi e brulli”.
Uno strumento di tortura tanto atroce quanto descritto appassionatamente da uno dei protagonisti.
Tre (quattro) personaggi: realistici e al tempo stesso simbolici.

L’ufficiale: il carnefice, incarnazione zelante  di una (in)giustizia totalitaria, che appare, tuttavia, in crisi nella sua inconsapevole spietatezza.
Il condannato: “ mezzo inebetito come un cane sottomesso, che si poteva lasciar libero e che bastava chiamarlo con un fischio perché accorresse”,  che deve pagare la colpa, senza alcuna possibile difesa.
L’esploratore: il giudice di fatto (senza volerlo assolutamente essere), tuttavia impotente.

Nello sviluppo del racconto non c’è  separazione tra la dinamica psicologica che i personaggi, nella loro interazione, esprimono e il significato emblematico che essi rappresentano, senza che ciò diventi ideologia ossificata.
Kafka riesce, infatti, a creare una sorta di thriller dialettico di notevole spessore simbolico, in cui i ruoli iniziali dei tre protagonisti si capovolgono o comunque mutano, senza che niente cambi.

L’ufficiale è  la spietatezza, che ha profondamente  introiettato dal precedente comandante, di cui magnifica l’invenzione della macchina di tortura, e “l’ordinamento di tutta la colonia praticamente perfetta”. Si sente, infatti, innocentemente giusto nel ruolo di torturatore efferato. Quando intuisce che ormai è sconfitto e con lui quel mondo con il quale si è identificato, rivolge contro se stesso il diabolico strumento.

Il condannato (e con lui il soldato) è la vittima che potrebbe, allo stesso modo, diventare carnefice  o comunque complice, considerando quanto sia privo di sentimento nei confronti di ciò che sta succedendo.

L’esploratore è la coscienza, lo sguardo morale. Quasi sempre silenzioso, apparentemente distante, quando parla le sue sono parole nette di condanna. E inoltre, a differenza del condannato e del soldato, prova compassione per la morte atroce a cui l’ufficiale si sottopone.

La grandezza di Kafka risalta non soltanto nella normalità con cui disegna questa ferocia, ma anche perché non giudica, lascia immaginare.
Il racconto finisce, infatti con l’esploratore che se ne va quasi fuggendo. Fugge da cosa? Da una “colonia penale”, che muterà senza mutare. Mentre se ne va incontra i “lavoratori del porto, uomini forti, gente povera, umiliata”, ‘non un’alternativa si potrebbe pensare, mentre invece incombe l’ombra del vecchio comandante.
E dove va? Non lo sappiamo, sappiamo soltanto che impedisce al soldato e al condannato di saltare dentro la barca,  da dove si sta allontanando, minacciandoli con una pesante gomena piena di nodi. Se ne va via solo senza che sappiamo  cosa ci sia oltre.

Franz Kafka. Tutti i racconti. Traduzione di Rodolfo Paoli. Mondadori

"Versi in viaggio" di Gianni Quilici


di Martino De Vita

Versi in viaggio, verso un viaggio.  Si viaggia per ricordare o si ricorda per viaggiare. Il verso va libero come libero è il viaggiatore. Attraverso l’Europa e l’Italia, la dimensione di Gianni si innalza nella visione completa di un luogo forse già sognato, e poi raggiunto. L’anima si evolve, il pensiero scatta uno scatto dietro l’altro
Il rumore del clic,  quando si riesce a percepirlo, riempie una landa desolata, un quartiere, un viso, una figura immortale, come l’immortalità che trasmette visioni ancestrali. 
Si va per il mondo a fantasticare il proprio mondo, a visitare una coscienza oltre un io esaltato, o un io esaltante. Ci si compiace, ma si è anche tristi. Volti avvolti dall’aria affannosa dell’esistenza, a volte. Ma poi tutto torna in un’atmosfera quieta. I borghi, le via della propria città, i suoi monumenti, l’attesa di una luce solenne per ritrarre l’attimo che fugge ciò che  non dovrebbe fuggire. 
I versi seguono un cammino apparentemente casuale. I versi, quei versi, parlano a ognuno di noi che ha la ventura di catturarli, e come loro seguono un percorso interiore. L’immagine non è casuale. Si fugge e si ritorna, si alternano visioni non facilmente catturabili. 
L’obiettivo è l’obiettivo di un occhio fedele alle sue sensazione. Fuggire, perché. Ma l’occhio non fugge; all’occhio non sfugge un vago sorriso, un vago accenno d’ombra, città trasognate, oggetti mobili,  come bersagli da centrare. 
Il miracolo di una foto, il miracolo di un oggetto meccanico, di un digitare, di una lunga posa. E quella sensazione, quel mistero, è unico.
 Ci si muove, si fanno migliaia di chilometri, perché? È il poeta che lo vuole o il volo di un verso libero, autonomo, che obbedisce solo a se stesso e s’innalza nella coscienza di uno spazio, di un fruscio di vento, di un sorriso accennato. 
Ma non è il vuoto a vincere il senso di gravità. La poesia va’, sublime come un’onda percorrendo l’infinita parola dell’essere. 
Poi, una lieve brezza, alle spalle, ti fa rientrare. Eri smarrito,  ma sei sempre ritornato a  compiacere un’esistenza che forse, ora, non è più quella.

Gianni Quilici. Versi in viaggio. Tra le righe. Euro 12,00

29 novembre 2018

“Non legare il cuore” di Farian Sabahi


     
di Laura Menesini
  
Bel libro, quasi una saga famigliare, storia di una famiglia interessante che ha mescolato l'Italia all'Iran negli anni sessanta, quando unioni simili erano veramente rare. E questo ci fa subito capire che ci troviamo di fronte a persone speciali, persone che seguono il loro cuore e non danno ascolto alle convenzioni sociali. 

È una storia complicata e avvincente che ripercorre le vie dei propri antenati e li rincorre fino in Azerbaigian, ma in tutto questo andirivieni l'amore e l'unione famigliare dominano sempre la scena.

Dall'altra parte invece una signorina di buona famiglia nell'Alessandria di ieri e in mezzo una bambina dai capelli ricci e dalla pelle olivastra, timida e intelligentissima, bollata come “bastarda” dal professore di religione, sollecitata da mille esperienze diverse e divisa tra due religioni, ognuna delle quali offre qualcosa ma non tutto! Perché è la totalità, la perfezione quello che si desidera ma al tempo stesso si vuole la libertà.
La bambina, che è stata battezzata dalla nonna a insaputa del padre, e poi la donna è in bilico tra due mondi tanto diversi e pure uguali nei valori fondamentali della vita.

Solo chi vuole imporsi non ama le diversità, una società democratica deve avere al suo interno visioni e opinioni diverse e contrastanti, specialmente oggi quando il mondo è sempre più in movimento e ognuno porta il suo fardello di usi, costumi e credenze

La persona che ragiona non può inchinarsi davanti a certi tabù o smettere di interrogarsi sui principi universali, sente l'esigenza della trascendenza ma non può accettare le limitazioni imposte dalle chiese istituzionali.
È un inno all'intelligenza e alla libertà!


Farian Sabahi “Non legare il cuore” Solferino ed.



19 novembre 2018

"L'ultimo Roland Barthes"


di Davide Pugnana

L'ultimo Roland Barthes, quello che allunga la mano verso Proust per far chiarezza nella sua vita; quello delle riflessioni testamentarie de La camera chiara"; quello del diario struggente tenuto coraggiosamente aperto sul lutto materno e, lavorando in esso, sul tempo ritrovato del ritorno alla matrice d'origine: quel Barthes, che scava a mani nude nella ferita di orfanità "dove lei non è più" - ecco, proprio in quelle sue pagine estreme, troviamo un'esclusiva, totalizzante pienezza di senso che trasforma la riflessione sulla morte in risposta di vita e fa del massimo di chiusura biologica il culmine dell'apertura umana.

Ogni volta che lo rileggo mi commuove l'anello di congiunzione che l'ultimo Barthes è riuscito a cucire tra costruzione teorica e dolorosa sostanza esistenziale: la "puntura" percettiva raccolta dal semiologo perfora l'immagine e attraversa l'ordine logico dello "studium" per raggiungere gli oggetti del suo mondo interno. Eccolo: il viaggio al fondo della vera conoscenza. È nella dinamica di questo processo che lo sento veramente proustiano: non tanto la memoria involontaria come risposta obliqua e alogica all' "intelligenza" del tempo matematico; ma il riverbero intermittente capace di dischiudere quello che - scrive Proust stesso nel centro de Le Temps retrouvé - «resta chiuso come in mille sigillate giare ciascuna delle quali è riempita di cose d'un colore, d'un odore, d'una temperatura assolutamente differenti; senza contare che tali giare disposte lungo la cresta dei nostri anni durante i quali non abbiamo smesso di mutare, sia pur soltanto nei nostri sogni o pensieri,sono situate a quote molto diverse, e ci dànno la sensazione di atmosfere singolarmente variate.» Bello riuscire a fissare un "punctum"/kairos che duri e resista oltre l'attimo.
foto di Ferdinando Scianna

«Tuttavia, se si tratta di una persona - e non più di una cosa - l'evidenza della Fotografia assume tutt'altro rilievo. Il fatto di vedere fotografati una bottiglia, un mazzo di fiori, una gallina, un palazzo, non tira in ballo che la realtà. Ma se invece si tratta di un corpo, d'un volto, e quel che è più, come spesso accade, del corpo e del volto della persona amata? Dal momento che la Fotografia autentifica l'esistenza della tale persona, io voglio ritrovarla globalmente, ossia in essenza, 'come se stessa', al di là di una semplice somiglianza, anagrafica o ereditaria che sia. [...] L'aria di un volto non è scomponibile. [...] L'aria non è un dato schematico, intellettuale, come lo è invece una silhouette. E non è neppure una semplice analogia - per quanto spinta possa essere - come lo è la 'somiglianza'. No, l'aria è quella cosa esorbitante che si trasmette dal corpo all'anima [...] Scorrevo così la foto di mia madre seguendo una via iniziatica che mi portava all'esclamazione, fine di ogni linguaggio, 'È esattamente questo!': [...] la Fotografia del Giardino d'Inverno, in cui vado ben oltre il semplice riconoscimento: in cui la ritrovo: brusco risveglio, al di fuori della 'somiglianza', satori in cui le parole vengono a mancare, evidenza rara, forse unica del 'Così, esattamente così, e niente di più'. [...] Tutte le foto di mia madre che passavo in rivista erano un po' come maschere; all'ultima foto, improvvisamente, la maschera scompariva: restava un'anima, senza età ma non al di fuori del tempo, dal momento che quell'aria era quella che vedevo, consustanziale al suo volto, ogni giorno della sua lunga vita.»


14 novembre 2018

"Museo Nazionale di Palazzo Mansi - Lucca" di Davide Pugnana


Al piano nobile di Palazzo Mansi, nel cuore di Lucca, si apre, non senza sorpresa per chi viene da fuori, quella vertiginosa Pinacoteca che squaderna dipinti per due secoli di pittura italiana.

Un'antologia figurativa disseminata lungo un percorso a "L", articolato in prima battuta in un grande e scenografico corridoio dalle pareti altissime, di colore rosso e completamente foderate di opere, cui segue la fuga serrata di tre piccole stanze altrettanto gremite di opere di altissima fattura.


L'allestimento a mo' di quadreria, secondo un'accozzaglia tipicamente barocca, dove i dipinti si affiancano e sovrappongono l'un l'altro alle pareti senza una sola riga di spiegazione e nella più totale assenza di didascalie, costituisce una palestra preziosissima per l'occhio che, a diretto contatto con una pluralità di stili, può fare esercizio attributivo o muovere al semplice riconoscimento guardando le varie "mani" che dal manierismo fiorentino con i ritratti di Pontormo e Bronzino arrivano al Seicento con il Sebastiano adolescente dal busto michelangiolesco scolpito dalla luce di Luca Giordano; le battaglie spadaccine per narrazione e tocco di Salvator Rosa, a cui rispondono, quasi per contrappunto, i pacati, siderei, metallici paesaggi nordici di Paul Bril.
Nel mezzo passano copie da Correggio di squisita fattura; gruppi di figure del Beccafumi dalla cromia smagliante sia pure temperata da una morbidezza che sfuma i contorni e che dialoga, a distanza, con il nudo femminile del Furini; in alto, grandi formati del Domenichino e di Orazio Gentileschi; un notturno rotto di bagliori del Bassano, e, nelle piccole sale, ritratti e soggetti sacri e profani che rivelano autentici e sconosciuti capolavori di metà-tardo Cinquecento e primo Seicento, tra i quali pezzi mirabili di Sustermans.

Tra questi figura la "Madonna col Bambino" attribuita a Francesco Avanzi, pittore di cui non abbiamo notizie certe; ma che dallo stile ci suggerisce un'attività svolta forse a Milano, a fine Cinquecento, forse a bottega da un allievo di Leonardo o da qualcuno che guarda alle conquiste tecniche ed espressive del maestro, e che Avanzi assimila con grande intelligenza figurativa e di cui dà prova in questo gioiello di disegno (salvo la sgrammaticatura anatomica del braccio del bimbo che crea una piccola lacuna estetica) e di perfetta calibratura di luci ed ombre, modulata secondo i dettami dello sfumato leonardesco; ma trattato con un di più di plasticismo che rende gli impasti e i trapassi chiaroscurali più fermi. Magistrale l'uso delle velature nella resa in profondità dei carnati e nella velificazione dei panneggi. Un pezzo da novanta della collezione.

L'unica pecca di queste piccole stanze, sul piano museografico, è il sistema di illuminazione che, in molti punti, purtroppo getta schiaffi di luce sull'opera e scempia, altera e impedisce all'occhio una corretta lettura, e a poco o nulla vale il piegarsi in basso o il mettersi di lato. È il caso, oltre che dell'Avanzi affatto illeggibile e del Pontormo, del ritratto di Federico Ubaldo della Rovere bambino di Alessandro Vitali, in abito rosso e scarpette grigie, in atto di giocare con la pallina e la racchetta in legno, che pare un Velàzquez o un Manet ante litteram.

08 novembre 2018

"Visti&Scritti" di Ferdinando Scianna


di Gianni Quilici

Questi Visti&Scritti di Ferdinando Scianna sono innanzitutto “piacere”. Piacere visivo (più di 300 ritratti) e piacere delle testimonianze, annesse ad ognuno di questi ritratti, tra ricordo, riflessione, aneddoto. Personaggi più o meno famosi, ma anche sconosciuti o famosissimi planetariamente.  Piacere nostro come lettori, ma anche (si percepisce bene) dell’autore stesso che li ha pensati, raccolti, concepiti.

E’ come se Scianna ci accompagnasse in un viaggio e ci presentasse una costellazione di volti scolpendoli con scatti mai banali,  a volte, invece, indimenticabili,  e ce li raccontasse con folgoranti giudizi, con ricordi,  con divertenti aneddoti o con succinte impressioni, anche acide.

Inoltre molti di questi personaggi li conosciamo, hanno fatto parte del nostro immaginario, con loro abbiamo intessuto un possibile rapporto di sentimenti (simpatia o apprezzamento, astio o  amore) e quindi l’interesse o semplicemente la curiosità è più alta, più pungente. Si va da Papa Wojtyla a Berlusconi, da Sartre a Foucault, da Saramago a Borges, da Cartier-Bresson a Koudelka,  da Scorsese a Isabelle Huppert, da Moravia a Calvino, dal Dalai Lama a Salgado, da Montale a Kundera, da Toni Servillo a Sandrine Bonnaire soltanto per citarne alcuni.

Prendiamo questa foto di Roland Barthes.
Bellissimo ritratto, senza andare nel dettaglio, per la concentrazione con la quale fuma il sigaro, dove il sigaro si armonizza alla concentrazione, ma questa vive per conto suo in un pensiero a noi ignoto. E di Barthes, Scianna scrive, tra l’altro: “Mi sembrò timido, imbarazzato, non smetteva un istante di fumare il suo sigaro: le sue risposte erano nitide e perfettamente strutturate. Amaro, malinconico. Gli rimanevano soltanto tre anni di vita”.

Oppure questa su Ornella Muti
La bellezza di un sorriso pieno potrebbe essere la sintesi dello scatto, ma c’è un aspetto che dà più forza e originalità all’immagine: il movimento di rotazione verso l’obiettivo del volto.
Scrive Scianna: “Ornella Muti è stata una grande icona della femminilità per gli uomini della mia generazione. Quando ho avuto l’occasione di fotografarla era in piena, matura e vitale bellezza. E il suo sorriso non mancava certo di suggestione!”.

E infine Asia Argento. 
Qui  colpisce l’incontro delle guance tra l’uomo segnato dal tempo con gli occhi chiusi sognanti e la faccetta pulita e carina di lei.
E su di lei Scianna scrive, tra l’altro:: “E’ tenera, intelligente, colta e sbullonata. Molto simpatica. Così l’ho fotografata; ma i giornali la preferiscono solforosa e regressiva. Forse si preferisce così anche lei”.

Ferdinando Scianna. Visti&Scritti. Pag. 432. contrasto. Euro 24,90
             
   

"Mesi" di Folgore da San Gimignano


di Davide Pugnana

Di Folgore da San Gimignano, poeta delicatissimo, mi piace rileggere, al cadere e tornare di ogni stagione, quella «corona» in versi dedicata ai Mesi che pare scrisse per una brigata «nobile e cortese» che «in tutte quelle parti dove sono, /con allegrezza stanno sempre». In questa cornice, ogni sonetto somiglia a una piccola finestra festevole e sognante, dalla quale ammiccare a un mondo di cotone tutto pervaso da un'aria champagnina di spensierata gaiezza e di idillio cavalleresco. Per gli amanti delle equivalenze figurative, questo mondo trova il suo alter ego iconico nel ciclo trentino dei Mesi di Maestro Venceslao, proprio come Simone Martini sta a Petrarca e Giotto a Dante.
  
Ma da dove nasce la presa di modernità magnetica che Folgore esercita ancora sui lettori del 2018? Sarà quella levità musicale dei suoi versi, traforati di aria e di luce come garze bianche contro i cieli toscani; sarà quell'atmosfera incantata di sensuoso abbandono nel sogno di una mondanità cortese, sollazzevole e gaia; o sarà, forse, per quel potere di bucare la realtà che hanno unicamente le fiabe, quando sanno trasportarti in una sfera di maliosa irrealtà. Sarà per tutto questo.

O sarà, almeno per me che vado dietro alle cadenze della letteratura dei rêves, quell'accento prosodico fermo, di quarzo ma, al contempo, venato di tono nostalgico, simile a quello struggimento eliotiano di memoria e desiderio quando stanno chiusi negli autunni vibranti di commosse malinconie, così morbidi e vaghi da riuscire insopportabili e belli perché miniate su uno sfondo di paesi rigati da «prodi e cortesi più che Lancillotto».


Sonetto XXV
- Di novembre -
E di novembre a Petrïuolo, al bagno,
con trenta muli carchi di moneta:
le rughe sien tutte coperte a seta;
coppe d'argento, bottacci di stagno;

e dare a tutti stazzonier' guadagno;
torchi e doppier' che vengan di Chiareta,
confetti con cedrata di Gaeta;
bëa ciascuno e conforti 'l compagno.

E 'l freddo vi sia grande e 'l fuoco spesso;
fagiani, starne, colombi e mortiti,
levri e cavrïuoli a rosto e lesso;

e sempre avere aconci gli appetiti;
la notte 'l vento e 'l piover a ciel messo,
e siate nelle letta ben forniti

01 novembre 2018

"Conversazione su Tiresia " di e con Andrea Camilleri


di Silvia Chessa

Avvolti nel silenzio e nel buio della notte, dove solo le cicale osavano sussurrare un vibrante “in bocca al lupo”, nell’abbraccio alchemico di antiche pietre pregne di passato, salendo su quello stesso palco dove Eschilo dirigeva i suoi coreuti, l’11 giugno 2018, dal Teatro Greco di Siracusa, la voce di Andrea Camilleri (scrittore, autore amatissimo e popolare, con 30 milioni di libri venduti nel mondo, nonché padre di Montalbano), irrorata dalla magia del flauto di Roberto Fabbriciani (non saprei dire se fosse più flautata la voce di Andrea Camilleri o più umanizzata  quella emessa dal flauto, veramente magico, dell’impagabile Roberto Fabbriciani), ebbene quella voce si faceva corpo teatrale, dando vita alla più poetica attualizzazione del mito di Tiresia, vate omerico che profetava in versi.


Identificazione originalissima e però anche spontanea perché davvero Camilleri, avendo perso la vista è stato capace, da questo episodio, di trarre benefici e doni straordinari, ammantandosi di una mira precisa dal respiro lirico.


La personalità e la creatività erano già in dote a Camilleri, che non si sforza nell’identificarsi con il personaggio del mito, e addirittura arriva ad esserlo, e lo difende dalle accuse degli storici meno gentili come fossero rivolte a sé.


Tiresia è un personaggio simbolo che, come riscopriamo in questo evento-spettacolo, attraversa  pagine memorabili e luminosi versi, dai classici ai moderni, da Omero a Primo Levi, cangiando pelle ma non potenza, duttile, come pongo, a metamorfosi e mutamenti, sfuggente ad ogni identificazione, anche sessuale, per essere espressione di sapienza e facoltà di profetare in versi.



Camilleri novello Tiresia, vero testimone e vero vate, non solo ci parla di sé in una geniale e struggente identificazione col personaggio e mito di Tiresia, ma anche familiarizza e ci fa familiarizzare con classici come Omero, Ovidio, Stazio, Sofocle, Seneca, Dante, Poliziano, Milton, Borges, Apollinaire, Virginia Wolf, Pavese, Pound, Eliott, Pasolini, Primo Levi.
 
Frattanto ci chiama alla risata (scherzando sulla tragedia di possedere un cervello femminile, complicato, vendicativo in modo sottile o irascibile come quello di Era), allo stesso tempo attualizza il mito con riferimenti ai giorni nostri (discernere un serpente maschio da uno femmina è difficile come, oggi, distinguere un politico di sinistra da uno di destra), ci regala immagini dalla forte carica simbolica (il cardellino che, accecato, canta meglio).


Il tutto in una performance curata nei dettagli e scorrevole che parte dalla storia del poeta greco Anfione, dotato di virtù magiche, che per tre giorni rimase cantando, suonando, e poetando sul monte Citerone sino a che i grandi massi bianchi che costituivano la bellezza estetica del monte stesso ma che dovevano, invece, servire alla costruzione della città di Tebe, si staccarono spontaneamente e vennero giù rotolando come pecorelle incontro al loro destino di utilità per il mondo..


E alla poesia approda, lo spettacolo, concludendo l’excursus poetico attorno a  Primo Levi. Anch’egli ha tributato il suo omaggio a Tiresia, a lui ha intitolato, infatti, uno dei racconti della sua raccolta “La chiave a stella”; inoltre Levi, ci rammenta la voce di Camilleri, in un passaggio cruciale e conclusivo indicò, nella poesia, l’elemento salvifico che lo fece sopravvivere, nella detenzione nel lager nazista (orrore che neppure il migliore dei profeti poteva prevedere accadesse, infatti Camilleri Tiresia ammette di non aver potuto prefigurare i campi di concentramento e che nessun profeta avrebbe mai potuto immaginarli..), ad una metamorfosi ben peggiore di quella di Tiresia,  da uomo a donna. Senza la poesia Levi, prigioniero, con gli altri, nel campo di concentramento, dice di se stesso che si sarebbe trasformato da uomo a non uomo, un numero tatuato sulla pelle.

In questa appassionata lezione teatrale notiamo che Tiresia, peraltro, è stato la felice ossessione di Ezra Pound, comparendo nel primo e nell’ultimo dei suoi Cantos, e, dal momento che l’ultimo fu scritto a distanza di 40 anni dal primo, possiamo ben dire che il personaggio del vate tebano ha tenuto compagnia molto a lungo a Pound, una delle menti più dotte e poliedriche del Novecento, capace di coniugare sperimentalismi e afflati virgiliani.  


Ci tiene avvinti un'ora e mezzo questo monologo che Camilleri, 93enne lucidissimo, noto al mondo come scrittore ma qui al suo esordio come attore, padroneggia completamente a memoria senza -lo sottolineo con ammirazione ! - nessun ausilio o suggeritore.


Un monologo che, per contenuti e spessore, è pari ad una lezione cattedratica ma, per chiarezza e comprensibilità, è alla portata di tutti, dai toni leggeri come di una conversazione fra amici. Tutto ciò si sviluppa in una dimensione magica ma anche essenziale dove l'elemento barocco è dato solo dalla cornice del teatro e dalle innate suggestioni di una Sicilia che riaffiora a tratti con la sua storia antica, il femminino pagano e poi sacro, i suoi profumi inebrianti, il mare, le sue malie..

“Ci sono luoghi che come navi spaziali si muovono nel tempo..è come mettere il piede dentro un’astronave”, dice Camilleri a proposito del Teatro Greco di Siracusa.


E, in quel teatro astronave, Camilleri-Tiresia è in cerca, mette noi spettatori in cerca, dell’eternità.

E se, come scrive Borges, siamo tutti attori e spettatori al contempo, quel pizzico di eternità l’abbiamo scorta, e ci appartiene davvero, dal momento che lo abbiamo ascoltato, immerso nella eternante cornice scenica del Teatro Greco di Siracusa.



Memorabile questo debutto di Camilleri, condotto dalla regia intelligente di Roberto Andò e Stefano Vicario, che ne lasciano, senza forzature, librare il naturale talento.


Forte anche l’allaccio a una Sicilia barocca, dialettica e provocatrice, allaccio che infatti suggerisce a Camilleri-Tiresia due spiritosi accenni al suo Montalbano, in questa amichevole e poderosa narrazione.


Andando a dipanare la magica materia dei sogni ed incubi di Tiresia, questo soggetto cine-teatrale ha indicato a tutti noi la chiave per vedere oltre il buio, e intingere nella tinozza della poesia il sapere multiforme e infinito del nostro secolo, tecnologico e iperconnesso, ma che si arresta alla cronaca, laddove avrebbe la memoria e la potenzialità di veggenza del domani.


Parlo della bellezza. Non ci si mette a discutere su un vento d’aprile. Quando lo si incontra ci si sente rianimati.”, le parole sono di Pound, uno dei grandi poeti citati nello spettacolo. E così, parafrasando le parole di Ezra Pound, ci si sente rianimati dal pensiero che corre veloce in questo monologo che si conclude, per voce di Camilleri, con un appuntamento dall’ardire profetico, nello stesso posto, fra cent’anni.


Tiresia aveva una figlia, Manto, che ereditò i suoi prodigiosi poteri e che fondò Mantova.

Chissà chi potrebbe indossare le vesti di Manto, fra le attrici di oggi?

Ed ancora chi potrà, magari, ricevere il testimone di questa avventura teatrale e culturale? 

Personalmente mi auguro sia l’inizio di un ciclo del genere, e suggerisco agli autori di non dimenticare altre giganti figure come, a titolo d’esempio, la figura di Cassandra, o quella di Medea, viste dalla penna e dalla prospettiva intrigante di Christa Wolf.



“Conversazione su Tiresia”

Di e con Andrea Camilleri 

A cura di Valentina Alferj

Regia teatrale di Roberto Andò

Regia di Roberto Andò e Stefano Vicario

Musiche dal vivo di Roberto Fabbriciani



Prodotto da Palomar e distribuito in esclusiva al cinema da Nexo Digital

solo il 5, 6, 7 novembre 2018