24 febbraio 2016

“Terra matta” di Vincenzo Rabito



di Camilla Palandri


La visione casuale di “Terramatta “un bel documentario del 2012 diretto da Costanza Quatriglio, ha suscitato in me la voglia di leggere il libro,partendo così per una volta da un ordine inverso.
Sono rimasta colpita da questa singolare narrazione , dallo sforzo notevole fatto l’autore per mettere in forma scritta la storia della sua lunga e movimentata esistenza.

Vincenzo Rabito è un siciliano di Chiaramonte Gulfi ,un paesino in provincia di Ragusa, bracciante, soldato, carpenterie; è semianalfabeta e solo a 35 anni riesce a prendere la licenza elementare. In età avanzata, si isola nella sua stanza per sette lunghi anni e con una vecchia Olivetti raccoglie in più di mille pagine ad interlinea zero senza alcun margine la sua “ molto maletrata e molto travagliata e molto disprezata vita.”

L’opera è rimasta in un cassetto fino al 1999 quando il figlio Giovanni l’ha inviata all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano che raccoglie diari e memorie di gente comune che narrano, in varie forme, la storia d’Italia.
Nel 2000 il libro ha vinto il “Premio Pieve- Banca Toscana”. Nel 2007 è stata pubblicata la versione ridotta di quello che fu definito da un giurato il “capolavoro impossibile” .

Il testo è stato suddiviso in capitoli per dargli maggiore organicità e facilitarne la lettura che tuttavia risulta abbastanza impegnativa proprio per il linguaggio utilizzato, una forma prevalentemente orale infarcito di parole siciliane continuamente separate da punti e virgole. La versione comunque si attiene fedelmente al testo e allo stile dell’autore ed ha l’unico scopo di rendere fruibile l’opera .

Superato l’impatto iniziale, anche se la velocità di lettura è continuamente rallentata dalla necessità di capire le parole che cambiano continuamente forma pur quando sono le stesse, la narrazione coinvolge sempre di più per il ritmo intenso e le vicende e vicissitudini che si susseguono incessantemente. Mai c’è per il protagonista un momento di tregua, sempre nuove peripezie lo attendono nella sua lotta quotidiana per la sopravvivenza, sempre deve escogitare nuovi stratagemmi ,usando l’astuzia e mille
sotterfugi, cambiando camaleonticamente “casacca” a seconda del periodo storico per adattarsi al nuovo e garantirsi una possibilità di lavoro.

La narrazione attraversa cinquant’anni di storia italiana, dalla prima alla seconda guerra mondiale, al sogno fascista dell’impero coloniale, alla miseria del dopoguerra fino al boom economico degli anni 60 , “la bella ebica”, di cui godranno i figli.

Ne esce un affresco vivo e molto pittoresco, a volte comico, soprattutto quando parla del suo difficile rapporto con la terribile suocera “impriaca di nobiltà. “
Più che in una lettura sembra di essere immersi in un racconto orale , ascoltare la storia dall’altra parte, come l’ha vissuta un uomo umile, un racconto che emoziona e appassiona.
“Se all'uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare” e la vita di Vincenzo Rabito è stata un vero romanzo.

Vincenzo Rabito .Terra matta. Edizioni Einaudi, pag.411.





16 febbraio 2016

“La cacca che ci salvò dalla fame. Strane storie e tipi strani” di Luciano Luciani



di Marisa Cecchetti

Ricevere un libro con tale titolo un po’ sorprende, anche se rapidamente riagganci le lezioni di geografia a proposito delle isole del guano, niente altro che strati spessi di escrementi di uccelli con funzione di ottimo concime naturale, e  ricordi anche la tua infanzia in campagna quando lo sentivi nominare, da spargere nei campi. Tant’è. Ma lo stupore della scelta editoriale rimane.

Senza dubbio deve aver fatto il suo sorrisino contento e un po’ furbetto il Luciani, che ama scrivere storie di ogni tipo. Con il precedente, Le donzelline. Donne d’amore nell’Italia rinascimentale (ETS 2014),  ha indagato e raccontato il mondo delle prostitute di alto bordo nel ‘500, donne colte e rispettate, anche dalla Chiesa che ne aveva i suoi buoni motivi.

Questo libro raccoglie invece le storie più diverse fra loro e strane, come se Luciani si fosse tolto tutte le curiosità che gli passavano per la testa. Le streghe? Le cavallette? Il guano? La Befana? Il caffè? Il dirigibile? Che storia mai ci sarà dietro? Indaghiamo. E personaggi come Edgar Allan Poe, Henry Toulouse Lautrec - e si parla di  nomi universalmente noti- ma anche  tale Domenico Barbaja o tale Pierre Loti. Chi erano costoro? Ricerchiamo!

Perché ha fatto questa scelta atematica, lui che ha insegnato nei licei a sviluppare i lavori di Italiano su tracce coerenti? Forse perché si vuol divertire, ora che ha più tempo libero . In realtà lo spiega lui nella prefazione: “A me mi hanno salvato le storie”. Fin d’ora scopriamo la sua voglia di non prendersi sul serio. Lui dice che dopo gli eroici furori della sua età liceale, quando credeva nella giustizia sociale, dopo un periodo in cui i fatti sembravano dargli ragione, le cose alla fine non sono andate nella direzione della giustizia sociale agognata: “A farmi dolorosamente ricredere ci pensarono la strategia della  tensione e i fatti del Cile, il terrorismo nero e quello rosso, Reagan e il craxismo, la marcia dei quarantamila e l’omologazione galoppante di quella classe operaia che, secondo i voti miei e di quelli come me, avrebbe dovuto “dirigere tutto”. La caduta del muro di Berlino lo trovò “incapace di comprendere il rifiorire degli antichi egoismi nazionalistici e i nuovi fondamentalismi economici e religiosi”.

Deluso dalla grande Storia, Luciani si è salvato con le piccole storie, che gli hanno dato il gusto di dissotterrare fatti dimenticati o mai indagati a fondo. Ecco il perché di questo piccolo libro.

Luciani è perfetto nell’indagine, cerca nelle leggenda, nella letteratura, nella storia, nelle tradizioni popolari. Non gli sfugge niente e racconta con una prosa chiara che si colora di lieve ironia quando è necessario, sa calcare sullo stupore, non nega l’intervento dell’autore qua e là.

Se dapprima la mancanza di un filo conduttore un po’ destabilizza il lettore, poi la originalità e la esaustività dei singoli racconti incuriosisce e coinvolge.

Luciano Luciani, La cacca che ci salvò dalla fame. Strane storie e tipi strani. Edizioni ETS 2015, € 12, pag. 120

12 febbraio 2016

"Storia di David, il dislessico fingitore" di Alex Nile



di Daniela Toschi

Nel titolo dato alla versione italiana di questo libro pare evidente che il traduttore si è ispirato alla nota poesia di Pessoa. Come il poeta, forse anche il dislessico è fingitore: deve nascondersi, portare una maschera per proteggere se stesso e gli altri, come dice a un certo punto David, il protagonista. E’ costretto a dissimulare tante cose, e in primo luogo “a fingere che non è dolore il dolore che davvero sente”…

Un mondo affascinante, quello della dislessia, cui appartengono alcuni dei massimi geni creativi ma anche tante persone comuni.

Parlando di dislessia viene da pensare ai bambini di cui finalmente si occupa la legge 170 del 2010, trascurando il fatto che ci sono altrettanti adulti, mai diagnosticati e mai informati sui motivi per cui ai tempi della scuola avevano difficoltà così strane, a dispetto della loro vivace intelligenza. E questo soprattutto in Italia, vista la peculiare lentezza con cui in questo paese si è giunti ad affrontare il problema.

Adulti che si nascondono, temendo a ragione di non essere compresi e di essere soggetti a perfidi pregiudizi. E che magari, essendo spesso geniali e portati a raggiungere il successo, solo dopo averlo ottenuto osano riaffrontare le terribili cicatrici del periodo scolare per chiedersi: “Ma cosa c’era in me che non andava? Perché per me la scuola è stata un tale inferno?” E così giungono alla diagnosi. Come è accaduto, tra gli altri,  a Steven Spielberg, che ha chiarito di essere dislessico solo pochi anni fa e lo ha dichiarato di recente.

In Italia attualmente sono pochissimi i centri pubblici dove un adulto o un giovane adulto può essere diagnosticato, tramite appositi test.
Ma anche vicino a noi stanno iniziando a sorgere centri dove vengono adeguatamente supportati gli studenti universitari. Giovani talenti da coltivare, se riescono a superare l’impatto tremendo con l’istituzione scolastica, ancora, globalmente, alquanto dislessica nei confronti della la dislessia. Molti, forse, non ci riescono.

L’autore di questo romanzo breve, Alex Nile, ci risulta essere il nome d’arte di un accademico inglese, lui stesso dislessico, che ha scritto e curato diversi trattati sul tema, non da ultimo “Dyslexia and creativity”.

Intendiamoci: la creatività dislessica non va intesa come qualcosa di estroso, stravagante o necessariamente artistico. È piuttosto, secondo la definizione più corretta e concreta del termine ‘creatività’,  la capacità di trovare nuove soluzioni, di risolvere quei problemi complessi che costituiscono una sfida al pensiero comune. Da cosa deriva? Ci sono varie ipotesi: pensiero laterale rispetto al pensiero verticale, possibilità di sfuggire alla “euristica dell’ancoraggio” proprio grazie al deficit negli automatismi e all’incapacità costituzionale di conformarsi, e così via.  Ma l’autore ci fa venire in mente anche il concetto di “crescita post-traumatica”: il trauma (o meglio, in questo caso,  i numerosi traumi subiti sin dal primo contatto con la scuola) oltre ad effetti distruttivi reca anche effetti costruttivi, inducendo una precoce maturità e una spinta a trovare strategie di sopravvivenza e di ricostruzione continua di una immagine positiva di sé e degli altri quotidianamente minacciata.

Il libro è ambientato in Inghilterra, dove l’interesse per la dislessia non è certo recente come da noi. Nonostante ciò il protagonista ignora di essere dislessico, ma è ben consapevole che, per quanto sia riuscito a laurearsi, non sa fare cose che per tutti sono banali, ad esempio scrivere senza fare errori grossolani… Perciò si sente costretto a mantenere un basso profilo nel lavoro e nella vita per non essere giudicato superficialmente e deriso come gli capitava a scuola. La storia è a lieto fine: David scoprirà la ragione dei suoi paradossi, deciderà di osare una disclosure coraggiosa e troverà persone che gli consentiranno di sviluppare le sue capacità creative, avanzando di carriera e portando benefici all’azienda in cui lavora.
La storia di David è scritta in modo apparentemente semplice, ma chi ha letto i libri dell’esperto che si nasconde dietro il nome di Alex Nile si accorge con stupore che contiene tutto ciò che occorre sapere riguardo alle problematiche psicologiche, relazionali e sociali che un dislessico adulto deve affrontare. Il tutto, però, è qui narrato con sobria leggerezza. Non dimentichiamo che il libro è stato scritto da un dislessico, che, in quanto tale, non ama gli sprechi di parole, prediligendo ‘la parola incarnata’.

Viene quasi da chiedersi se tanto interesse recente per la dislessia non scaturisca dalla nausea per gli abusi di parole (declamate o stampate) che abbiamo subito per anni e che ancora stiamo subendo, e dall’urgenza di trovare un nuovo stile, di vita e di scrittura, che restituisca alla parola il suo schietto ruolo comunicativo e che indirizzi il pensiero a trovare soluzioni reali, nuove ed efficaci.

Il traduttore, Valerio Innocenti, è insegnante di lingue straniere presso un liceo viareggino. Ha realizzato la versione italiana di questo libro in occasione del convegno “Una volta non c’era…” Storie vere di dislessia (Montecatini, 27 ottobre 2012).
La versione italiana, come quella originale, sono disponibili come e-book su Amazon.

Alex Nile- Storia di David, il dislessico fingitore. Traduzione italiana di The deceitful dyslexic, di Valerio Innocenti.

09 febbraio 2016

"Il terzo uomo" di Graham Greene



nota di Gianni Quilici

L'ho letto portandomi dietro
qualche immagine del film,
soprattutto di una scena bellissima,
perché imprevedibilmente allucinante:
la figura imponente e inquietante
 del grande Orson Welles...

Siamo nella Vienna del dopoguerra,
 divisa dagli Alleati in quattro zone d'influenza,
ed in questo scenario di miseria e di distruzione
la storia di un'amicizia e di un tradimento.
Un romanzo dell'abbandono e dell'erranza,
 cinico e romantico, ironico e profondo
da leggere con un sospetto di adorabile Kitsch.

                                                Graham Greene: Il terzo uomo. Mondadori

04 febbraio 2016

"Un filo spinato lungo centocinquant'anni" di Luciano Luciani



                                                             



Uno spettro si aggira per l'Europa
                   
                        Uno spettro  torna ad aggirarsi per l'Europa: il filo spinato. Dopo aver tragicamente connotato le trincee e i campi di battaglia del primo conflitto mondiale e i luoghi della detenzione di massa e dello stermino  del secondo, il filo spinato riappare nella civile Europa invocato sia da politici xenofobi, sia da opinioni pubbliche sempre alla ricerca di capri espiatori su cui scaricare le proprie paure. E pensare che era nato come strumento, poco costoso e semplice da impiantare, utile al contenimento del bestiame brado e a protezione delle coltivazioni: un ruolo importante, quello del filo di metallo munito di spine, nel passaggio da un economia fondata sull'allevamento del bestiame a una basata sull'agricoltura.

Dalla pace alla guerra
La sua invenzione, o, per essere più precisi, il brevetto di tale semplicissimo dispositivo, risale agli anni settanta del XIX secolo ed è ascrivibile all'intelligenza pratica, appunto di un agricoltore dell'Illinois, tal Joseph Glidden. La sanguinosa Guerra civile americana (1861-1865) ne aveva, però, già scoperto la convenienza militare, cambiandone radicalmente segno e senso: da protezione di allevamenti e possedimenti ai campi di battaglia e ai luoghi della detenzione coatta. Così, conobbe le gioie del filo spinato la popolazione cubana, imprigionata per volontà del governatore spagnolo Valeriano Wayler negli anni immediatamente precedenti la guerra ispano-americana (1898); anche gli inglesi, in quegli anni al punto più alto della loro espansione imperialistica, non disdegnarono il filo spinato e lo introdussero in Africa nel corso della guerra anglo-boera (1899-1902) intrapresa contro i coloni sudafricani di origine olandese delle repubbliche del Transvaal e dell'Orange che non avevano certo accettato passivamente le pretese britanniche di impadronirsi delle loro ricchezze aurifere e diamantifere e si difendevano con abilità e audacia ottenendo non pochi significativi successi sul campo. Allora, l'esercito di Sua Maestà fece ricorso al filo spinato: prima per proteggere le linee ferroviarie più importanti dagli assalti della guerriglia, poi per creare immensi campi di concentramento in cui  imprigionare i soldati catturati e le famiglie boere.

I "cavalli di Frisia"
Al filo spinato fecero ricorso in maniera massiccia, alcuni decenni più tardi, tutti gli eserciti che si batterono nella Grande Guerra. La lunghissima trincea che per quattro anni spezzò in due l’intero continente europeo fu, infatti, consolidata da sbarramenti di reticolati di filo spinato, detti “cavalli di Frisia”, che contribuirono in maniera decisiva a trasformare il primo conflitto mondiale in una micidiale guerra di posizione con milioni di uomini costretti a vivere in condizioni durissime, esposti non solo ai pericoli bellici, ma anche alle intemperie e alle malattie. L’unico modo per avere ragione dei reticolati di filo spinato consisteva nell’aprirvi dei varchi, sotto il fuoco nemico, ricorrendo a pinze e cesoie oppure a esplosivi deposti manualmente. Solo nella ultima fase del conflitto il ricorso all’arma più nuova, il carro armato, segnò il tramonto della trincea, ma non il declino del filo spinato. Installazioni militari di ogni tipo continuarono, infatti, a farne largo uso nel corso della seconda guerra mondiale, ma fu la Germania nazista a intensificarne l'utilizzo per delimitare campi di concentramento e di lavoro. Spesso elettrificando le recinzioni, così da renderle assolutamente impenetrabili: un'idea già messa in pratica nel 1915, quando le truppe del Kaiser fecero passare energia elettrica lungo il filo spinato che separava il Belgio occupato dall'Olanda, provocando più di 2000 morti.

Pungente e tagliente
Oggi, questo congegno, tanto elementare quanto micidiale, capace sia di dissuadere sia di ferire, simbolo della crudeltà dell'uomo sull'uomo nel XX secolo - come ricorda il logo di Amnesty Internationale, la benemerita associazione che dal 1961 si batte contro prigionia e tortura che riproduce una candela accesa avvolta dal filo spinato - torna prepotentemente alla nostra attenzione. Accade a causa dell'iniziativa del premier ungherese Viktor Orbàn - leader del partito xenofobo e anti-immigrati Jobbik, una sorta di Salvini danubiano - di innalzare una recinzione di razor wire o "nastro spinato": una variante moderna e incattivita del  vecchio filo spinato arricchita di rasoi, alta circa 4 metri e lunga 175 chilometri, la lunghezza del confine tra Ungheria e Serbia. La chiamano anche "concertina" questo tipo di filo spinato perché si può allungare a piacimento come una fisarmonica: bobine di nastro spinato, arrotolate e fissate a pali d'acciaio, che in pochissimo tempo si possono facilmente estendere e posizionare al suolo... Obbiettivo di tale muro irto e tagliente rendere ancora più difficile la vita ai disperati in fuga dalla Siria, dall'Irak, dall'Afghanistan che, per raggiungere la Germania e l'Europa del nord, attraversano le aree meridionali del Paese magiaro.
Colpisce che a ricorrere a simili strumenti di contenimento sia un popolo di antica civiltà, quello ungherese, che, in un passato ancora recente, molto ha dovuto soffrire a causa della cosiddetta "cortina di ferro" fatte in gran parte proprio di filo spinato. Tutto il mondo, lo ricordiamo, accolse con gioia la notizia che nel 1989 il ministro degli esteri ungherese e il suo omologo austriaco, con un gesto a forte densità simbolica, avevano tagliato il reticolato ancora steso  fra Austria e Ungheria.
Consola la notizia che l'azienda tedesca Mutanox, specializzata nella realizzazione di recinzioni, a cui il governo ungherese si era rivolto per la messa in opera di un tale lunghissimo incubo di nastri d'acciaio, spine e lame, abbia rifiutato la commessa. "Non vogliamo", hanno dichiarato i rappresentanti della ditta, "contribuire a ferire uomini, donne e bambini che non rappresentano alcune minaccia e non hanno  nessuna responsabilità nelle cause che hanno determinato questa emergenza".