25 settembre 2011

“Venezia” una foto di Gianni Berengo Gardin

di Gianni Quilici

Questa bellissima foto di Gianni Berengo Gardin richiede probabilmente anche fortuna (un po'), perchè qui “l'attimo decisivo”, teorizzato da Cartier Bresson si deve sincronizzare e comporsi non in uno, ma almeno in cinque-sei “attimi decisivi”.

Trovare il momento giusto dello scatto, in queste situazioni, può essere anche fortunoso. Ma qui conta intanto intravedere la foto, coglierne le potenzialità, stare all'erta e aspettare. Provare e riprovare.

Scattare uno, due, dieci volte, fino a quando..., perché, in quella scenografia, è possibile realizzare il piccolo capolavoro fotografico: scattare, cioè, un'immagine complessa, sia nella forma che nel senso, come è successo, in questo caso, a Berengo Gardin.

Infatti abbiamo una serie di volti-esistenze tutti significativi. Immaginate, infatti, di stampare la foto in grande formato. Immaginate l'uomo in basso sulla sinistra con occhiali, la mano poggiata sulla guancia, che sta interloquendo con qualcuno, fuori campo; o l'altro uomo sulla destra in alto con berretto, forse uno del personale del motoscafo, con quello sguardo diretto e interrogatorio; oppure i volti riflessi nello specchio, che si confondono con quelli reali von risultati un poco surrealisti..

Questi corpi si inseriscono in una composizione geometrica percorsa da linee verticali e orizzontali, nel contrasto netto di bianco e nero, come se fossero su un palcoscenico o appena dietro le quinte di un teatro, nella profondità della stratificazione che il rispecchiamento del vetro produce.

Tanti sguardi, che non si incrociano, tante possibili storie di un gruppo in fusione, colto nella naturalezza dello scorrere quotidiano, in un attimo in cui forma ed espressione felicemente si incontrano.


Gianni Berengo Gardin. “ Venezia. Motoscafo per piazzale Roma. ” 1930.

21 settembre 2011

“La scrittura” di Gianni Quilici



Cosa vuol dire per te scrivere?

Oltrepassarmi. Diventare, in qualche misura, altro da ciò che ero all'inizio. Compiere un movimento ( un viaggio?) culturale, mentale e infine, nei migliore dei casi, anche esistenziale.

In che modo?

Attivando una serie di conoscenze acquisite e facendole agire attraverso quel grumo di energie potenziali rimuginanti: presenti e latenti. In altri termini mescolando sapere e vitalità intellettuale in quel preciso momento.

Ti spieghi meglio?

Quando scrivi porti con te “qualcosa” del tuo patrimonio culturale, che potenzialmente è più grande di ciò che riesci ad esprimere: ci sono immagini, pensieri, storie, concetti, parole, simboli che, per lo più, sonnecchiano in qualche angolo della nostra materia grigia. Scrivere è mettersi nelle condizioni di tirarli fuori, chiarirli, concatenarli eccetera, eccetera. Per questo la motivazione, la tensione, i desideri più sono presenti, più bruciano, più sono radicali (vanno alla radice), più sono anche liberi da ciò che sanno, meno hanno bisogno di difendere a priori niente, meno hanno paura di dire ciò che non si ha coraggio di dire, più hanno punti di vista molteplici, più cercano di rispondere ai molti possibili “perché”....


19 settembre 2011

"Le parole ferite" di, Mario Del Plato

di Luciano Luciani

Veniva da Eboli, Mario Del Plato: quella terra di frontiera in cui anche Cristo si fermò, mentre Carlo Levi doveva spingersi appena poco più a sud per elaborare la cronaca, liricamente trasfigurata, dei costumi millenari di un meridione interno e interiore.

Semplice il mondo delle sue origini, duro, faticoso il suo apprendistato alla vita. Poi, alle soglie dell’età adulta, giovane uomo, fornito di un diploma magistrale, poco prima degli anni del boom economico, come tanti altri figli del mezzogiorno, anche Mario aveva cercato fortuna lontano dalla propria terra, nell’emigrazione, nella diaspora in Italia e nel mondo. Lui si era fermato in Toscana, a Lucca, dove aveva costruito un proprio progetto di vita e trovato il suo punto d’equilibrio umano, familiare, professionale. Un’esistenza semplice, la sua, serena, appagata: la famiglia, il lavoro, gli amici e tanti, tanti interessi. La fotografia, che gli regalava belle soddisfazioni, i viaggi, le lingue, la montagna…

Poi, l’infermità: una malattia terribile, devastante, di tipo degenerativo che, invalidando progressivamente il corpo lasciava inalterati lucidità e raziocinio per una sempre più dolorosa consapevolezza della propria condizione. Esemplare la sua reazione di fronte all’avanzare del male: non abdicare alla vita di sempre, non arretrare se non assolutamente costretto, ma continuare, con tenace testardaggine, a coltivare il giardino di un’esistenza normale anche se quel perimetro si andava inesorabilmente restringendo un giorno dopo l’altro.

Il suo coraggio e la sua passione di vita nonostante tutto sono ben testimoniati da un libro straordinario, L’ultimo treno per Kyoto, cronaca puntuale e dettagliata, tutta intrisa di ironia e autoironia, del viaggio compiuto da Mario, già costretto dalla malattia sulla sedia a rotelle, nientemeno che in Giappone, una meta lontana e per questo da sempre desiderata: l’ultimo tour della sua esistenza di uomo che tanto amava conoscere altri luoghi, altre genti, modi di vita differenti a partire dall’espressività linguistica. Un’ultima parentesi di serenità, mentre incalzano i giorni, sempre più difficili e dolorosi, di una malattia che, implacabile, non concede sconti: il corpo che non risponde più, Mario che, a poco a poco, non è più in grado di parlare, di interloquire. Gli viene a mancare la voce, perde la parola che da quel momento è appunto “ferita”, progressivamente sfigurata, sfregiata, costretta solo in forma di e mail e poi quando anche l’uso del pc diviene problematico ridotta a sms, l’ultima, l’unica, possibilità rimastagli per comunicare con gli altri. Ma dentro gli si agitava ancora un mondo: innanzi tutto di sentimenti, poi di ricordi, riflessioni, considerazioni sulla propria condizione che si andava facendo sempre più fragile e dipendente. E la tensione continua tra l’attaccamento alla vita e i pensieri, a volte il desiderio, della morte.

Morire, però, per chi è vivo, e sente e soffre, non è un fatto naturale. “Ogni morte” ha scritto Gesualdo Bufalino “è un assassinio. E se non si urla, vuol dire che si acconsente”. E Mario non acconsente.

Di questa lunga resistenza tratta questo suo ultimo, definitivo libro: un lungo, intenso, struggente, a tratti straziante, monologo interiore. Un inarrestabile flusso di coscienza che racconta non solo la malattia e le vita demidiata dal male, ma anche il coraggio per non arrendersi; la disperazione, spesso ma non sempre, lenita dalla “carità feroce del ricordo” di bei momenti vissuti, delle belle esperienze fatte, e il dolore allo stato puro, senza mediazioni possibili, di chi si percepisce unicamente come un peso per se stesso e per gli altri.

E poi il conforto della scrittura che aiuta a chiarirsi con se stesso e a entrare in un’estrema relazione con gli altri e consolazione della memoria che permette di continuare a viaggiare a ritroso negli anni. Per recuperare i tempi e i luoghi della famiglia d’origine, i nonni, i genitori, il mondo delle cose semplici di Eboli negli anni cinquanta e, ancora, ricordi di scuola, del servizio militare, della vita professionale nelle Ferrovie dello Stato. La moglie Daniela, la figlia Gioia, amici e parenti, uomini e animali entrano ed escono in queste pagine senza un ordine apparente se quello del procedere analogico del cuore e si mescolano col racconto, sbalzato in punta di penna con felice abilità narrativa, dei piccoli e piccolissimi atti di una vita forzatamente angusta e disadorna: l’arrivo di una nuova badante; i difficili rapporti con i medici; la condotta di Tobi, il cane di casa, quasi una persona di famiglia, mordace e perennemente impegnato ad abbaiare a tutto e tutti; le medicine e le terapie che poco possono fare per uno stato di salute che non migliora, non può migliorare.

Pagine che si fanno sempre più lancinanti, dense, precipiti a mano a mano che si procede verso la fine, quando sempre meno nascosta si fa la presenza della “dolce fanciulla / che dice all’orecchio: Più Più”. Un incontro che Mario sembra attendere da tempo: Solo alla morte non c’è soluzione perché essa stessa è la soluzione per eccellenza.

Sono le sue ultime parole ferite.


Mario Del Plato, Le parole ferite, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2011, pp. 142, Euro 10,00

15 settembre 2011

"La struttura strappata" di Stefano Morelli

di Nadia Davini

Solo realtà, niente più. La Struttura Strappata di Stefano Morelli (viareggino, classe '79, fotografo professionista) è la trasposizione scritta e fotografata, formato libro tascabile, di un'esperienza di vita consumata in tre mesi.


E di un progetto molto più ampio, “Re..mi..famiglia” ideato dalla cooperativa lucchese “L'Impronta Onlus” che prevede il monitoraggio delle famiglie dei minori stranieri ospiti del centro Carlo del Prete di Lucca nel paese di origine.

90 giorni di appunti, di conoscenza e soprattutto di scatti in posa, scatti liberi e autoscatti; tre mesi di lavoro, durante i quali i protagonisti indiscussi sono diventati i ragazzi che vivono nella Comunità Carlo del Prete e la loro quotidianità trascorsa all'interno della struttura e in città. Proprio loro, quei ragazzi albanesi, di età compresa tra i 14 e i 18 anni, divisi tra emigrazione e ritorno nel paese di origine. Tra la speranza, che sa di desiderio, di trovare una sistemazione, un lavoro, un futuro economico stabile e la sofferenza determinata dall'allontanamento, dalla nostalgia della propria famiglia, dalla voglia di tornare a casa e strutturare lì la propria vita, ricucendo così quello strappo iniziale che ogni adolescente si porta impresso negli occhi.

La struttura strappata, infatti, è una vera e propria condizione sociale e psicologica che accompagna i ragazzi per tutto il percorso della crescita e con la quale devono continuamente confrontarsi. Ed è in questo strappo che si inserisce la potenza della fotografia: in una prima serie di scatti vengono ritratti gli adolescenti impegnati durante la loro quotidianità italiana; la seconda serie, invece, vede come soggetti scelti i familiari rimasti in Albania.

Gli scatti degli uni, poi, sono stati consegnati agli altri e viceversa, fotografando anche i momenti della riconsegna: la fotografia, in questo modo, è diventata il mezzo di comunicazione visuale tra queste due parti di mondo, tra queste due metà così presenti e, talvolta, così ingombranti dentro ogni ragazzo.

Leggendo il libro è sorprendente come le immagini riescano a catalizzare interamente l'attenzione del lettore, irrompendo con significato e consapevolezza sulla scena del libro. E lasciando un senso di intimità profonda con quanto viene letto e, in qualche modo, vissuto di rimando.

Non a caso la forza de La struttura strappata sta proprio in questo: creare un ponte continuo tra i nove ragazzi che hanno preso parte al progetto, creare un collegamento ancora più ampio con le famiglie in Albania, utile per una maggiore integrazione e conoscenza anche all'interno della stessa comunità e nel nuovo ambiente di vita e, infine, dar vita a una connessione spontanea con il pubblico dei lettori. Che si sente indirettamente parte, attivo in questo processo di ricerca delle origini con l'uso delle immagini.

Stefano Morelli, d'altronde, nasce fotografo e i suoi scatti ne sono una testimonianza: in ogni fotografia si delinea uno spessore che colpisce, come se ognuno di quei soggetti ripresi avesse una storia esemplare da raccontare.

Esemplare per il coinvolgimento dell'autore e per la sua volontà di scattare sempre e comunque. Di testimoniare, come una sorta di impegno quotidiano. Esemplare per l'argomento in sé, per l'emergenza che solleva, per l'attualità che ci vede tutti coinvolti. Esemplare, infine, per il senso intrinseco del libro che, per dirla con le parole dell'autore, “si è sviluppato con l'obiettivo di abbattere i muri della distanza, delle diversità culturali tra il paese di origine e il paese adottivo, di aiutare il minore immigrato a ricostruirsi una nuova identità conforme al nuovo ambiente, creando e ri-creando, attraverso l'uso della fotografia, connessioni tra i ragazzi e le loro famiglie – che tornano ad essere ognuna davvero una struttura che connette”.


Stefano Morelli, La struttura strappata, Bonanno Editore, Roma 2011, pp. 95, euro 10.


Per maggiori informazioni: www.stefanomorelliphoto.com www.improntacoop.it



11 settembre 2011

"Il cielo senza sole" di Beppe Calabretta

di Luciano Luciani
Umiliato e/o offeso, deluso e/o sconfitto, perdente e/o in fuga, sempre l’eroe del romanzo novecentesco – ovverosia quello senza qualità, quello Normale – ama il recupero memoriale, quel gesto di tenerezza nei confronti del mondo che conosciamo e che tutti, chi più chi meno, abbiamo praticato: il ricordo, l’unico Eden dal quale non possiamo essere cacciati.
Ma non è solo tenerezza. Far scorrere davanti agli occhi della mente il vecchio film delle emozioni e delle passioni, degli entusiasmi e dei dolori, delle amicizie e degli affetti, delle vittorie e dei rovesci, può aiutare, anche se, come dice il poeta, il ricordo della felicità non è più felicità, mentre il ricordo del dolore è ancora dolore.
Può aiutare a capire. Può aiutare a vaccinare contro il ripetersi delle condizioni che hanno portato alla sconfitta. Dove ho sbagliato? E perché? Avrei potuto fare meglio? Fare almeno diversamente?
Ognuno di noi ha assaporato questi momenti dolciamari di riproblematizzazione delle vicende importanti della propria esistenza. Ripensarle, reinterpretarle alla luce di una maggiore esperienza di vita. Leggere quegli avvenimenti, quelle avventure del corpo e dello spirito, nella più ampia prospettiva di una raggiunta maturità personale e umana, assolversi e/o condannarsi, imparare finalmente a fatica a convivere con se stessi fa parte, tanta parte, del quotidiano gioco della vita.
Tanti, tutti (?), più o meno consapevolmente, conduciamo questo gioco agro e mielato, feroce e morbido: solo una minoranza ristretta, però, lo racconta, magari sul divano dell’analista. Ancora meno sono coloro che questa altalena presente/passato la mettono nero su bianco; pochissimi quelli che lo sanno fare e Beppe Calabretta è tra questi.
Ma se si trattasse solo di un “inventario esistenziale”, Il cielo senza sole rientrerebbe nell’ambito di un onesto, decoroso deja vu. C’è invece dell’altro, in questa opera prima, molto altro: ed è proprio questa densità di temi, in genere inesplorati e abbandonati dalla narrativa, che merita attenzione e rispetto da parte del lettore, del recensore, del critico. Come per esempio, la storia complessa e tormentata di una educazione, quella dei sentimenti e delle idee, di un bambino degli anni cinquanta, che si fa adolescente negli anni sessanta: i favolosi anni sessanta – do you remember? – che, per chi c’era non erano favolosi per niente, anzi! Tempi duri, durissimi ormai lontani ma ancora poco trattati – e male – sia dal romanzo, sia dalla storiografia.
I “riti di passaggio” – dall’infanzia all’adolescenza e da questa all’età finalmente adulta – del protagonista, emblematicamente battezzato Normale, si svolgono, infatti, sullo sfondo di un’Italia povera e dignitosa, quella che, tra mille contraddizioni, e lacerazioni, pesantemente sofferte in corpore vili, nella carne e nella psiche degli inconsapevoli protagonisti della silenziosa rivoluzione che va sotto il nome di miracolo economico, andava conoscendo una forzata modernizzazione negli stili di vita, nei comportamenti privati e pubblici, nei consumi, nel linguaggio e perfino nelle abitudini sessuali.
Le umanissime gesta di Normale, figlio di contadini meridionali proprietari di un fazzoletto di terra, si stagliano sugli scenari di un Sud ora assolato, polveroso e dalla luce accecante, ora freddo, umido e preda della brutalità della natura e della storia. Partecipa, il protagonista, al vecchio mondo rurale e insieme alle dirompenti novità del passaggio violento da una collettività immobile e ingiusta alla società industriale con i suoi miraggi di benessere, i suoi bisogni, i suoi inediti malesseri.
Ed ecco raccontata l’apparizione della televisione – un tema che raccomandiamo agli storici del costume e della mentalità – e la sua formidabile forza omologante che su secolari forme di coscienza preesistenti sovrappone nuove consuetudini e condotte.
Ecco – e sono tra le pagine più gustose del libro quelle del difficile rapporto tra Normale e la scuola – il tormentato accesso all’istruzione e alla cultura anche per i figli dei contadini.
Ecco, ormai narrati attraverso i primi vent’anni di vita del protagonista, gli altri fenomeni salienti di quella fase decisiva: il declino della religiosità, il richiamo delle città; l’emigrazione dal sud al nord; dalle campagne alle città, dove erano concentrati capitali, risorse, capacità, conoscenza, per cui a centinaia di migliaia, a milioni di Normale non restò che il treno del Sud, le valigie di cartone, l’emigrazione, anonimi protagonisti di un rimescolamento senza precedenti nella storia d’Italia, eroi senza nome di un esodo di proporzioni bibliche su cui si fondano ancora oggi, nel bene e nel male, gli equilibri della nostra società.
Ma non sarà per caso che la nostra memoria personale, elevata a paradigma storico prende la mano a Calabretta? Niente affatto, ecco cosa scrive un acuto osservatore della società italiana di quegli anni, lo storico inglese Paul Ginsborg: “Per i giovani… la lusinga della città era irresistibile. Alla sera, nelle piazze dei paesi meridionali non parlavano d’altro. La televisione del bar locale trasmetteva immagini del Nord, immagini di un nuovo mondo consumistico, fatto di Vespe, radio portatili, campioni sportivi, nuove mode, calze di nylon, vestiti di serie, case piene di elettrodomestici, gite domenicali nella FIAT di famiglia.
I giovani, generalmente scapoli, erano i primi a partire. Erano i più scontenti, i più duri, i più determinati”. (P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, To, 1989, pp.299-300).
Nelle pagine finali del suo bel romanzo, con grande sensibilità e senza retorica, Calabretta, forte di una scrittura incisivamente realistica, ci racconta anche tutto questo; ma, si tranquillizzino i lettori, siamo ben lontani dall’ormai desueto romanzo sociale, sebbene motivi che in qualche modo possono richiamarlo scandiscano tutta quest’opera prima e ne rappresentino la parte ancora irrisolta e da riprendere e sviluppare successivamente con maggiore autonomia e convinzione.
Il cielo senza sole ci appare piuttosto il racconto, fortemente segnato in senso autobiografico – e in questo caso felice l’autobiografismo non è un limite, piuttosto un elemento che innerva tutta la vicenda e le dà spessore e credibilità – di un’iniziazione; o meglio di una serie di iniziazioni, quelle liturgie laiche a cui il maschio del nostro tempo di volta in volta è costretto per entrare a far parte della casa “degli uomini”. Non a caso il protagonista si interroga continuamente: “Quand’è che ho incominciato a vivere?”.
Ma se nel mondo antico o nelle società primitive i riti per i giovani che stanno per diventare uomini sono eseguiti in luoghi appartati fuori dagli sguardi dell’altro sesso, per Normale le donne sono sacerdotesse desiderate e necessarie, le ministre sensuali e misteriose della complicata cerimonia d’ingresso. Alla società e alla Storia tocca invece garantire le altre condizioni indispensabili: il duro addestramento, le prove di resistenza e di fermezza d’animo. Solo così e solo dopo, Normale potrà rinascere a nuova vita, più cosciente di sé, del proprio valore, del senso del proprio destino nel mondo.

Beppe Calabretta, Il cielo senza sole, Bonaccorso editore, Verona 2011, pp. 180, Euro 15,00

“Dei miei sospiri estremi” di Luis Buñuel

di Gianni Quilici

Premette Luis Buñuel: “Non sono un uomo di penna. Dopo lunghe conversazioni, Jean-Claude Carrière, fedele a tutto quello che gli ho detto, mi ha aiutato a scrivere questo libro”.

Ed è un libro che scorre leggero e fluente, sempre interessante, per chi conosce il cinema di Buñuel, ma anche per chi non lo conosce.

Per quello che l'autore racconta di sé: l'infanzia e gli studi di Madrid, l'avventura parigina nei mitici anni venti e l'incontro con i surrealisti, la guerra civile spagnola e la Hollywood degli anni d'oro, gli amori e le amicizie, i tanti film girati...

Per il semplice fatto che Buñuel è Buñuel e alimenterebbe comunque la curiosità di chi ama il suo cinema e il suo personaggio.

Infine per il contesto storico in cui ha vissuto, che ha scolpito una parte importante della storia culturale del '900.

Colpisce in “Dei miei sospiri estremi” il contrasto tra il Buñuel giovanile surrealista, anarchico, rivoltoso, provocatorio e il Buñuel presente (il libro è stato pubblicato nel 1982) quasi sereno, quasi pacificato, molto ironico; e rimangono alcuni capitoli indimenticabili: i tamburi del paese natale e l'impegno attivo nella guerra civile, il ritratto di Garcia Lorca e di Salvador Dalì, di André Breton e di Fritz Lang, l'impegno attivo nella guerra civile e le vicissitudini intorno a quel capolavoro che è “Un chien andalou”, infine le riflessioni distaccate sulla morte.

Un capitolo pungente e personalissimo è il gioco del “pro e contro”. Per darne un'idea cito alcuni titoli così alla rinfusa, senza le motivazioni.

Ho amato Sade...Ho adorato Wagner...Mi piace mangiare presto...Mi piace il rumore della pioggia...Non amo i paesi caldi...Non mi piacciono molto i ciechi...Detesto la pedanteria e il gergo...Odio e detesto Steinbeck...Mi piace l'arte romanica e il gotico...Mi piacciono i chiostri..Aborro i fotoreporter...Mi piace la puntualità.. Amo e non amo i ragni..Adoro i bar, l'alcol e il tabacco...Aborro la folla...Mi piacciono i piccoli arnesi...Amo gli operai..Adoro i passaggi segreti...Mi piacciono le armi e il tiro... Ho detestato Roma città aperta....Mi piacciono i bastoni animati... Non mi piacciono le statistiche... Mi piacciono le bisce e soprattutto i topi... Ho molto amato la letteratura russa... Mi piacciono le torte alla crema...” e così via.

Naturalmente il libro è inferiore ai suoi film, perchè il libro è pieno di aneddotti e episodi, notizie e informazioni, sempre di grande interesse, ma senza l'unitarietà e la profondità dei suoi film, ma ciò che si percepisce è l'affinità dell'uno con gli altri. Ed è una affinità, che scorre nella leggerezza, che nasce dal piacere di comunicare direttamente senza giri di parole e senza alcuna sorta di narcisismo; ed è l'utilizzazione -nella scrittura come nell'immagine- dell'esperienza surrealista: scivolare tra realtà, immaginazione e sogno, sconnettere spesso il discorso con libere digressioni. Ne consegue un raccontare lieve e libero, privo, nel bene e nel male, di ideologie; ricco, invece, di ironia e di intelligenza.


Luis Buñuel. Dei miei sospiri estremi. SE.

























05 settembre 2011

"La Garfagnana, l’Ariosto e don Chisciotte"

di Luciano Luciani

Raccontano che proprio sugli scenari di una Garfagnana verdissima e ancora selvaggia, tanto rigogliosa nei suoi scenari naturali quanto rude nelle relazioni civili, Ludovico Ariosto abbia riveduto, corretto, rielaborato definitivamente le ottave del suo Furioso, affinandole sino alla più assoluta perfezione stilistica.

In una parola, proprio nella Rocca di Castelnuovo, il poeta emiliano realizzò la decisiva, risolutiva fondazione di quel mondo epico – cavalleresco in cui, finalmente libero dagli impacci medioevali, il Rinascimento maturo ha riflettuto e sublimato i suoi spiriti e i suoi valori. L’umanissima cifra umana dell’esperienza e della vita che rappresentano il senso più intimo, più profondo del poema ariostesco si alimentano della libertà della fantasia e dell’armonia, si nutrono di uno straordinario mix tra realtà, finzione e sogno in un equilibrio formale che è soprattutto conquista e misura interiore.

E’ proprio partendo dal faticoso lavoro di revisione e correzione, compiuto nelle stanze della Rocca, tra le angustie proprie della politica e le quotidiane difficoltà di amministratore, che l’Ariosto trasferì ai letterati europei delle generazioni a venire un “immaginario” aperto all’avventura, sensibile al soprannaturale, pronto a cogliere le infinite suggestioni del fantastico. E’ con il poeta di Orlando e Sacripante, di Angelica e Medoro, di Ruggiero e Astolfo che si compie il passaggio dall’epos al romanzo, un lascito di cui tutta la letteratura europea gli deve essere grata: non ultimo lo stesso Cervantes, che raccoglie, aggiornandola alla sua epoca di crisi, un tempo di grandezze e miserie, el siglo de oro della letteratura spagnola, l’esigenza di valorizzare il sogno, la fantasia, l’ignoto, la follia, l’istinto, portando all’aperto le zone opache della coscienza umana.

Di ariostesco il Don Chisciotte mantiene il desiderio incontenibile di condizioni esistenziali in cui l’uomo non sia più irrigidito nel gioco prestabilito dei rapporti sociali, ma possa realizzare a pieno la propria individualità: il folle e idealista cavaliere della Mancia e Sancho, il suo scudiero dal tenace realistico buon senso, sono espressioni diverse di questa esigenza, il motivo centrale di quello che, a ragione, può essere definito il primo grande romanzo moderno.

Ma nel Don Chisciotte c’è, ovviamente, di più e altro

È, il Don Chisciotte, un romanzo prettamente moderno perché mette radicalmente in discussione le fondamentali acquisizioni rinascimentali: l’equilibrio del rapporto uomo/natura, la fiducia nella realizzabilità del progetto umano. Al loro posto subentrano lo scontro, la sconfitta, il senso dello scacco, l’acre sapore del disinganno, mentre la realtà s’è fatta sfuggente, contraddittoria, ambigua, governata da una perenne incertezza dei confini tra reale e irreale.

Nel Don Chisciotte s’è spezzato il rapporto tra la felicità dell’essere e l’angustia di esistere, tra la fantasia e la vita, si è determinata quella scissione irrimediabile tra coscienza ed esistenza che continua ancora oggi a dominare la nostra esperienza quotidiana di uomini affacciati sul precario balcone del terzo millennio: ora savi, ora folli, tragici e comici come l’immortale eroe/antieroe di Miguel de Cervantes.



03 settembre 2011

"Tra cibo e letteratura: Il carciofo" di Luciano Luciani

Un carciofo poetico

Il più bell’elogio letterario del carciofo? Senz’altro quello che possiamo leggere nelle Odas elementales di Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971: così, attingendo al suo sentimento appassionato per la natura e a una concezione materialista dell’esistenza, il poeta cileno trasfigura poeticamente il nostro simpatico ortaggio riuscendo a trovare più e meglio che per altri motivi ispiratori accenti di rara semplicità e intensità:

Ode al carciofo

Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
ispida edificò una piccola cupola,
si mantenne all'asciutto sotto le sue squame,
vicino a lui i vegetali impazziti si arricciarono,
divennero viticci,
infiorescenze commoventi rizomi;
sotterranea dormì la carota dai baffi rossi,
la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino,
la verza si mise a provar gonne,
l'origano a profumare il mondo,
e il dolce carciofo lì nell'orto vestito da guerriero,
brunito come bomba a mano,
orgoglioso, e un bel giorno, a ranghi serrati,
in grandi canestri di vimini,
marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno:
la milizia.
Nei filari mai fu così marziale come al mercato,
gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano i generali dei carciofi,
file compatte,
voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade,
ma allora arriva Maria col suo paniere,
sceglie un carciofo, non lo teme, lo esamina,
l'osserva contro luce come se fosse un uovo,
lo compra,

lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe,
con un cavolo e una bottiglia di aceto finché,
entrando in cucina,

lo tuffa nella pentola.
Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama

carciofo,
poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica

pasta
del suo cuore verde.



Passato indenne attraverso le tempestose vicende del futurismo italiano, il poeta romano Luciano Folgore (1888 – 1966) fu anche e soprattutto giornalista, umorista, autore di testi teatrali e radiofonici, di versi per ragazzi, di favole, di scherzose parodie dei poeti e prosatori a lui contemporanei… Scrittore eclettico, alla sua riconosciuta versatilità, va aggiunta la dote, davvero fuori dell’ordinario, di sapere trasformare in divertenti testi poetici le ricette. Soprattutto quelle della Capitale, città dove trascorse tutt’intera la sua esistenza: da un suo libro ormai introvabile, Romani a tavola riportiamo i versi gastronomici relativi alla realizzazione di un piatto tipico della cucina ebraico romanesca, i celeberrimi


Carciofi alla giudia


Si prendono carciofi romaneschi

grossi, teneri e freschi,

e si levano lor le prime foglie

poscia a quelle che restano si toglie,

mediante un affilato coltellino,

la parte dura per lasciar la molle.

Dopo aver tornito per benino

le panciute corolle,

si immergono nell’acqua d’un catino,

dal succo di limone acidulata, poi si dà lor col panno un’asciugata,

si schiacciano un pochino sul tagliere,

si condiscon col pepe e col sale,

si mettono a giacere nel tegame ospitale

e immerse in abbondante olio d’olivo

si fanno cuocer sopra un fuoco vivo.

A cottura ultimata troveremo

che il carciofo somiglia a un crisantemo

dalla corolla tonda e spampanata;

allora con la mano

spruzzeremo (tenendoci lontano)

sopra l’olio bollente acqua gelata

e il carciofo nell’olio scoppiettante

presto diverrà d’oro croccante.

A questo punto il piatto è bello a posto

pronto a dar molti punti al pollo arrosto,

al timballo, al budino, allo sformato,

ed ogni morto appetito

verrà rimesso a nuovo e invigorito

ché tale piatto è (chi lo nega ha torto)

roba da far risuscitare un morto.

Questi sono i carciofi alla giudia

dal torso snello e dal sapor gustoso

chiamati in romanesco sciccheria;

dan lustro e vanto alla gastronomia,

riconcilian la sposa con lo sposo,

ammansiscono la suocera più arpia,

e a pranzo, a cena, a casa e all’osteria,

oro croccante, amor d’ogni goloso,

questi sono i carciofi alla giudia.



Una ricetta di Isabel

Scrittrice forse sopravvalutata, Isabel Allende è, comunque, un’ottima giornalista che sa come rivolgersi al pubblico dei lettori e intrattenerlo con divertita ironia. Risale al 1998 quello che, a parere di molti, è il suo libro migliore, Afrodita, Racconti, ricette e altri afrodisiaci, pagine in cui, come scrive l’autrice latinoamericana, “Non posso separare l’erotismo dal cibo e non vedo nessun buon motivo per farlo; al contrario, ho intenzione di continuare a godere di entrambi fino a quando le forze e il buon umore me lo consentiranno” (p.11). Libro ‘gustoso’ che per mesi ha saputo tenere la testa nelle classifiche dei best seller planetari, a proposito del carciofo la Allende se la cava con alcune considerazioni un po’ ovvie, un po’ stiracchiate: “Si mangia con le mani e con lentezza: c’è un che di rituale nel denudare il carciofo privandolo delle foglie a una a una per intingerle in una salsa di olio, limone, sale e pepe, e condividerle poi con l’amante” (p. 198). Migliori le ricette al sapor di carciofo e la romanziera non ce ne vorrà se ne riportiamo una per intero, lieve al gusto e per la scrittura

Da Afrodita

Sospiro di carciofi

Ingredienti

2 carciofi bolliti

½ tazza di panna da montare

(o ½ confezione di panna liquida da cucina)

1 cucchiaino e ½ di gelatina rapida

(o 1 cucchiaino e ½ di colla di pesce)

sale e pepe


Fai bollire i carciofi per almeno 30 minuti fino a quando le foglie si staccheranno facilmente. Scolali bene e lasciali raffreddare. Togli la polpa dalle foglie aiutandoti con un cucchiaio, pulisci i cuori e trita tutto. Condisci con sale e pepe. Sciogli la gelatina o la colla di pesce in un po’ d’acqua bollente.

Monta la panna fino a farla diventare spumosa. Se usi la panna liquida dev’ essere fredda, quasi gelata, al momento di essere lavorata. Metti tutto nel frullatore per qualche secondo fino a ottenere un impasto omogeneo che dividerai in due stampini imburrati. Tienili in frigorifero per almeno 2 ore, rovesciali e servi con una salsa a piacere (maionese casereccia, salsa tartara, vinaigrette francese, salsa leggera o salsa in tre minuti).

Grazie, Isabel… e a buon rendere !