26 dicembre 2016

“Jean-Paul Sartre” foto di Henri Cartier-Bresson



di Gianni Quilici

     Grande foto per due motivi.
Il primo: perché è straordinaria nel taglio fotografico. Delinea, infatti, un rapporto interpersonale, in cui il focus è concentrato su Sartre, un Sartre raccolto, pensante, mentre l’altro Jean Pouillon, l’architetto, è visibile quel tanto sufficiente ad individuarlo e  nello stesso tempo a consentire quella linea di fuga, che corre lungo il parapetto del  Pont des Arts con il lampione e soprattutto con la sagoma di due, forse tre corpi scuri come fantasmi contro lo sfondo chiaro, delineando un contrasto netto e però armonioso tra il realismo della figura sartriana e la visione onirica quasi teatrale del cupolone d’una chiesa, di palazzi e di alberi appena visibili nel grigio tenue di una qualsiasi giornata.

     Ma c’è un secondo motivo: la presenza di Sartre. Il filosofo francese, infatti, appare in una di quelle concentrazioni consapevoli, prive forse ancora di pensiero, come se  lo aspettasse o lo stesse naturalmente elaborando:  gli occhi strabici, le rughe sulla fronte, la mano serrata sulla pipa.
Ma qui Sartre non è soltanto nello spessore psichico del ritratto di Cartier-Bresson, è anche la storia che il suo nome trasmette, che va oltre la sua rappresentazione figurativa.
 
    Perché Sartre è un intellettuale filosofo e scrittore (e poi diverse altre cose), che ha segnato un’epoca, divenendo, per certi versi, un mito e questa valenza extra-fotografica moltiplica il valore stesso della foto come per certe immagini di Picasso  o di  Pasolini, di Beckett o di Virginia Woolf, di Kafka o di Rimbaud per fare alcuni banali esempi.
 

Henri Cartier Bresson. Francia. Parigi. Pont des Arts. 1946.  




 

25 dicembre 2016

" Notti in bianco, baci a colazione" di Matteo Bussola



Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, ma la vita li costringe ancora molte volte a partorirsi da sé. (Gabriel Garcia Marquez)

 di Silvia Chessa

Ho sempre amato questa perla di Marquez: come tante sue mirabili verità, tratteggia, in modo favolistico, molti scenari in uno. L'infinita abilità dell'essere umano di rinascere, la sua creatività nell'autodefinirsi, la sorprendente possibilità, anch'essa illimitata, di sovvertire ruoli e priorità, in questo sistema sociale ristagnante e angustamente metodico, dove l'ipocrisia del modo di dire (ad esempio "di mamma ce n'è una sola") è solo una fra le tante false saggezze che avanzano incontrastate mentre tutto (magari proprio la bellezza della verità, nelle sue versioni più pure) crolla o si deteriora...

Matteo Bussola, col suo libro, "Notti in bianco, baci a colazione", ci conferma, con leggerezza e simpatia, ma non senza profondità, che la paternità, ovvero una sana paternità, coincide, probabilmente, con un viaggio dentro se stessi: è davvero un auto partorirsi al mondo.
Ne consegue che è un passaggio che apre la mente; sovverte stereotipi e ruoli. Non solo i padri insegnano ai figli, ma questi ultimi si fanno maestri di vita dei loro genitori, in mille piccoli ed imprevedibili modi, dando ai padri quel coraggio, quella risolutezza sulla quale nessuno avrebbe scommesso, in primis loro, i futuri padri, i quali, fino a qualche ora prima che la loro prole venisse al mondo, erano in qualche corridoio di ostetricia e ginecologia, a ciondolarsi con l'aria appesa e assente, oppure si agitavano incontrollabilmente, in preda a crisi di panico, neanche il figlio dovesse uscire dal loro ventre...

Bussola descrive il fatidico momento, ed altri momenti, senza troppa retorica, fanatismi o drammaticità. I padri affrontano i loro fantasmi, le notti insonni, il bisogno dei loro bimbi di tenerezza (spiazzante, credo, quasi quanto le prime malattie dei propri pargoli), ma non per questo sono una casta, un club di privilegiati e neanche dei poveretti ammanettati .. sono semplicemente esseri umani, che detengono una forza incredibile dentro una grandissima vulnerabilità. Li aiuta, forse, il riconoscersi non più soli, chiusi in atavici egoismi, ma appartenenti a quel meraviglioso e fragile meccanismo che suscita, al mondo, scintille di vita, sprazzi di luce: sentirsene artefici, e folgorati.
È un libro che si presta ad essere regalato per Natale: si legge senza intoppi, non appesantisce..e, soprattutto, rischia di ricordarci di arrivare al 25 dicembre con uno spirito meno consumistico, e più orientato ad un concetto di speciale Natività..

Matteo Bussola. Notti in bianco, baci a colazione. Einaudi. Euro 17,00

20 dicembre 2016

" Gli sdraiati " di Michele Serra



di Silvia Chessa

Per apprezzare appieno questo libro bisogna saperne cogliere l'ironia: sottesa ad ogni verbo, ad ogni virgola, ma, in assoluto, alla deliziosa iperbole dietro la quale il prezioso Michele  Serra ha velato il suo immenso affetto paterno, parlando di "sdraiati" dal sonno alla rovescia (attivi di notte dormienti durante il giorno).

Ogni romanziere romanza, e non solo dal Barocco in poi ("chi non sa maravigliar vada alla striglia!", manifesto poetico di G.B.Marino, cultore dell'artificio, che abbiamo studiato tutti, sia che apparteniamo alla "razza" degli "sdraiati", sia a quella degli svegli ed insonni)
Quello di Serra è propriamente un artificio, una grande e tenerissima figura retorica, attraverso la quale, per enfasi, intende dare a noi lettori delle vivide pennellate sulla incomunicabilità e sulle differenze generazionali.

Se ne ricavano delle annotazioni giuste, in linea di massima, divertenti e sapide per vivacità e comicità, dove la sferzante ironia verso i ragazzi (il figlio, la sua ragazza muta, assente, assorta in un misterioso altrove come una sibilla cumana) si mischia ad una altrettanto buona dose di autoironia (con cui tratteggia spietatamente se stesso e la sua generazione!).

Un registro dunque affatto critico o lamentoso, semmai lieve curioso e ironico, ottimale per osservare bene e prendere le distanze dal surplus emotivo, esattamente come Verga nei Malavoglia (sappiamo tutti, dal verismo in poi, come il tentativo di distanza fra autore personaggi-vittime perdenti, persino in Verga rimanga inclinazione e orientamento, tentativo, quindi, ma inattuabile in un a priori, e tradito, di fatto, qua e là, dall'appalesarsi fisiologico del punto di vista autoriale e del suo inalienabile aderire alle storie e alle cose trattate).

Nel caso degli "Sdraiati", la necessità di distanza era doppiamente doverosa visto che, oltre che autore, in questo specifico caso Serra era, ed è, anche padre del soggetto-protagonista (o coprotagonista) del suo libro, nonché emblema di una generazione, in fondo amata rispettata e giustamente lasciata libera (malgrado stimoli, pressanti richieste genitoriali e buffissimi pseudo ricatti), financo di attingere ad atteggiamenti, toni e registri vagamente sprezzanti e di superiorità verso gli altri...coetanei e non, che infatti puntualmente i giovani assumono.
Salvo poi pentirsene e, magari, confidare al proprio tatuatore di fiducia, di desiderare e sentire la mancanza di un maggior dialogo col proprio padre..

Buone riflessioni, dunque, e buona lettura, ricordandoci, tutti noi, che, per metafora e per estensione, essere sdraiati non vuol dire "calpestatemi", così come essere in piedi e dritti, vigili all'apparenza, non preclude l'essere elastici e comprensivi. E quel tono di chi non ostenta, sobrio e dimesso, di un Serra, è quasi sempre sintomo di intelligenza, questa sì, davvero superiore alle altre, ma che come tale mai si sentirà o si presenterà.

Buon viaggio nelle pagine di mille libri e della vita .. che la si trascorra scalando il "colle della Nasca" o sempre e semplicemente le scalette del proprio palazzo, andando a visitare i propri "vecchi", con occhi nuovi.

Michele Serra. Gli sdraiati. Feltrinelli. Euro 12,00

18 dicembre 2016

"Fotografie" di Roberto Panzani

            Lo sguardo lungo di Roberto Panzani

di Luciano Luciani

Non era un segreto per nessuno che nei momenti liberi dai doveri professionali e dagli impegni familiari, lo sguardo curioso e penetrante di Roberto Panzani, attraverso la mediazione della macchina fotografica, si posasse, spesso, spessissimo su immagini di luoghi e persone. 


Migliaia di scatti, quasi sempre di buona - talora ottima, in alcuni casi eccellente - qualità e fattura. Foto ragionate, pensate nella testa e elaborate nel cuore e, forse, anche nella pancia. A testimonianza che per Roberto la fotografia era ben più di un hobby e appena qualcosa di meno di un lavoro: una passione che nel corso degli anni aveva saputo appropriarsi di spazi sempre più larghi della sua esistenza, contendendoli ai decreti e alle normative, ai codici e alle Gazzette Ufficiali. 

Migliaia di negativi e solo alcuni tra questi emersi alla dignità della stampa secondo criteri tanto personali, quanto severi: soprattutto paesaggi lucchesi e toscani, antropizzati ma privi di presenze umane e per questo, forse, intrisi di una loro pacata serenità che sconfina in una velata malinconia; oppure immagini di uomini e di donne: figure umane cariche di passato, di storia, di esperienze che nei volti, nei corpi, negli abiti, nelle posture  mostrano un'umanità mossa, drammatica, meno pacificata...
 

Fotografie rigorosamente in bianco e nero, le due estremità della scala cromatica: la luce e le ombre, i cromatismi del Levante e del Ponente, le tinte in cui si condensano "le alternative di speranza e disperazione a cui l'umanità è sempre soggetta" (R. Frank). Gli stessi stati d'animo che l'avvocato Panzani incontrava ogni giorno nelle aule dei tribunali e che gli rimanevano dentro, sedimenti di complicate, problematiche, sofferenti vite degli altri, bisognose d'aiuto: legale e non solo. E per rimettere ordine in un mondo caotico, quando non impazzito, per restituire a se stesso e offrire agli altri agli altri senso, direzione e significato, l'avvocato Panzani usava la fotografia. Al posto delle parole, quando si accorgeva che anche le più nobili tra esse - libertà, uguaglianza, giustizia, solidarietà... - erano ormai consumate, trite, inani. 

Fotografava, Roberto Panzani, per non smemorare i frammenti di bellezza che coglieva nel mondo delle cose e degli uomini, istanti fugaci che valeva la pena di afferrare e fissare prima che svanissero per sempre. Fotografava, come dice Daniel Pennac, "per  non smettere di guardare": ovvero continuare a praticare l'esercizio imperterrito dello sguardo. Sempre con attenzione e interesse, ammirazione e amore, dolcezza e stupore. Per abbracciare per sempre e partecipare ad altri occhi e cuori sensibili le relazioni indecifrabili, sottese, le armonie misteriose comunque presenti nella realtà: le cose inesplicabili che nessuno può vedere prima che esse siano fotografate. Perché chi verrà dopo di te possa vedere, sentire con i tuoi occhi: quelli del fotografo, colui che sa disegnare nella luce e con la luce. 

Anche questo è stato l'avvocato Panzani: e il libro fotografico che avete sotto gli occhi, così intenso e meditato, è un suo dono, non il solo, a familiari e amici, colleghi e conoscenti. È la memoria della sua idea del mondo.

Roberto Panzani, Fotografie, La Grafica Pisana- Bientina (Pisa), 2016

16 dicembre 2016

"Molazzana: viaggio in Garfagnana" di Gianni Quilici



         8 dicembre: decido di andare in Garfagnana. Dove? Boh? Poi penso: Molazzana e Sassi!
La mattina si è già alzata da molto. Giornata fredda e solare. Nel fondovalle si toccano i 2° laddove il sole non ci arriva quasi mai.
A Gallicano ecco il cartello “Molazzana”. La strada sale. Di Molazzana mi ricordo molti anni fa di essermi fermato in una trattoria alla buona, di avere mangiato bene, di avere speso una sciocchezza. Chissà se esiste ancora! Chissà dove si trovava! Non mi ricordo un centro storico e mi è rimasta l’impressione che il paese fosse tutto o quasi lungo la strada.


        Ci siamo! Ecco il cartello Molazzana! Vado avanti e parcheggio agevolmente.
La prima sorpresa: “un monumento ai caduti di tutte le guerre”. Di tutte, così è scolpito a grandi lettere. Alzo la testa e mi trovo negli occhi una scultura, che non ha niente di retoricamente patriottico, anzi. Una serie di corpi nudi, senza armi, ne’ divise, nudi, che si intrecciano dal basso verso l’alto, senza un volto riconoscibile, tutti uguali, nessun eroe, tutti segnati dallo stesso tragico destino. Non so quanto la scultura sia originale, ne’ ho la competenza per saggiarne il valore, ma ci avverto una sua sincera forza poetica, senza compiacimenti, asciutta.


        Arrivo alla piazza, una piazza moderna, un passaggio voltato, che porta nel centro storico del paese. Un gatto s’incammina davanti a me, mantenendo la debita distanza, con passo lemme e meditabondo. Subito dietro, quasi nascosta la chiesa di San Bartolomeo. Ristrutturata più volte, come leggo, ad una sola navata, un altare centrale e due laterali in gesso. E’ segnalato un bellissimo paliotto di fine Seicento in legno intagliato”, che, chissà perché, non sono riuscito a scorgere. Esco senza emozioni.


        Più avanti il municipio, donne che mi salutano sorridendo, qualche palazzo e lungo la via una scultura, a me pare interessante, di Madonna con il Bambino. I volti chiusi, ma espressivi, la vicinanza dei corpi e però anche una autonomia l’uno dall’altro mi pare priva di quelle convenzionalità parareligiose di cui abbonda il nostro patrimonio artistico.


        Seconda sorpresa: in alto le mura merlate a dominare paese e valle, è ciò che rimane del castello. Si sale qualche scalino ed ecco, di un giallo sbiadito, la bella torre slanciata, che divide la piazza della Rimembranza da una parte in una zona pubblica con prato, tavolini di legno e panche, circondati da cipressi (18 per l’esattezza); dall’altra da una casa colonica ben ristrutturata con scalini, porta e finestre incorniciate con a lato due platani e due lenzuoli stesi alla luce.


        Infine, in una estremità della piazza, non a caso della Rimembranza, una lapide per i caduti della guerra 1915-18. Quanti morti per un piccolo paese: 41, li conto, 41!. Tutti giovani o giovanissimi, immagino. Andati ad una guerra, di cui non sentivano il senso, ne’ capivano la ragione! Un tributo di sangue innocente poi celebrato come “sacrificio per la patria e per la libertà”. Quella patria e quella libertà che dopo la guerra sceglieranno poi il fascismo.
E Sassi? Sarà per un’altra volta!  

Molazzana 8 dicembre 2016.       

12 dicembre 2016

“Burano” foto di Piergiorgio Branzi



di Gianni Quilici

Questa foto mi è sempre piaciuta moltissimo ogni volta che mi è capitata sotto gli occhi.
Probabilmente, perché parla al “mio immaginario remoto”. Credo, infatti, che una foto,  oltre ad avere un valore oggettivo, ne può trattenere uno soggettivo. E credo di intuire che sia proprio quel ragazzino di Burano, che avverto libero e esemplare nella sua esibizione atletica su quello sfondo popolare, che colpisce il mio desiderio di esserci, di esserci stato. In fondo i celebrati punctum che Roland Barthes segnala nelle foto da lui analizzate non sono forse dichiaratamente anche punctum soggettivi, legati, cioè, alla sua storia?

Detto ciò, in questa immagine lo scatto di Piergiorgio Branzi ha l’abilità di cogliere il ragazzo nell’attimo preciso della sua performance: massima apertura delle gambe, piedi nudi, leggerezza e equilibrio perfetto nel quale con un braccio sostiene il peso del corpo, mentre l’altro è posato sul petto, con la sicurezza di chi è padrone dell’atto.

Si aggiungano a ciò due altre elementi, che sono una scelta, non una fortuita casualità:
lo sfondo e il tipo di inquadratura.
Lo sfondo essenziale della piazza geometrica e quasi deserta, con palazzi veneziani e panni stesi, esalta la giravolta del ragazzo. A questo contribuisce enormemente anche l’inquadratura dal basso a filo degli occhi  del ragazzo, che non lo schiaccia, ma lo evidenzia in tutta la sua prestazione.

Burano, Piazza Grande. Foto di Piergiorgio Branzi. 1957. 


“Schegge di vita quotidiana: il cinese” di Luisella Melosi



                                                              foto di Wang Fuchun

Fra i tantissimi clienti che abbiamo, c'è anche un gruppo di cinesi...Fumano quasi tutti le bionde, che per loro diventano le MALBOLO, per di più LOSSE...

L'altro giorno, all'ennesima richiesta di "Un pacchetto di MALBOLO LOSSE..", gli ho fatto una proposta. Se entro una settimana entrava e mi chiedeva le bionde con la erre molto sicula...del tipo.. le voglio" rrrrrosse"... avete presente la parlata siciliana, no??...gliene avrei regalato un pacchetto.

Il cinese si è messo a ridere di gusto, non a crepapelle, non è nel loro stile, ma una risata fatta tutta di ihihihih, tipo singhiozzo isterico, se l'è fatta. Sicuramente se avesse fatto parte del triangolo dei braccini corti Glasgow, Genova e Lucca , si sarebbe esercitato anche tutta la notte pur di riuscirci, ma Pechino fa storia a se...

Quasi certamente il pacchetto glielo darò'...ma dopo aver riscosso...
                    

11 dicembre 2016

"Chicco di naso" di Claudio Orsi



di Gianni Quilici

E’ un romanzo storico. Di una storia tuttavia recente. Siamo nel 1960, quando in Italia  è ancora l’agricoltura l’attività produttiva dominante, ma dove si presentano i primi segni di ciò che sarà definito il boom economico; e quando iniziano, dopo la ricostruzione, le prime proteste  e manifestazioni operaie e di massa, qui nel romanzo esemplificate dal corteo del 25 aprile.

E’ una rivisitazione storica di una zona specifica ( la palude bonificata di Coltano nel pisano), dove, sul finire degli anni ’50 si erano insediate oltre cento famiglie provenienti soprattutto dalle provincie di Padova, Treviso e Verona.

E’ un romanzo collettivo.  Non c’è un personaggio intorno a cui ruoti la vicenda; ci sono alcune famiglie, tra cui, una  avrà più spazio e intensità analitica delle altre.

Ed è un romanzo che si legge con piacere, perché Claudio Orsi, al suo esordio, padroneggia la materia,  la conosce nei molteplici dettagli, le infonde espressività, la fa diventare intreccio, anche “giallo”, con un montaggio calibrato e una scrittura ariosa.

Chicco di naso si legge, quindi, con il piacere di scoprire “che cosa succederà”,  anche per un’altra ragione più penetrante. I personaggi, infatti, sono “scolpiti” nelle loro psicologie popolari e nell’immediatezza dei dialetti lucchesi e veneti resi con grande efficacia narrativa.

Claudio Orsi, infatti, riesce da un lato a scomparire come scrittore e a calarsi nei panni dei tanti personaggi che costellano il romanzo; dall’altro, come autore, organizza sapientemente la storia per capitoli, disvela progressivamente il  mistero del delitto, e approfondisce  i protagonisti e, in certi casi,  interviene, sia pure indirettamente.

Il romanzo, infatti, inizia come, in un film, con un preambolo:  l’assassinio di Liliana, bella, facile e ambiziosa, che verrà scoperto successivamente  e termina con un colpo di scena: l’assassino che si confessa non davanti ad un detective o a un tribunale, ma, per scelta dell’autore, a noi lettori.

Spiccano tra i tanti personaggi coloro che compongono la famiglia di Franco, l’unico, tra gli adulti, con un senso morale alto della convivenza umana, disponibile e generoso, comunista e partecipe di ciò che si sta muovendo in Italia. Con lui il nonno Elia, depositario della cultura contadina, e soprattutto il giovanissimo Vincenzo,  che rifiuta di raccogliere l’eredità contadina del nonno, perché, senza saperlo, intuisce il mutamento dei tempi. Il romanzo si chiude, infatti, così. “E il ’68 ormai erano alle porte”, lasciando trapelare la possibilità di una continuazione.  

Claudio Orsi. Chicco di naso. Aletti editore. Euro 12,00   


24 novembre 2016

Come parlare di pittura? Il ‘tizianismo verbale’ di Pietro Aretino



“Lo Aretino non ritragge le cose men bene in parole che Tiziano in colori; e ho veduto de’ suoi sonetti fatti da lui d’alcuni ritratti di Tiziano, e non è facile il giudicare se li sonetti son nati dalli ritratti o li ritratti da loro; certo ambidue insieme, cioè il sonetto e il ritratto, sono cosa perfetta: questo dà voce al ritratto, quello all’incontro di carne e d’ossa veste il sonetto. E credo che l’essere dipinto da Tiziano e lodato dall’Aretino sia una nuova regenerazione degli uomini, li quali non possono essere di così poco valore da sé che ne’colori e ne’versi di questi due non divenghino gentilissime e carissime cose.” (Amedeo Quondam)

di Davide Pugnana

          Niente meglio del reciproco compenetrarsi di pittura e parola testimonia e restituisce, attraverso lo scorrere dei secoli e delle generazioni, la prorompente vitalità del dialogo tra Tiziano Vecellio e Pietro Aretino. Vicini e allo stesso tempo lontani, intrecciati eppure destinati a non incontrarsi mai se non nello scenario di un impossibile e nostalgico abbraccio, questi due linguaggi si rincorrono e si illuminano con la disperazione dei grandi desideri. 

Scorre nelle quarantaquattro epistole dell’Aretino a Tiziano una parola che insegue la prestezza di tocco del pittore. Ogni frase tende al massimo il suo arco retorico, trasceglie aggettivi, verbi, metafore, sgrana enumerazioni che al massimo grado visualizzino l’oggetto d’amore assente; quella cosa ineffabile e, nella sua forma, perfettamente compiuta che si vorrebbe afferrare e fermare in un medium  che non le appartiene e mai le apparterrà. 

Nonostante questa alterità costitutiva, ogni invenzione linguistica dell’Aretino al cospetto dell’opera di Tiziano sembra spinta da una strenua sete di caccia: appropriarsi di quei rossi carnosi che aprono ferite dolcissime e struggenti oltre una torre di castello o si dilungano in brani di cielo dove nuvole a stracci aprono sulla testiera dei blu e dei viola, mirabilmente tenuti sospesi contro i lucori della luce morente del tardo pomeriggio; dire fino in fondo quell’immobile rabbrividire dell’aria attorno alle fronde degli alberi o nei vuoti pausati dei corpi; essere, o diventare, verbalmente quel giallo che serpentinato increspa l’orizzonte dietro Tobiolo e l’angelo e, al contempo, trovare il nodo di sostantivi per quel battere di panneggi in bianco e in rosso. 

Ecco il lievito che nutre le lettere pittoriche dell’Aretino. Per questo scrittore di potente capacità visiva le ‘vedute’ tizianesche, così ariose e struggenti e grondanti colore, che nella loro calda opulenza tattile sembrano fare del cielo, delle nuvole e dell’acqua di Venezia presenze di carne, diventavano non tanto il terreno per una esercitazione retorica nel solco dell’ekphrasis – di cui pure fu maestro – quanto un viaggio di ricognizione nelle possibilità estreme del mimetismo linguistico rispetto all’altro ‘testo’, quello visivo, perennemente ammirato dalla riva del verbo perché conchiuso e sdegnoso nella sua espressione risolta.

A testimoniare l’intensità di questo rapporto non c’è solo la corsa febbrile della parola verso la pittura. Tutt’oggi possiamo fare esperienza del contrario varcando la soglia della Sala di Apollo nella galleria palatina a Firenze. Era questa l’anticamera del palazzo, ornata dagli affreschi di Pietro da Cortona, nella quale la nobiltà ordinaria ferveva in attesa di essere ricevuta dal granduca. Qui possiamo toccare con gli occhi alcuni importanti ritratti di Tiziano: la Santa Maria Maddalena, il ritratto femminile detto “La Bella”, il Concerto, la copia del ritratto a Papa Giulio II di Raffaello, e, spostandoci ancora, il ritratto che egli fece dell’Aretino, che d’acchito colpisce per il guizzo torto e nervoso della posa e il timbro superbo della veste. Cade in taglio, nonostante il tono sprezzante ma vedremo perché, la descrizione che ne fece Francesco De Sanctis nella sua storia letteraria:  “Vedi il suo ritratto, fatto da Tiziano. Figura di lupo che cerca la preda. L’incisore gli formò la cornice di pelle e zampe di lupo; e la testa del lupo, assai simile di struttura, sta sopra alla testa dell’uomo […] per il labbro inferiore abbassato, grossissima la parte posteriore del capo, sede degli appetiti sessuali […] I suoi libri osceni sono il modello di un genere di letteratura, che sotto il nome “racconti galanti”, invase l’Europa. […] Pietro morì di soverchio ridere, come morì Margutte, e come moriva l’Italia.” Intuizione metaforica quella del “lupo che cerca la preda” che meglio non potrebbe tradurre la levriera disposizione verbale dell’Aretino di fronte alla tenuta pittorica di Tiziano. 
E proprio di questo ritratto troviamo un equivalente verbale nella lettera dell’ottobre 1545 a Cosimo I:”eccovi lo stesso essempio de la medesima sembianza mia dal di lui [Tiziano] proprio pennello impressa. Certo ella respira, batte i polsi, e move lo spirito, nel modo ch’io mi faccio in la viva. E se piú fussero stati gli scudi che glie ne ho conti, invero i drappi sarieno lucidi, morbidi, e rigidi, come il da senno raso, il velluto, e il broccato.” 

Come sarà per i ritratti del Bernini un secolo dopo (pensiamo alla Costanza del Bargello), la pittura di Tiziano non è solo lavorio di pennello, non è solo forma e colore; con quelle terre colorate messe sulla tela Tiziano riesce a fermare la presenza biologica del soggetto, il formicolio vitale che innerva il suo corpo (il ritmo del respiro, il pulsare dei polsi, l’agire del temperamento), il peso e il fruscio del corpo nel suo spazio di esistenza. Il ritratto di Tiziano – afferma Aretino – si impone, per sempre, più e meglio di un atto di nascita, come testimonianza dell’esistenza di un individuo su questa terra. 

Aretino nutriva questa convinzione già nel 1540, allorché il 20 novembre scriveva al Marchese del Vasto: “il pennello de l’uomo mirabile [Tiziano] va con sí nuovo modo a trovare le parti che non si veggono ne la immagine che egli colorisce di voi, che ella nel mostrarsi in tutte le membra tonde come il vivo, vi fa piú tosto essere Alfonso che parere il ferro.” Come cinque anni dopo sarà per Aretino, nel campo visivo di Tiziano il Marchese del Vasto, chiuso nello scintillio della sua armatura, è, ed è al massimo della sua cifra biologica, “tondo come il vivo”.

Aretino era ben consapevole della spaccatura fatale tra la cosa dipinta e la parola che desidera nominarla. Come ogni scrittore d’arte, sapeva bene che mai la letteratura avrebbe potuto restituire ciò che si era incarnato in quella specifica forma espressiva, nata, come spiegherà da di dentro Konrad Fiedler secoli dopo, da un processo visivo e portata a compimento dal gesto della mano. Nessun testo verbale, per quanto sorretto da perizia stilistica, sarebbe stato capace di trasformare in parola la mistica del tocco di un pittore come Tiziano. Nel suo struggimento melanconico di fronte ad un oggetto insieme presente e assente, la scrittura potrà solo elaborare strategie di avvicinamento più o meno stringenti, impegnandosi semmai a colmare e assottigliare il divario tra l’evidenza dell’opera d’arte figurativa – perfettamente autonoma e quasi incurante della tessitura verbale che l’avvolge –  e l’evocatività della parola. Un’impossibilità o, meglio, un’afasia nominativa che Paul Valery racchiuderà nel motto: “Comment parler peinture?”. Questa domanda innesca in Pietro Aretino un confronto agonistico e, in qualche modo, formativo con la pittura di Tiziano. La capacità di scandaglio psicologico dell’amico pittore, abile nel “ritrarre le nature altrui”, sarà un modello per Aretino: “E per ciò io mi sforzo di ritrarre le nature altrui con la vivacità con che il mirabile Tiziano ritrae questo e quel volto; e perché i buoni pittori apprezzano molto un bel groppo di figure abbozzate, lascio stampare le mie cose cosí fatte, né mi curo punto di miniar parole; perché la fatica sta nel disegno, e se beni colori son belli da per sé, non fanno che i cartocci loro son sieno cartocci, e tutto è ciancia, eccetto il far presto e di suo.”  (lettera al Valdaura del dicembre 1537). La piena adesione dell’Aretino alla maniera di Tiziano è testimoniata dalla celebre lettera ch’egli spedì al pittore medesimo nel maggio 1544. Una lettera che potremo definire una forma di tizianismo verbale per il modo in cui la lingua del poeta cerca di appropriarsi del mondo e del modo visivo del pittore, come dimostra il cuore del testo:
“che vedete, nel raccontarlo io, in prima i casamenti, che benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e dipoi scorgete l’aria, ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la maraviglia ch’io ebbi de i nuvoli composti d’umidità condensa. I quali in la principal veduta mezzi si stavano vicini a i tetti degli edificii, e mezzi ne la penultima. Peroché la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano. I piú vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i più lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non cosí bene acceso. O con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola da i palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far dei paesi. Appariva in certi lati un verde azurro, e in alcuni altri un azzurro verde veramente composto da le bizzarrie de la natura maestra de i maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è spirito de i suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: ‘O Tiziano, dove sete mo´?


Può, insomma, la parola della letteratura equivalere con la pittura che desidera nominare? 
La riposta è no. 
Ma il punto nodale è un altro: che cosa genera, nello scrittore d’arte, la nostalgia dell’oggetto inafferrabile? Che genere di lotta viene ingaggiata? Uno degli esempi più significativi di questo corpo a corpo tra pittura e parola è proprio questa epistola di Pietro Aretino al “signor compare Tiziano”. 

Sotto il cielo di una sera veneziana prossima alla notte, Pietro Aretino ha cenato in solitudine, contravvenendo alle sue abitudini di uomo mondano. Da giorni ha la quartana, una febbre di origine malarica che ritorna ogni quattro giorni. I cibi non gli lasciano in bocca nessun gusto e il corpo di uomo prossimo ai cinquant’anni si muove a fatica. La lettera registra in presa diretta, come una stenografia degli istanti, i gesti e i pensieri di quella sera di amara e cupa solitudine. Pietro si alza da tavola “sazio de la disperazione” e si trascina al davanzale della finestra, abbandonando sulla balaustra “il petto e quasi il resto di tutta la persona”. Fuori, Venezia pulsa di luci e di vita; sul Ponte Rialto, nella riva dei Camerlinghi, nella Pescaria, il popolo sciorina e si dà convegno per assistere alla regata “di barcaiuoli famosi”. Voci miste, “turbe” salgono dalle calli alla finestra dello scrittore, mentre in lontananza le barche sono pigre navicelle volanti che s’incontrano in quell’ora del giorno quando il mare abbraccia il cielo e nessun contorno li separa più. Come dentro una veduta veneziana di Federica Galli, le gondole sono spaurite virgole nere nello specchio di silenzioso cristallo della laguna; e lasciano scie invisibili di solchi sulla pelle del Canal Grande, mentre “forestieri” e “terrazzani” sembrano fissati in una calma attesa da scacchiera. In Pietro, la morsa della quartana diventa umor melanconico: “fatto noioso a se stesso”, sente la terribilità del pensiero che divaga senza approdi nel vuoto. Alza gli occhi verso il cielo, come secoli dopo faranno Constable e Turner per studiare, in quelle loro tele cariche di meteorologia visionaria, brani di nuvole e di tempeste. Un sussulto lo scuote: “da che Iddio lo creò, [quel cielo] non fu mai abbellito di così vaga pittura di ombre e di lumi.”. L’occhio di Aretino si dilata: il cielo di Venezia subisce una trasformazione repentina. Al dato naturale delle nuvole, del vento, delle striature violacee e bluastre del tramonto si sovrappone una campitura di chiaroscuri. I guizzi del reale trasmutano di essenza: ricordano pigmenti di colore, velature, ‘segni’ . Qualcosa che sopravviene ad un tratto spacca in due la lettera e ne muta registro. Qualcosa che deve essere affiorato nella memoria dello scrittore: in quell’istante di risveglio visivo, la penna vorrebbe trattenere tutte la fibra percettiva del cielo, ogni sua grana, ogni suo tono, ogni suo palpito e respiro. “Onde l’aria era tale quale vorrebbero esprimerla coloro che hanno invidia a voi per non poter essere voi, che vedete nel raccontarlo io.” Solo la mano di Tiziano ha saputo raccontare quel brano di natura diventando quel cielo che adesso stava negli occhi febbrili dell’Aretino. A metà della stesura, l’epistola abbandona i toni di basso dello sfogo solitario e la vaghezza dei pensieri, fino a quel momento sbrigliati negli scenari aridi della malinconia, e trova, nello spazio tra paesaggio lagunare colto sur le motive e memoria figurativa, uno squarcio improvviso nel quale s’allineano e mescolano gli sfondi sconvolgenti dipinti da Tiziano. Poter esser Tiziano! 

Pietro ha sostato davanti ai suoi dipinti per lunghe ore, portandoci sopra lo sguardo palmo a palmo; ne conosce ogni agguato d’ombre, ogni campitura, ogni velatura e semitono. I suoi occhi hanno interiorizzato e amato con gioia feroce le estenuate, pausate lotte di timbri caldi e freddi, le ocre i blu i viola delle nuvole a stracci, contro le quali l’indice di Alfonso d’Avalos si disegna repentino e il gruppo della Madonna e Santa Caterina si dispone. L’accensione del cielo veneziano era già tutta nella lama di luce che fende d’un bagliore l’orizzonte abbasso della Pala Gozzi (1520), e racconta il fermo stagliarsi degli edifici, l’incidersi contro un cielo aranciato della punta del campanile di San Marco, alla cui geometrica fermezza risponde, quasi per contrappunto, il torto profilo delle foglie sul ramo e il zigzagare delle nuvole verso la Vergine. 

Sferzato da questi brani pittorici, anche la scrittura epistolare di Pietro si fa porosa registrazione, non più verbale ma pittorica, dello scenario lagunare: le maglie sintattiche si allentano, i verbi scintillano, la tavolozza lessicale si apre a tastiera accordando con somma precisione sostantivi e aggettivi. Aretino ricreerà sulla pagina, unendo memoria figurativa e moderna trascrizione en plein air, i cieli di Tiziano venati di rossi sangue e di neri contro squarci di luce improvvisa: “Imprima i casamenti che, benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e dipoi scorgere l’aria ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la meraviglia ch’io ebbe dei nuvoli composti d’umidità condensa, i quali in la principal veduta si stavano vicino ai tetti de gli edifici, e mezzi ne la penultima, però che la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i più lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non così bene acceso. Oh con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far de paesi! Appariva in certi lati un verde azzurro, e in alcuni altri un azurro verde, veramente composto de le bizzarrie della natura, maestre dei maestri. Ella con i chiari e con gli scuri isfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è di spirito dei suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: ‘Oh Tiziano, dove sète mò?

16 novembre 2016

"Un matrimonio benedetto" di Ngũgĩ wa Thiong'o


Uno scrittore africano

 sulle soglie del Nobel

di Luciano Luciani

Anche quest'anno i giurati svedesi del Nobel per la letteratura hanno perso una buona occasione. Se l'attribuzione del prestigioso riconoscimento al poeta e menestrello Bob Dylan ci rallegra - almeno dal punto di vista generazionale -, restiamo convinti che sarebbe stato necessario uno sguardo più largo: ovvero che un premio così carico di significati sarebbe dovuto andare a un autore dalla scrittura ben più robusta sul piano estetico e civile. 

Magari ampliando la propria attenzione a letterature più periferiche, ma vitali, originali, capaci di contenuti inconsueti. Per esempio quelle di un continente per tanti versi dimenticato come l'Africa, le cui sofferenze, drammi e dilemmi continuano ad arrivare sino a noi attraverso le voci e le opere dei suoi poeti, scrittori, drammaturghi, saggisti... 

Alcuni nomi? Il ghanese Aiy Kewi Armah (1939), il somalo Nuruddin Farah (1945), il mozambicano Mia Couto (1955), il botswano Barolong Seboni (1957), il keniota di etnia kikuyu Ngũgĩ wa Thiong'o (1938) già da qualche anno in odore di Nobel. Quest'ultimo, uno tra gli scrittori più interessanti dell'Africa post-coloniale, forse più e meglio di altri ha saputo raccontare le contraddizioni aspre e i bordi taglienti di una decolonizzazione che non saputo mantenere, se non in minima parte, le speranze di riscatto e liberazione che l'avevano sostenuta e alimentata e imponendo così ha ai suoi protagonisti prezzi altissimi. 

Non solo nei termini economici e sociali di un mancato sviluppo, ma culturalmente: lo sradicamento e l'assoggettamento psicologico, innanzitutto, dell'uomo africano nei confronti dei modelli importati e imposti dai padroni bianchi, i "pallidoni del cavolo". Cacciati sì, dopo lunghi anni di sanguinose rivolte, ma ancora presenti nei cuori e nelle teste di tanti africani, non ancora uomini liberi, ma solo schiavi benestanti: perché - ci significa Ngũgĩ - l'arma più potente nella mani dell'oppressore è sempre stata la mente dell'oppresso.
 

In attesa del Nobel, lo scrittore keniota, tradotto in più di trenta lingue - anche in Italia a partire dalla fine degli anni settanta, sia pure in maniera non sistematica - continua a essere proposto a un lettore italiano intenzionato a cimentarsi con una scrittura di qualità, non banale e non effimera. 

Recentemente lo ha fatto anche la piccola e coraggiosa Casa editrice quarup  con un libro di racconti, Un matrimonio benedetto (Secret Lives, and Other Stories), che risale al 1976 - alla vigilia di un anno cruciale nella vita del letterato africano, quello della sua restrizione nelle carceri del suo Paese per aver criticato la politica filoccidentale e neocolonialista dei governanti kenioti - e che corrisponde alla fase più marcatamente politica e civile del romanziere  kikuyo. 

Un grappolo di narrazioni robuste, intense, piene di umanità e quindi di "politica", se è vero che la politica non può che trattare delle vicende e dei sentimenti delle persone: storie di di uomini e donne sospesi tra modernità e tradizione, tra il villaggio e la città, tra i valori della tribù e un nuovo Kenya popolato di africani ricchi, di funzionari corrotti - servi che a forza di servire sono diventati padroni -, di ingiustificabili e incomprensibili lacerazioni sociali. 

Racconti segnati in genere da finali che sanno di ripiegamento e di sconfitta: metafore riuscite e dolorose del destino che avrebbe nei decenni successivi tradito e offeso l'Africa e le speranze dei suoi popoli, delle sue genti.

Ngũgĩ wa Thiong'o, Un matrimonio benedetto, quarup, Pescara 2015, pp. 186, Euro 13,90

05 novembre 2016

"Questo abbraccio" di Loredana Capannoli






Questo abbraccio ha la forma di una vita prenatale 
avvolta in un cerchio caldo e sicuro. 
E' questa la sua forza amorosa. 
L'abbraccio rimane nella nostra memoria 
come un intreccio capace di isolare tutto ciò che è fuori da noi, 
riportandoci a un contatto primordiale cuore a cuore.
Il battito, 
il solo suono dell'abbraccio

02 novembre 2016

“La settimana bianca” di Emmanuel Carrère




di Gianni Quilici

Un bambino, Nicolas, viene portato dal babbo in uno chalet tra i monti per una “settimana bianca”. Gli altri bambini sono già arrivati con il pullman e Nicholas è sordamente arrabbiato col padre, perché sa che questo tipo di venuta provocherà sguardi ironici.
E’ uno di quei romanzi, che rappresentano con straordinaria perspicacia il malessere fisico e psichico di un bambino (vicino all’adolescenza) taciturno e sensibilissimo, troppo protetto e controllato da un padre che, pur rimanendo sullo sfondo misterioso, appare pieno di comportamenti psicotici.

Essere gettato giorno e notte per una decina di giorni con altri bambini fa precipitare Nicolas in un’ansia acutamente nevrotica. Per un verso, infatti vorrebbe sparire; per un altro cerca disperatamente di trovare “appigli”.

Ecco, quindi, la controversa amicizia con Hodcann, ragazzo ammirato e temuto da tutti, alto  e con una voce di adulto, capace di essere volgare, oppure di esprimersi con un vocabolario che per raffinatezza , ricchezza e precisione suonava sorprendente per la sua età. Ecco il contatto più filiale con Patrick, l’istruttore, che intuisce le difficoltà del bambino e che lo tratta con una leggerezza e libertà  che lo stupiscono. Ci sarà poi la tragedia.

Il romanzo ha una scrittura diretta e serrata che scava nell’immaginario ipertrofico di Nicolas trasmettendocelo nelle sue zone più oscure e sottili, ideali per una scomposizione descrittiva di tipo psicoanalitico. Quello che accadrà in quei giorni segnerà, comunque,  il destino del bambino, ma non solo di lui.

Carrère, infatti, con un salto cronologico improvviso, ci presenta Nicolas 20 anni dopo, una sera di gennaio a Parigi nella spianata deserta del Trocadéro. Lì casualmente incontra Hodcann con il cranio rasato, bitorzoluto, la barba lunga e nera, gli abiti informi, poco puliti. E’ lo scarto temporale che preannuncia il finale: la tragedia di quella “settimana bianca”.   

Una tragedia tanto orribile quanto implicita, quasi silenziosa; per questo più penetrante, perché lascia spazio all’immaginazione, che, come sappiamo, non ha limiti.

Emmanuel Carrère. La settimana bianca. La classe de neige" Traduzione di Paola Gallo. Einaudi.



    


30 ottobre 2016

"La film di Elvira" di autori vari

di Mimmo Mastrangelo 

Precursore di un realismo in antitesi alla retorica e all'enfasi della cultura di regime. Questo è  stato  il cinema artigianale e popolare di Elvira Coda Notari (Salerno 1875- Cava dé Tirreni 1946),  la prima donna italiana a ricoprire il ruolo di regista. 

Un'autentica pioniera  che, insieme al marito e fotografo, Nicola Notari, e al figlio Eduardo, ( in tutti film della madre rivestì il ruolo di Gennariello) mise su la Dora-Film, una di quelle case napoletane  di produzione dei primi decenni del novecento  che,  tra l'altro, andarono a contrastare  il dominio dell'industria filmica di Torino. Un'azienda a carattere familiare fu la Dora-Film che, grazie  alla creatività,  all'intelligenza e alla tenacia  della Notari (non a caso la chiamavano "la carabiniera"), produsse  circa sessanta lungometraggi  distribuiti  con enorme  seguito di pubblico tanto nelle sale partenopee quanto nelle Americhe dove le storie narrate sullo schermo diventavano  lo svago e "il pane nostalgico"  di tanti italiani emigrati. 

Quasi del tutto dimenticata o sconosciuta, la figura di Elvira Notari  è stata di recente riscoperta  grazie al critico Paolo Speranza e al filmaker salernitano Licio Esposito i quali,  dopo aver curato su di lei una  mostra, presentata ad Avellino, Napoli, Salerno e Cava dé Tirreni, hanno dato alle stampe il volume "La film di Elvira" (edizioni Cactus Film e Cinema Sud  pag 156. euro 10,00) con contributi  di Valentina Abussi, Paola Vacca, Gianfranco Pannone, Luca Di Girolamo, Giovanna Callegari, Sara Fiori , Angela Maria Fornaro, Antonio Farese, Salvatore Iorio, Patrizia Reso e Marialaura Simeone . 

Dalle pagine del saggio viene  fuori un' energica e poliedrica donna-artista  che, oltre a dirigere gli attori (presi dalla strada),  curava delle pellicole la scrittura, il montaggio e la stessa distribuzione, mentre il marito, da operatore di macchina, era attentissimo nel seguire tutte le sue direttive sulle riprese  "en plein air"    che dovevano poi fare da incipit a trame melodrammatiche.  

"E' piccerella" (1921) , " 'A stanotte" (1922) e  "Fantasia 'e surdato" (1927) possono definirsi  i titoli più importanti di una cinematografia che, attingendo alla canzone popolare, ai locali romanzi  d'appendice e alla classica sceneggiata napoletana, designavano sulla pellicola (sottoposta ad una innovativa tecnica di colorazione ) "una trattazione filmica  delle disagiate condizioni sociali di intere sacche di popolazione, tra povertà, malattie e sciagure morali".  

Nei lavori della Dora-Film la città di Napoli si presentava come il  palcoscenico di un realismo  dal basso, i cui protagonisti  potevano vivere grandi passioni e sentimenti ma, al contempo, essere vittime o esecutori di violenze e malefatte. Per questa impostazione realistica che metteva allo scoperto  un contesto urbano e sociale piuttosto malandato, il cinema della Notari, oltre ad essere deprezzato e tacciato di volgarità  dalla critica, venne osteggiato dalle istituzioni fasciste  intende a propagandare con la settima arte (e  la cultura in generale) una ben altra e rassicurante immagine  del Paese. 

Invisa dal regime la Notari fu costretta a ritirarsi a vita privata nella casa paterna di Cava dè Tirreni,   ma  a lei che ha portato sullo schermo il dramma di creature fascinose ma  indifese, "storie di abbandoni, gravidanze illegittime,  soprusi e violenze", va dato atto di aver praticato, seppur inconsapevolmente,  un antesignano ruolo di  militanza di  donna impegnata  dentro una società (e in un'epoca) a forte dominio del maschio .
 

"La film di Elvira" Edizioni Cactus Film CinemaSud, 2016. pag.156,  euro 10,00.

28 ottobre 2016

"Un giorno come pochi, il giorno che è" di Ilaria Stabile



                                                                     Robert Doisneau

….a volte succede che, quando incontri il bello, il buono, ogni cosa ti sembra più netta, distinta, il bianco dal nero, il bene dal male, il sorriso dal pianto, te stessa dal resto del mondo. D'improvviso. E senti che, ancora una volta, sei cresciuta un po’ di più. Senza volerlo. Senza cercarlo. Dal buono e dal bello, si impara tanto. Impari la chiarezza, la libertà e la fiducia, impari la natura del legame, ciò da cui può nascere, la cura che chiede, la lealtà che pretende, i contatti di cui vuol nutrirsi, le differenze con cui può vivere e i dolori che può tollerare. Impari un modo nuovo di raccontarti il passato e un nuovo modo di guardare negli occhi il presente, le persone, le cose e il mondo che si muove; impari ad accogliere i desideri dimenticati e, forse, ne avverti di nuovi e impari a non aver paura del futuro, ad aspettar che sia lui a darti le risposte, senza pretenderle, senza temerle. Non so bene cosa sia.

So però che il dolore, la delusione, il tradimento, talvolta, rischiano di ammazzarti, ammazzare i tuoi desideri, le tue illusioni, le tue fantasie, i tuoi pensieri, le tue certezze, ammazzare te. Il dolore, la delusione, il tradimento vogliono e riescono, a volte, a spogliarti del tutto fino a lasciarti nuda. Nuda, a chiederti senza riuscire a parlare: "Come? Perché? Ed ora?". E….e….e dopo c'è soltanto una reticenza e dei puntini sospensivi che dicono quanto è lunga la via della ricostruzione, lunga, faticosa e piena di respiri mozzati, affanni, frammenti e tagli. Ma i puntini sospensivi, io lo so, diventano linee prima o poi, il tuo respiro finalmente è libero e il passo si fa più veloce, ora che un nuovo terreno senti sotto di te, a riprendere un passo chissà quando interrotto . I buchi vengono riempiti e le illusioni sparite cedono il posto ai desideri di vita.

Tanto tempo fa, c'era un sorriso, forse troppo ingenuo e sempre aperto, confuso e cangiante. Poi arrivò il crollo delle illusioni e, ahimè, quel fragile sorriso sembrò andarsene e mai più poter tornare, in un campo in cui a giocar con furono rabbia, paura e impotenza e loro... quando giocano, caricano duro!

No. E' questo l'incanto. Un brutto incanto. Solo un brutto incanto, fatto da una maga maldestra che colonizza mente, corpo e spirito. La maga della vita, però, è maldestra perché, in fondo, ci vuol bene! Sembra maldestra ma la sua è saggezza, sembra cattiva ma la sua invece è fiducia, fiducia in te perché sa che sarai proprio tu a rompere il suo incantesimo, a prender la sua bacchetta magica e a trasformare tutto.

Il sorriso allora torna, torna sempre ma non uguale. Torna fermo, serio, fisso. Fisso a guardare negli occhi il mondo. Perché allora saprà ciò che per cui sorride, cosa guardare e soprattutto cosa volere guardare.

….e viene un giorno in cui la nostra maga maldestra sorride con noi, contenta di esser stata sconfitta, contenta di non esser lasciata da sola. Sara contenta perché vedrà che, assieme, noi e la vita, avremo creato l'illusione più vera di tutte. Noi stessi.
Ed ecco che arriva un giorno come pochi, il giorno che è.
Grazie ai nostri crolli, ai nostri nuovi sorrisi.
                                                                                                   17 Agosto 2016

17 ottobre 2016

"La stella polare del signor Egli" di Alberto Guareschi


di Luciano Luciani

Grande viaggiatore nei luoghi della geografia, della memoria e della letteratura, Alberto Guareschi continua a dipanare il racconto in versi delle sue esperienze umane e culturali già iniziato una dozzina di anni or sono con la raccolta poetica Teatrini del signor Egli (Diabasis, 2004) e continuato oggi, elaborando un'originale mappa di territori nuovi e già battuti, esperienze reali e fantastiche, amicizie e amori, letture, citazioni e criptocitazioni dei Maestri amati: Leopardi, Proust, Beckett, Eliot, Hӧlderlin...  

Titolo della sua ultima silloge Stella polare: un astro importante nella simbologia di tutti i tempi, punto di riferimento astronomico e metaforico di navigatori, carovanieri, nomadi ed erranti di ogni tempo e ogni tipo. 

Anche in questa silloge l'Autore mantiene il suo "alter ego", il signor Egli, già protagonista del libro precedente: un personaggio sempre incerto, spaesato disorientato, che, come ha scritto un recensore, "deambula, oscillando come Monsieur Hulot". Deluso dal passato - "il patatrac di tutte le chimere" - e sospetteso della contemporaneità e delle sue conseguenze - "non voleva saperne il signor Egli/di tuffarsi nel web" - consegna ad Ariele, suo figlio, un messaggio esistenziale perennemente problematico e privo di certezze. 

E lo fa in un dettato poetico limpido, colloquiale, pacato: il tono non si alza mai, la voce del poeta non risulta mai né acuta né stentorea e neppure si abbassa nell'uso accattivante del dialetto o degli inserti gergali, mantenendo sempre un'estrema misura e  sobrietà dei propri mezzi espressivi. 
Così affastella sogni e ricordi familiari, nostalgie di amici e riflessioni, partenze per viaggi mai programmati e ritorni non privi di un senso di delusione e disinganno. 

Un filo sottile di ironia sovraitende a tutte le scelte del lessico e delle immagini, e quasi in ogni testo compare l'uso del contrappunto, il ricorso al controcanto di incisi, parentesi in corsivo in cui il signor Egli rivela il proprio pensiero profondo, improvviso e chiarificatore, da portare assolutamente sulla carta. 

Monologhi, soliloqui apparentemente lievi, leggeri, i testi di Guareschi, ma provvisti di un nocciolo duro dai bordi slabbrati e taglienti: la percezione della solitudine dell'uomo contemporaneo, la sua paradossale resistenza all'oscuro destino di annientamento che lo sovrasta, una visione certo non ottimistica della condizione umana. Contravveleno necessario la fede imperterrita nella poesia e la sua ricerca, ragione ultima e "stella polare" dell'esistenza.
Nato a Parma, Alberto Guareschi vive da tempo a Lucca. Dirigente d'azienda, è stato tra i fondatori di Pratiche Editrice. Importante la sua attività di traduttore dal tedesco e dal francese di autori classici e contemporanei. Precedenti pubblicazioni poetiche: Verso Cipro, Guanda, 1963 e Teatrini del signor Egli, Diabasis, 2004.
Alberto Guareschi, Stella polare Poesie Lettere in versi Teatrini, Passigli editore, pp 122, Euro 14,50

12 ottobre 2016

"Questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo" di Anna Laura Longo







di Annalisa Ciampalini

Leggere la raccolta di Anna Laura Longo, pianista, artista visiva, saggista e poetessa, è stato coinvolgente, impegnativo e molto interessante. Non è una lettura che inizia e finisce una volta per tutte: questo perché i testi sono densi e includono aspetti che si svelano gradualmente. In superficie sembrano non offrire spazio alcuno all’esperienza umana, come se gli innumerevoli movimenti che si collocano all’interno dei versi fossero totalmente indipendenti dalla presenza dell’uomo. Ma, come dicevo, questo è quello che appare in superficie, perché il genere umano è invece contemplato attentamente, studiato soprattutto nei sensi, ma anche nella mente, in quanto responsabile del lavoro dei sensi. 

La raccolta può anche essere letta come scrittura di una ricerca che vede tra i suoi fini quello di trovare una modalità per enfatizzare i sensi e di stabilire corrispondenze tra questi.
Leggiamo infatti: “Un prolungamento del suono sfiora il collo adunco, / confluendo in un cardigan/ ricercando luoghi di acerbo e vivo ristoro”. Versi da cui emerge un suono potenziato, che diventa capace di sfiorare e di ricercare.

Non solo: quello che emoziona nel processo di scoperta delle poesie è che il possesso di una chiave di accesso alla piena valorizzazione dei sensi, ma anche del pensiero, possa condurci verso una conoscenza profonda del mondo, oppure verso una concezione nuova e appagante della struttura che ci ospita e ci sovrasta. 

A questo proposito possiamo riportare i seguenti versi: “Segni di permutazione e voli in crespi sentieri, /strabordanti aneliti per snodi vocali accesi/nei cui larghi sfondi si ergono/evidenti forme di quasi-pendii/(ed inarrestabili sogni avvenenti/come ululati). Tempo inverso/del segmento /se//ripescando il fluido azzardo/il corpo mieteva e vellutava il giorno/di sapiente e inedita levità aurorale.“

Gli esploratori si addenseranno acuti/ sulle presunte linee della scissione:/ indolore è il passo nel dibattito del rinnovamento.”Ecco i versi di apertura della silloge.Certo la parola esploratori è specifica per indicare l’atteggiamento di chi impara sperimentando. Gli esploratori sono descritti acuti e hanno come ambito di ricerca le “presunte linee della scissione”. 

Mi piace leggere in questi tre versi un auspicio rivolto a tutti i lettori, affinché possano procedere, tramite i versi che seguiranno, lungo il cammino impervio ed emozionante di una ricerca che porta alla conoscenza. La ricerca, condotta in modo personale, creativo e sempre dinamico, è quindi un punto importante da cui la poesia di Anna Laura Longo trae linfa vitale. 

Riportiamo a questo proposito i versi seguenti “Nuove impronte si susseguono/armate di verticalismo. C’è un chiarore/nelle fenditure del manto della conoscenza.” E pare che le cose da indagare siano contrassegnate da un alone particolare, ai lettori sta individuarlo e osservarlo con i sensi attenti, pronti a permutare tra loro.

I testi, mai facili, sono stilisticamente ricercati, il suono delle singole parole sembra esser frutto di una scelta accurata, ed è proprio grazie alla loro caratteristica sonora se esse si stagliano con regalità all’interno del verso, quasi fossero indipendenti l’una dall’altra. 

Ho avuto l’occasione di sentire alcune poesie lette dall’autrice stessa, ed è difficile prescindere da questa emozionante esperienza nell’intento di parlare della raccolta. È come se una voce prendesse vita da un territorio remoto, una voce senza tempo e che riempie ogni luogo, che deve essere udita per forza. 

Sembra però che nessun essere umano possa prestare ascolto a una voce tanto sublime e assoluta, che pertanto viene percepita unicamente come suono. D’altra parte,questa importante caratteristica, si avverte anche attraverso una semplice lettura dei versi, grazie al lavoro accuratissimo operato dell’autrice.  Versi come “In auscultazione il corpo giungeva/commensurabilmente urtato da onde/ nella promiscua e intrepida sismicità del mare/” ne sono testimonianza. 
E ancora: “Dentro sfusi capelli assidui/ o nei corsi d’acqua/ si riamalgama il Tempo, /versa suoni maturi. “

“Questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo” è una lettura impegnativa che lascia al lettore un’ansia benefica e vitale attraverso la quale perseguire una ricerca interiore e successivamente rivolta verso l’esterno. È un esempio di coniugazione riuscita tra parola poetica e un’indagine acuta tra le corrispondenze delle variabili che definiscono la sfera di ciò che può essere percepito.

Anna Laura Longo. Questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo.Oedipus. £ 10,00