28 giugno 2012

"Plazeur" di Alessandro Togoli



di Fulvia Quirici

Questa non è una recensione, ma un incontro. L’incontro con uno spettacolo teatrale, che si è svolto presso la casa di reclusione di Volterra, un incontro con i ricordi, che il luogo e lo spettacolo hanno suscitato.  

                                               

Un paradosso bellissimo

La ginestra che spaccava le colate d’argilla solidificata, crettate e murate dal sole, cresceva comunque alta: eruzioni di giallo intenso a spezzare la crosta cinerina del pendio. Era di certo possibile, lo vedevo, ma era comunque un fatto incredibile da ritrovare così, con tanta bellezza e irruenza, perché le cose si leggono, si imparano ma hanno senz’altro un sapore diverso se si vivono: ci insegnano immensamente di più.

E salivo per la strada antica che mi aveva portato a gelati freschi, a passeggiate per le stradine intorno alla fortezza, ad immaginare che vita facesse quel cugino di secondo grado di mio padre che era finito per pene d’amore in manicomio. I dottori avevano deciso che doveva stare lontano da tutto, segregato, isolato dalla vita reale. Ero anche bambina e così alle domande mi si rispondeva in maniera leggera perché io chiedevo ‘come mai una persona che sta male deve essere anche punita rinchiudendola a vita? Non si ammala di più?’ e l’unica cosa che mi rispondevano era: ‘stare in mezzo alla gente gli farebbe più male’.

Ma vengo a ora. Avevo idee abbastanza precise di quello che avrei trovato perché ero stata introdotta da una persona che vede prevalentemente con il cuore, poi con gli occhi. Ma, ciò nonostante, non credevo possibile una rivoluzione, un rivoltamento, una possibilità di perdere il timone.

Sedevo, in fondo, e traguardavo al di sopra dell’ombreggiante: una guardia in garitta dall’alto del muro antico, traguardava il dietro le quinte e spiava gli attimi di fulgente libertà dove una mano tocca un’altra mano, dove una spalla si appoggia all’altra, un’evasione collettiva in un budello lungo dieci metri e largo, a occhio e croce, tre.

Prima che tutto avesse inizio ai miei occhi, tutto già capitolava dietro.

Ma esce il primo attore e cattura, ruba il silenzio e tutti gli occhi, tutti sono piantati su di lui. Pure i miei, anche se di tanto in tanto mi sforzo per distrarli e guardare intorno, vedere e scrutare le reazioni. Io non so niente e non so chi è aguzzino e chi vittima, chi colpevole e chi innocente. Leggo solo gli sguardi e i sorrisi e l’allegria di tutti: una dilagante gentilezza m’avvolge. Impressionante che tutto questo calore si trovi in un luogo dove si scontano le pene. Eh no, non era così che me l’ero immaginato.

E così passano i minuti, veloci e scanditi dal ritmo genuino delle storie che si dipanano e traspare sopra a tutto l’entusiasmo e la passione che ci mettono: ammiro quelle anime che di colpo associo a delle barre d’acciaio, finite con l’essere fiocco, piegate e plasmate da una vita che avranno anche voluto e che avranno anche trovato o che sarà stata la meno peggio che gli sia capitata di vivere.

No, non è un buon momento per stilare una compilation di sentenze e giudizi: i giudici nel bene e nel male hanno già attaccato il collo di queste persone al binario della Legge, mandandoli ciascuno per le proprie colpe nelle mani di una gerarchia di uomini e donne che devono contenere e recuperare, recuperare e contenere.

Poi si è diradata, per progetto del regista, la maglia dell’allegria e lui stesso, il regista, c’ha mischiato un’amarezza preparatoria: ho iniziato a percepire cosa sarebbe successo dopo.

Si è conclusa così la 15° edizione dello spettacolo teatrale dei detenuti dell’alta sicurezza, o meglio la penultima rappresentazione di quest’anno. Alla gola un nodo perché dalla caciara che c’era fino a un po’ prima si passava a un’altra fase: il ritornare a vedere le mura medioevali come contenitori asfissianti, gli attori, dismessi i vestiti e i trucchi di scena, ritornavano uomini e il tempo riacquistava il peso solito, quello di loro che è diverso dal mio. È per questo che mi sono domandata se potevo io concedermi il lusso di commuovermi. Ho rintuzzato quelle lacrime, ho aspettato che l’emozione passasse e poi mi sono mischiata fra quei colori bellissimi, delle loro persone, delle loro anime che parlano attraverso gli occhi, attraverso una stretta di mano, che diventa un contratto di vita, per sempre.

Ho percepito in quegli occhi un rispetto profondo, un’attenzione per i particolari, un abbraccio infinito e un invito a entrare in quel mondo; in maniera inusuale fra le persone ‘libere’, ho sentito davvero la libertà di essere accettata esattamente per come sono, senza alcuna pretesa o aspettativa.

L’ho colto subito, all’istante e ho incrociato occhi belli e mi sono fatta abbracciare e ho risposto come potevo, alla meno peggio, sentendomi diverse volte in difetto per non poter lasciare in quel cortile almeno quanto stavo ricevendo.
E qualcuno ha parlato di ‘Speranza’, come di una bestia strana che ti illude e ti rende duttile nel credere che un cavillo, un’alchimia giuridica, possa riaprire la porta di ferro in fondo al corridoio. Quanta disillusione in quegli occhi che mi parlavano e proseguivano dicendo che sperare è legittimo solo se si ha un Dio al quale appellarsi.

Lì ho avuto un sussulto, un piccolo moto interiore di rabbia quasi: si sbaglia, quasi come ci si ammala, come quel mio lontano parente. Si può sbagliare anche pesantemente ma non si può togliere mai, a nessun individuo, la possibilità di sperare. Questa è la sola cosa che guarisce l’uomo.

E l’uomo che guarisce, dopo aver provato la morte, è senz’altro migliore.

 PLAUZEUR 
regia: Alessandro Togoli
Attori: Compagnia Alta Sicurezza:
i ragazzi: Sebastiano, Antonio, Antonio, Stefano, Giuseppe, Antonio, Lin, Emanuele, Gaetano, Luis, Giuseppe, Vincenzo, Mario, Emanuele, Mirko, Massimo, Marco.
i professori: Alberto Zuliani, Ganluca Comandi, Ilaria Gabellieri, Liviana Negri, Laura Casalecchi, Elena Garruccio.
Parte tecnica: Antonio, Stefano.
Parte culturale: Antonino.
Scenografi: Luigi, Antonio, Vincenzo, Sandro.
Fotografa: Sara Togoli
Luoghi: Volterra Casa di Reclusione 5,6,8,9 giugno 2012
Queste sono le sole repliche, non ne saranno fatte altre.
Nello specifico:
5 giugno per un pubblico di detenuti della media sicurezza
6 giugno per gli studenti maggiorenni delle scuole esterne di Volterra
8 giugno per un pubblico esterno ad invito
9 giugno per i familiari degli attori detenuti

Note sullo spettacolo

Lo spettacolo, attraverso la tecnica dell'intreccio, mette in scena diversi episodi: tre novelle del "Decameron" (frate Cipolla, i due senesi, ser Ciappelletto), Rabelais (inizio del "Gargantua e Pantagruel", le novelle popolari di Giufà (siciliana) e di Papa Caiazzo (pugliese), oltre ad una libera interpretazione della "Bisbetica Domata", diventata Catina, in versione popolarsiciliana.
Il tutto reso unitario dal contesto scenografico, ambientato nel Medio Evo, e dal concetto di piacere, nel senso di ciò che vorremmo. Il finale, un testo collettivo dal titolo "Piacere è" e esplicativo del perché è stato elaborato questo testo.

Note del regista, Alessandro Togoli

"Progetti futuri consistono nel continuare a fare scuola a livelli professionali, perché il nostro teatro è legato alla scuola; comunque ci sarà uno spettacolo legato alla shoà a febbraio (mi piacerebbe sui triangoli rosa) ed uno spettacolo a giugno dal titolo "Ma dov'è questa crisi" ed ispirato a Petrolini; sempre che non ci siano tagli o altro"



27 giugno 2012

“Fernando Leòn De Aranoa” a cura di Chiara Boffelli


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di Mimmo Mastrangelo

Lo danno per il Ken Loach spagnolo. E lui, Fernando Leòn Aranoa, ne è lusingato, anche se dell’accostamento al grande regista inglese prova pure un leggero imbarazzo. Madrileno, 44 anni, una forte attrazione per quei pezzi di società sempre più in difficoltà  ed invisibili a causa dei frutti avvelenati della pianta del liberismo, Fernando Leòn Aranoa tra il suo primo lungometraggio, “Famiglia” del 1996 e l’ ultimo, “Amador” dello scorso anno, ci ha regalato altri cinque film uno più incastonato dell’altro in un cinema politico che freme nell’urgenza di  far conoscere storie di uomini e donne perdenti.

L’ultima edizione del Bergamo Film Meeting ha proiettato del regista-sceneggiatore spagnolo  tutti i suoi film (compreso il cortometraggio “Sirenas”) e pubblicato  una monografia curata da Chiara Boffelli. Prima di passare dietro la macchina da presa, Aranoa  si è innamorato della scrittura cinematografica, ad un corso di sceneggiatura con tre docenti “ compresi – svela in un’intervista con Boffelli – che la materia prima dell’inventare storie era la vita, le relazioni umane, le nostre debolezze, i nostri punti forza, tutto quello che abbiamo di buono e di cattivo”. Il regista ritiene che fare cinema significa comunicare,  nello specifico  le sue opere  vogliono far conoscere un teatro della vita in cui si accalcano personaggi-naufraghi dalle esistenze lacerate e dai sogni infranti.
Ma nonostante la precarietà delle storie e il dramma che esse racchiudono, i personaggi di Aranoa (come nei film del francese Guediguian)  non si risparmiano in quanto ad humor e si fanno ancor più credibili  quando  stemperano lo stato della loro pesante condizione  con dei flash di allegria. Cinema di storie ben costruite ed elaborate, che seguono il più delle volte le direttive della coralità, una filmografia  che sembra voler “fare ordine, rimettere ogni cosa nella giusta  posizione in una scala di valori spesso invertita”.

Insieme a “Familia”  e “Amador” non si possono  non citare altri titolo: “Caminantes” (2001) in cui la vita di un villaggio messicano viene trasformata dalla notizia  della marcia dell’esercito zapatista, oppure “Princesas” (2005) che apre uno squarcio sul mondo della prostituzione madrilena rendendo visibili i rischi e i sentimenti che si annidano nella vita di chi deve sbarcare il lunario con il più antico mestiere del mondo. Ma il film manifesto del lavoro fin qui svolto da Leòn De Aranoa è sicuramente “I lunedì del sole” (2002), il cui titolo è pure una   metafora di come i giorni diventano tutti uguali quando si perde il lavoro (e quindi il lunedì si sta al sole, a far niente, come se fosse domenica). Qui lo sguardo autoriale si spinge in quegli spazi della vita degli operai  che si svuotano, afferra il disagio sociale e lo squaderna senza nessuna commiserazione o spettacolare “ammuina” .

Come riconosce  Chiara Boffelli, il cinema  di Fernando  Leòn De Aranoa parla dell’oggi e lo affronta, lo analizza con strumenti intelligenti, sottili, raffinati. Un cinema che a volte basta una battuta  per coglierne  le  sfaccettature. Si pensi  a quella frase verità de “I lunedì del sole” :  “Tutte le cose meravigliose che ci dicevano del comunismo erano false, ma il vero problema si rivelò che tutte le cose terribili che  ci dicevano del capitalismo erano assolutamente vere”.

FERNANDO LEON ARANOA: IL KEN LOACH SPAGNOLO.  monografia edita dal BERGAMO FILM MEETING, a cura di CHIARA BOFFELLI

26 giugno 2012

"Le lucciole" di Gianni Quilici




Non so nulla delle lucciole. Non ho mai saputo nulla. Ne’ ho mai cercato di sapere. Potrei cercare,  ora qui su Google, ma non voglio.
Le ho vissute soprattutto; le vivo ancora. Non più con gli occhi del bambino che ero. Con gli occhi disincantati che ora ho.
Eppure l’incanto può continuare a vivere quando nasce da una realtà che trascende la realtà stessa, che potrebbe ancora oggi diventare mito, sia pure piccolo mito personale, per tanti occhi ingenui che ancora esistono.
Le lucciole continuano a rimanere, infatti, una di quelle immagini forti, che l’infanzia ha scolpito in immagini  mitiche, con aggiunta la novella (bellissima) dei soldi che le lucciole avrebbero fatto una volta catturate e messe sotto un bicchiere. Come dire due miracoli: le lucciole in sé e la filiazione di soldi.

Non è un caso che Pier Paolo Pasolini individuò “la scomparsa delle lucciole” nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e soprattutto delle acque, come simbolo di un’epoca che finiva, la civiltà contadina, e ne apriva un’altra, la civiltà consumistica-edonistica, che avrebbe portato “ad una nuova epoca della storia umana” facendo diventare gli italiani “in pochi anni un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale” . Metafora che ha avuto molto successo, anche se poco consenso.
Perché le lucciole hanno un grande fascino. Un fascino onirico, vicino al sogno. Le lucciole, infatti, sono la notte, che come osservava Giacomo Leopardi, è indefinita; le lucciole sono la bellezza della natura notturna: un prato in distesa, un campo di grano verdeggiante; le lucciole sono esseri minuscoli che, su questi scenari autentici, si accendono e si spengono, appaiono e scompaiono ad intermittenza, dialettica tra luce-buio, tra essere-non essere, bellezza fragile che vive e muore nell’arco appena di una mezza stagione, tra la primavera inoltrata e l’inizio dell’estate, metafora luminosa, si potrebbe azzardare, di una giovinezza fugace.

Infine, le lucciole stanno tornando. In alcuni luoghi dove la campagna è rimasta campagna ed è stata, almeno parzialmente, disinquinata sono ritornate. Nella mia corte luccicano numerose tra campi e viottoli. Se mi sposto però non le ritrovo facilmente. Trasmettono una dialettica tra l’utopia di un sogno possibile e una realtà, che appare compromessa da un’urbanizzazione dissennata. Ti possono dire: c’è la possibilità di una direzione diversa che faccia propri modelli economici e   ecologici, estetici e culturali in cui anche le lucciole possano vivere ed infittirsi per il bene di tutti. Ma è davvero poco di fronte a paesaggi che di umano non hanno più nulla.

18 giugno 2012

"La folaga" di Odino Raffaelli


di Luciano Luciani
La voglia di raccontare 
dei diversamente giovani

In ogni piccolo borgo c’è sempre un luogo deputato alle chiacchiere paesane, al cicaleccio minimo, al pettegolezzo, spesso bonario, talora un po’ meno: un rumore di fondo, non sgradevole, che accompagna l’esistenza delle comunità minori e dei suoi abitanti, ne sottolinea i passaggi importanti (i matrimoni e i rientri dopo anni di emigrazione, le dipartite e le feste patronali), ne evidenzia gli attori e ne racconta i protagonisti.

I tavolini di un bar, una panchina dei giardini pubblici, un muretto non troppo alto assurgono così al ruolo di una micro-agorà paesana: Nella prima mattina la frequentano gli studenti renitenti alla scuola; il pomeriggio tardi la occupano i loro coetanei dopo aver adempiuto ai doveri scolastici; e, se babbo, mamma e la stagione lo consentono, sempre lì si ritroveranno, ancora per qualche ora, dopo cena. In tutte le altre fasce orarie tali luoghi sono appannaggio degli esponenti più brillanti e briosi del sempre più vasto popolo dei diversamente giovani: i pensionati, gli attempati, gli anziani.

Ed è proprio a ridosso del muretto di un paesino dell’Appennino tosco-emiliano che l’Autore colloca i suoi personaggi, tutti rigorosamente coi capelli bianchi e tutti con una gran voglia di raccontare e raccontarsi, e le loro storie.

Peccato, però, che al di là delle buone intenzioni affabulatorie, i ricordi non siano più precisi, né le idee sufficientemente chiare. Così, tra incomprensioni e fraintendimenti, equivoci e brusche impennate proprie dei caratteracci di montagna, si dipana il filo di racconti buffi e teneri, lievi e, al tempo stesso, densi di vita vissuta.

Perché Odino Raffelli attinge a un vasto repertorio di memorie private ed esperienze personali, rielaborandole con la leggerezza e l’umanità che gli sono proprie e che i lettori e la critica hanno dimostrato di saper riconoscere e apprezzare a ogni suo appuntamento editoriale.


Odino Raffaelli, La folaga, Collana “cartacarbone” 15, Edizioni Daris Libri e stampe, Lucca 2012, pp. 190, E. 12,00

Odino Raffaelli nasce a Vaglie, frazione del comune di Ligonchio in provincia di Reggio Emilia nel 1931. Mentre i genitori vivono e lavorano a Genova, il piccolo trascorre tutta la prima infanzia in montagna, presso i nonni paterni. A Genova ritorna per frequentare le scuole, ma, allo scoppio della guerra, l’Appennino reggiano sembrerà ai suoi familiari il luogo più sicuro per crescere un ragazzino lontano dai bombardamenti che devastano le città. Allora, il piccolo Odino guadagnerà ancora una volta le cime dei monti e qui proseguirà la sua formazione, seguendo programmi meno convenzionali, ma, certo non meno incisivi. È questo il tema della sua prima “storia di vita Un carezza sui ricordi.
Dopo la guerra Odino torna a Genova, per concludere gli studi con il diploma di capitano di Lungo Corso. Ben presto si imbarca e percorre rapidamente una carriera che lo porterà a comandare grandi navi da carico lungo tutti i mari del globo. Una vita sui mari raccontata con divertita umanità in La valigia sull’acqua, sua seconda, personalissima, fatica narrativa.

“Domenica mattina” foto di Wolf Suschitzky


di Gianni Quilici

Immagino la felicità di Wolf Suschitzky, mentre aspetta vedendo la strada fotograficamente magnifica nella linea di fuga tra strisce di pavé e asfalto ben disegnate che si perde tra due file di case popolari…

Quando ecco appare l’uomo, uno soltanto, vestito di scuro con l’ombra allungata delle prime luci dell’alba domenicale… Simbolo di una solitudine tranquilla, forse felice… le mani in tasca… in possesso lui di tutto lo spazio…

Ed infine guardandolo per l’ultima volta e cercando l’attimo del movimento dei piedi, Wolf Suschtzky scatta con la consapevolezza della bellezza dell’insieme e di alcuni dettagli, tra cui sicuramente la nitidezza della scritta in stampatello grande su sfondo scuro “LISTEN WITH ENKO RADIO” raccolto in tutta la sua lunghezza.

Wolf Suschitzky. Domenica mattina. Oldham 1946.

"Fallire" di James Greer


di Luciano Luciani

Sfigato è l’Eroe. Anzi sfigatissimo. Fragile e incerto, Guy Forget, americano, californiano, losangelino, è un inguaribile pasticcione: l’ennesima variante dell’ “uomo senza qualità” aggiornato ai primi anni del terzo millennio. Lo incontriamo all’inizio del romanzo già in coma e lo lasciamo alla fine immerso nei suoi pensieri, lucidi e terminali, qualche istante prima che qualcuno decida per lui di staccare la spina e di abbandonare per sempre questo stadio imperfetto dell’esistenza che è la vita.
In mezzo tutto un mondo: relazioni, affetti, idee, speranze, progetti, sogni…

Inetto di bella presenza, Guy condivide i suoi giorni con un amico, precario esistenziale, lo scudiero cialtrone delle sue sgangherate imprese; ama Violet, vedova consolabile, consolabilissima; un padre che decide di anticipare di poco la dipartita del figlio; una madre che del figlio non ha mai capito niente; un fratello poco amato, prudente e taccagno, “cervellone” professore di fisica teoretica al M.I.T; un Nemico, tanto invidioso, quanto maligno e irriducibile, “ho odiato Guy Forget con l’intensità del caloro bianco e della magia nera”, senza dimenticare la Regina dei Motomalandrini, un gruppo di bikers minori impegnati nella caccia ai pedoni e ai ciclisti… Aggiungiamo, poi, un folle progetto di “finanza creativa”, tanto demenziale da poter, chissà, anche funzionare e una piccola impresa criminale gestita in maniera che più maldestra non si può.

Ora dissolvete i piani temporali del racconto e mescolateli disordinatamente, fornite alla storia un linguaggio veloce, diretto, cinematografico, fitto di dialoghi infarciti di lessico da internauti e di musica rock e avrete tra le mani questo Fallire un’opera narrativa originale e spiazzante, provocatoria e abrasiva.

 L’ha scritta James Greer, giornalista e critico musicale cinquantenne, eclettico protagonista della scena musicale americana da almeno vent’anni. Un romanzo che è piaciuto al regista Stephen Soderbergh, quello Sesso, bugie e videotape, Erin Bronckovich, Ocean’s eleven, Ocean’s Twelve e Contagion: “Fallire di James Greer è un successo così totale , per concezione e realizzazione, che dubito fortemente che lo abbia scritto davvero lui.” 

Una dichiarazione in tono con lo spirito beffardo e pungente del libro, pubblicato in Italia per merito della piccola, coraggiosa, enigmatica editrice Quarup, che, in almeno un paio di occasioni l’anno, non manca mai di sorprendere i suoi lettori proponendo testi di graffiante qualità.
Pensiamo che al romanzo di Greer e ai suoi intraprendenti e scanzonati traduttori/redattori italiani si attagli bene una frase di Samuel Beckett: “Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio.”

Luciano Luciani

James Greer, Fallire, traduzione di Valerio Murri, Quarup, Pescara 2012, pp. 175, E. 14,90

17 giugno 2012

“Juliette Gréco” foto di Robert Doisneau




di Gianni Quilici

La poeticità della foto, di uno dei più grandi fotografi del 900, Robert Doisneau, il più grande forse nel rappresentare Parigi, è nella sottile bellezza di Juliette Gréco.

Questa bellezza risalta nell’insieme e nei dettagli ed è fin troppo banale sottolinearlo: nei capelli lunghi e lisci che le incorniciano il volto e le ricoprono la fronte, nella bocca carnosa e ben disegnata, nel naso piccolo e proporzionato, paradossalmente negli occhi (soc)chiusi, che (forse) guardano il cane, accovacciato sulle zampe, bocca aperta e occhi chiusi, come se stesse sbadigliando.

La poeticità della foto non è, tuttavia, tanto nella bellezza armonica di Juliette Gréco, ma in ciò che questa emana: delicatezza, finezza, purezza; in contrasto con l’immagine del cane quotidiana, naturalistica. Per riprendere il famoso “punctum” di Roland Barthes, mentre il cane è niente altro in ciò che si vede, la zona psichica di Juliette Gréco più intima è trattenuta, ci arriva come emanazione, non esibita, lieve, invisibile appunto.   

A completare: sullo sfondo evanescente nel biancore quasi onirico svetta il campanile di Saint-Germain-des Prés a segnalare il luogo, il contesto.

Juliette Gréco
«Mi chiamo Juliette Gréco, e non ho mai avuto uno pseudonimo. Sono nata il 7 febbraio 1927. Mia madre mi ha detto che quel giorno pioveva, e la pioggia favorisce la crescita di tutte le piante, anche quelle più velenose». Juliette Gréco, attrice e cantante francese, nasce a Montpellier, si veste sempre (e da sempre) di nero («perché è l’unico colore che mi difende e protegge, con un altro qualcuno potrebbe vedermi»), la sua pelle è ancora chiarissima (Pablo Picasso diceva di lei che «si abbronzava alla luna»), ed è stata amica e ispiratrice di Jacques Prévert, Jean-Paul Sartre, Raymond Queneau, François Mauriac, Boris Vian, Charles Aznavour.

Il padre di Juliette Gréco era corso e la madre, bordolese, fu un membro attivo della Resistenza in Francia. Venne arrestata nel 1943 e con la primogenita Charlotte venne deportata in un campo di prigionia. Juliette, che aveva solo 16 anni, fu invece liberata e venne accolta dalla sua insegnante di francese a Parigi, Hélène Duc, che la incoraggiò a partecipare al concorso della scuola d’arte drammatica francese più importante del tempo: il Conservatorio. Gréco non venne ammessa, ma Madame Dussane, nei suoi commenti, annotò «Da sorvegliare per l’avvenire».
Juliette Gréco iniziò a frequentare i caffè della Rive Gauche, ad esplorare la vita intellettuale del Quartiere Latino e di Saint Germain des Prés. Nel 1947, in Rue Dauphine, aprì il “Tabou”, poi leggendario luogo di incontro degli Esistenzialisti. Juliette ricorda:
«Si scendeva una scaletta di pietra, bisognava fare attenzione a non urtare la testa e si arrivava in un luogo rettangolare che sembrava ideale per far risplendere lo spirito della libertà riconquistata dopo i funesti anni nazisti dell’occupazione. L’oscurità del Tabou era squarciata dai lampi del nostro entusiasmo e i Maestri offrivano il sapere senza costringerci all’inchino».  
Nel locale si ritrovavano anche i più grandi artisti e musicisti del tempo, come Jean Cocteau e Miles Davis con il quale Juliette ebbe una storia d’amore (si è sposata tre volte: con gli attori Philippe Lemaire e Michel Piccoli e con il pianista Gérard Jouannest che, ancora oggi, la accompagna sul palcoscenico). Il successo arrivò nel 1949, quando Prévert, Queneau e Aznavour scrissero delle canzoni per lei e Jean-Paul Sartre le donò, invece, il testo “La Rue des Blancs-Manteaux”. [da “Il Post”]

  •  Alcune  impressioni prese da Face Book



  • Lidia Campagnano la forza del biancoenero, o la sua poesia...



  • Carmela Linda Longo Vedo..... poetico e delicato riserbo, i suoi occhi chinati esprimono forza di parole non dette...tutto intorno sembra annebbiarsi sotto la luce di un giorno uguale agli altri.....lei, che vestita di nero vorrebbe essere un puntino nero in una linea senza fine, è il fulcro dell'insieme.....ed è radiosa!


  • forse il bello è l'indecifrabile
  • Lisa Manescalchi nitidi affetti in una offuscata realtà...
    .

  • Isabella Eugenia Monti ‎...quando lo sguardo si abbassa non possiamo che notare un elemento di perso ricordo..di malinconica e pudica preghiera che la avvicina alla vita e all'amore nel gesto di delicato contatto con il suo piccolo animale..tutto il contorno del corpo e del suo cappotto mantengono lo stesso profilo della cattedrale alle sue spalle che ne sembra delineare la forma quasi fosse la sua ombra perfetta in una delicata e persa nebbiosa nostalgia...è lei la cattedrale stessa di luce potente e dolorosa, pura e complessa come una costruzione gotica, misteriosa come i segreti che la custodisce...perfetta nella sua bellezza di inavvicinabile compostezza...e noi non possiamo che ammirare l'intero paesaggio e sognare di esserci...


  • Irene Balducci mi appare un sistema di dominazioni: il campanile su di lei, lei sul cane. Tenui, impercettibili, sfumate. L'uscita sembra un urlo o forse è uno sbadiglio...sarà per questo che sento tutto così dolce, tenero, impalpabile...


  • Grazia D'Isanto Un intero universo.

16 giugno 2012

"Ho ascoltato Bauman" di Irene Balducci

UN SOLO PASSO. AVANTI.


Ho ascoltato Bauman a Pistoia, una straordinaria mente di quasi 90 anni, pacata, lucidissima, realista, consapevole. Ho amato molto leggerlo negli ultimi anni, utile spunto per poter comprendere quanto ci stia accadendo attorno. Certo l’occasione dell’ascolto, della visione della gestualità, della possibilità di godere dell’immagine, rende l’esperienza intellettuale di gran lunga superiore rispetto a una lettura. Tuttavia mi è mancato uno scambio, un domandare e un suggerire punti di vista e questa mia sensazione di limite della docenza è stata intensificata dal messaggio sostanziale del seminario. Mi spingo a immaginare che lo stesso Bauman ne abbia sofferto, mentre visualizzo con un sorriso la sua faccia e la sua gestualità all’ingresso in sala: perplesso più che imbarazzato, è stato accolto da uno scrosciante applauso preventivo, degno solo di una grande star hollywoodiana. Obiettivamente rendere fruibile un intellettuale a un così vasto numero di persone impedisce l’instaurarsi di relazioni di scambio, idealizzate ma irrealizzabili perfino dal sociologo che le auspica come via di uscita da un sistema in liquefazione. Ai miei occhi si è “salvato” con quei suoi gesti di imbarazzo, quasi di fastidio di fronte all’acclamazione, espressioni così umane, di uomo tra gli uomini, come forse solo un umanista può rimanere anche mentre viene accolto come un mito da degni rappresentanti di una società bisognosa di leader.

Non posso trattenermi quindi dal rimettere in circolo con gli amici le illuminazioni di cui sono stata ”vittima”. Uso il termine a proposito non solo per ribadire la grande difficoltà ad venire fuori dalle dinamiche relazionali soggetto-oggetto, ma anche e soprattutto per rendere la sensazione di apertura che ho vissuto, di compenetrazione, come se avessi subito una ferita che anche quando si rimarginerà non lascerà niente come prima, e nessun legame resta nel tempo tanto stretto ed è tanto trasformante quanto quello tra una vittima e il suo carnefice. Appena uscita ho avuto bisogno di fermarmi al sole, poi con calma mangiare qualcosa, poi rintanarmi a casa per dormirci su, solo in seguito ho saputo ri-emergere dal vortice che mi ha creato, metabolizzare l’incontro. Una sorta di sindrome di Stendhal, un orgasmo intellettuale, che forse nasconde anche caratteristiche di violenza ma non coercitiva. Mi appare necessario ripercorrere e condividere quest’esperienza perché sia un gradino del cammino su cui cerco di procedere, insieme a molti altri e credo che mai come adesso sia necessario fare un passo insieme, proprio in questo momento storico in cui sembra che uno solo dei passi possibili sia quello che ci porterà “avanti” .

Bauman si è interrogato su una fotografia molto attuale della nostra realtà sociale.

Sono stati molti recentemente su scala mondiale i “movimenti di piazza” come quello spagnolo di Los Indignatos, le occupazioni di luoghi pubblici più o meno significativi quali Wall Street, Piazza Tahrir, o i terremoti politici più o meno annunciati come in Francia, nel Nord Reno Westfalia, nelle ultime amministrative in Italia. È difficile dire che cosa cerchino questi “movimenti”, più facile è ipotizzare che cosa tentino di fuggire: solitudine, abbandono, vedere intorno persone tese alla competizione, individualismo… Cosa riescono ad ottenere? Senz’altro la liberazione assicurata da un’esperienza di piazza:  l’incontro con l’altro al di fuori delle ormai normali regole, delle contrapposizioni pseudo-tribali, il ritrovarsi vicini, condividere sensazioni, emozioni. Quelli che scendono in piazza cercano di stare uniti e ci riescono.  Vediamo persone unite, o almeno sembrano.

Gli occupanti di Wall Street si dichiaravano il 99% della nazione, una nazione quella americana, tra l’altro estremamente divisa, dal punto di vista etnico, religioso, politico… “Noi siamo tutti contro l’1%” questo era il messaggio americano, lo stesso certamente quello di Parigi, di  Madrid, della Grecia, ma anche delle italianissime 5 stelle, troppo poco luminose per essere citate da Bauman - le cito io. La totalità dichiarata da questo messaggio è una totalità immaginata, che permette di ideare una nazione, la nazione desiderata, più piacevole di quella reale.

Ma quali saranno le conseguenze di lungo periodo di questi movimenti 
a cui istintivamente ognuno di noi vorrebbe partecipare?

Se non resisteranno nel  lungo periodo, la migliore conseguenza sarà soltanto la forza liberante di un carnevale, durante il quale si sovvertono le regole abbastanza a lungo per recuperare le forze necessarie a ritornare nel quadro di una faticosa realtà. Certo ci sono stati evidenti successi, purché “tragici”, conquistati da questi movimenti, come ad esempio riuscire a togliere di mezzo chi non si voleva più, un Mubarack, un Gheddafi, ma col tempo si presenta il problema dell’individuare con chi soppiantare queste figure un tempo carismatiche. Un altro immediato successo, anche più positivo, è dato dall’opportunità di aver unito categorie sociali tanto diverse tra loro: i poveri, gli affamati hanno manifestato al fianco del ceto medio che pur non gridando la propria fame intendeva conquistare un potere politico almeno pari al proprio potere economico. Tutti hanno sospeso per un periodo le proprie diversità focalizzando e sostenendo insieme un unico punto di accordo. Era accaduto anche con Solidarnosc e allora rappresentava qualcosa di nuovo rispetto ai precedenti grandi scioperi di categoria: tutti uniti si sovverte un regime, si elimina il problema individuato, però quando successivamente si è trattato di discutere con che cosa andasse sostituito, allora non è stato più possibile raggiungere l’accordo.

Oltre il ricordo, di una lotta unita e condivisa contro lo stesso obiettivo per una identica causa, cosa resta? Nella nostra società una battaglia combattuta insieme può ancora assumere i contorni di un’esperienza fondativa? Riesce a creare una società più condivisa? Potrebbe farlo se riuscisse ad andare definitivamente oltre la divisione, superando concretamente, nella costituzione della nuova società, quell’esperienza di solitudine e abbandono che ha attivato le occupazioni, i movimenti. Sarebbe possibile concretizzando la solidarietà, come è accaduto in alcune epoche, ad esempio in Italia con l’esperienza della Costituente.

Occorre delineare bene allora cosa significhi SOLIDARIETA’,
 che è un concetto diverso da TOLLERANZA.

Tollerare significa viversi accanto senza farsi la guerra, manifestarsi rispetto lasciandosi in pace senza interferire. Tollerarsi può tuttavia celare un pericolo: “Ti sopporto, ma io sono superiore, il tuo stile di vita va bene per  te, ma io non lo posso nemmeno sfiorare”. Chi tollera si sente superiore, ma ha deciso di non farlo pesare. La tolleranza è quindi strumento di riaffermazione di posizioni ed è destinata a condurre ad una società diseguale. Certo la tolleranza rappresenta un passo avanti formidabile rispetto a certe attitudini più arretrate. Nel nostro secolo, forse come mai prima d’ora, siamo stati e siamo di fronte quotidianamente al diverso, all’estraneo, allo straniero, allo strano.  Claude Lévi-Strauss, antropologo francese, ha teorizzato che l’umanità abbia da sempre attuato due fondamentali strategie per tollerare il diverso: ANTROPOFAGIA e ANTROPOEMESI. La prima conduce a ingurgitare il diverso, distruggerlo annientando la sua identità, lo si elimina inglobandolo; la seconda strategia prevede invece di vomitarlo, escluderlo, rifiutarlo, respingerlo. Di fronte a queste due strade la tolleranza si pone allora come un passo avanti.
La solidarietà è qualcosa di diverso e di più evoluto.

Hannah Arendt, una famosa pensatrice tedesca naturalizzata americana, ha amato molto Lessing, illuminista tedesco che ha avuto il coraggio di affermare allora, che la diversità è qualcosa che rimarrà nel tempo, che non è superabile. Coraggioso affermarlo in pieno illuminismo quando le teorie prevalenti fissavano che esiste un solo modo di essere umani che alla fine prevarrà. Arendt lo trova straordinario anche perché Lessing era felice di questo stato di “eternità della diversità”, compiaciuto della differenza ritenendola il fondamento della creatività umana: solo la molteplicità della verità può produrre creatività. Un concetto a cui molti ancora oggi non sono giunti e che a me incuriosisce molto: diverso come originale e per questo creativo, capace di arricchire, creare progresso, evoluzione.  L’ottimismo di Lessing scaturiva però dall’immaginazione della solidarietà piuttosto che della tolleranza. Tolleranza è un comportamento che riconferma le differenze, ribadisce la diseguaglianza tra soggetto ed oggetto: il tollerante preserva la propria soggettività e considera l’altro, oggetto della propria tolleranza. Nella solidarietà tutti sono soggetti, tutti i solidali hanno diritto all’azione ad intermittenza, si è alternativamente soggetto ed oggetto, docente e discente.

Questa “scoperta” mi ha messo in discussione. Ho sempre sbandierato la mia tolleranza e, perfettamente inserita nella categoria, mi sono sentita spesso forte nella mia “superiorità” rispetto a chi tollerante non appare. Ho suggerito, talvolta forzato, atteggiamenti di tolleranza, provando a convincere chi istintivamente non era sulla stessa posizione, chi  non era tollerante. Mi capita frequentemente di sopportare con una certa compassione posizioni a me estranee e distanti, ma certamente non sono disposta a farle entrare in me, nella mia vita. Sarà per questo che mi è apparsa davvero rivoluzionaria la strategia dell’antropologo tedesco Kurt Wolff che Bauman ha citato come esemplificativa del concetto di solidarietà: ARRENDERSI E CATTURARE. Chiaramente è un atteggiamento misurato sull’antropologo: se vuole portare via le spoglie di un popolo, conoscerlo, comunicarlo occorre prima di tutto che si arrenda all’esperienza dell’altro, entrandoci dentro fino a dimenticare per un determinato tempo la propria identità, il proprio stile di vita. Questa è Solidarietà: io che divento te per diventare un nuovo me e per realizzare un nuovo noi. Potrebbe forse essere la solidarietà così definita, la chiave con la quale i movimenti di questi mesi possano dar luogo ad una nuova società, il gradino da salire per trasformare il carnevale in realtà quotidiana.

 Che probabilità ha oggi la solidarietà di procedere? 
Cosa si può fare per evolvere?

Bauman ritiene che da 30-40 anni viviamo in un contesto sociale che definisce “liquido”. La nostra è una modernità diversa da quella precedente. Fino a 40 anni fa il concetto di modernità era fondato su cittadini PRODUTTORI; consumare era un bisogno naturale non indotto, il produttore aveva un ruolo nella società, oggi un ruolo è assunto dal consumatore. La società dei produttori era una varietà sociale SOLIDA e, benché si sia macchiata di molti crimini, grazie alla rete di produttori era una FABBRICA DI SOLIDARIETA’. Le fabbriche del ‘900 non avevano bisogno di piazza Tahrir: gli operai stavano insieme, sperimentavano solidarietà grazie al ruolo occupato nella società; le loro condizioni quotidiane rendevano la sensazione di “vivere nella stessa barca”, collaboravano, condividevano interessi e lagnanze. Si dava luogo ai grandi scioperi per rivendicare diritti condivisi, rendere pubblici bisogni di categoria. I movimenti di massa di oggi non hanno niente a che vedere con quei grandi scioperi: gli occupanti di Wall Street hanno chiesto il contributo di Lech Walesa, ma Solidarnosc, non può essere di sostegno a queste nuove tendenze frutto della modernità liquida. Il movimento di Solidarnosc si colloca in mezzo, forse come il primo dei nuovi movimenti di massa, condivisi da molteplici classi sociali, ma anche l’ultimo dei grandi scioperi dei decenni precedenti perché inserito in un contesto sociale di tradizionale modernità.

Quella società non esiste più. 
Pertanto è inattuabile un passo evolutivo fondato  sulla solidarietà.

La nostra società è deregolamentata, atomizzata, individualizzata, sono state smantellate le condizioni di dipendenza che tenevano insieme gli individui produttori. Destrutturate, le fabbriche si sono trasformate in laboratori naturali di sospetto e concorrenza, quello che ci si aspetta dall’altro, ormai non più collega, è sempre qualcosa di spiacevole, di dannoso. Siamo di fronte a FABBRICHE DI SOSPETTO.

C’è stato un periodo, neanche troppo distante, in cui gli intellettuali investivano sul proletariato credendo che fosse la categoria in grado di cambiare il mondo migliorandolo. Quegli stessi intellettuali si ponevano su un piano di inferiorità rispetto ai proletari, si pensavano deboli, capaci solo di scrivere e pensare, mentre i proletari erano  forti, in grado di combattere uniti e solidali. Ma oggi quella tanto potente categoria è stata indebolita ed ha ceduto il posto al PRECARIATO, una nuova realtà sociale che vive sulle sabbie mobili, nell’incertezza costante, che ha una sola certezza: l’incertezza. Allora, così come attraverso i processi storici del XIX secolo, l’AGRICOLTURA ha ceduto il posto alla FABBRICA, allo stesso modo oggi il PROLETARIATO tradizionale si sta restringendo a favore dei PRECARI. Il precariato poi si diffonde a tutte le tipologie di lavoro, per cui chiunque vive nell’incertezza o dei prossimi ”tagli” di governo che fanno tremare i dipendenti pubblici, o della prossima razionalizzazione aziendale che fa tremare i dipendenti del settore privato, o della possibile esternalizzazione che blocca l’indotto… Tutti possiamo essere vittime, non c’è niente da fare per rendere la propria posizione più stabile; ad esempio alla Silicon Valley, massima ambizione sul piano professionale per molti grandi cervelli, un buon contratto che si possa strappare ha durata media di 8 mesi. A causa di questa precarietà non è più possibile promuovere solidarietà, se non durante una passeggiata di piazza, durante un carnevale, che prima o dopo finisce.

Un tempo il proletario deteneva un potere: il valore del suo lavoro, da cui l’efficacia dell’impresa dipendeva. Il rapporto di dipendenza che legava il datore di lavoro al lavoratore era allora vicendevole. Oggi è sbilanciato a causa della mobilità di entrambi in precedenza mai sperimentata, dell’outsourcing, della sostituibilità. Qualche decennio fa l’imprenditore era saldamente radicato al proprio territorio, la sua fabbrica era possibile solo in quel luogo e lui stesso era lì che intendeva rimanere, stava fisicamente al fianco dei suoi operai. La realtà della mobilità odierna favorisce le distinzioni, le diseguaglianze: prima, essere in qualche modo costretti a ritrovarsi quotidianamente, dover addivenire ad un modus vivendi, sopportare una quotidianità insieme, sul un piano umano, univa. Oggi la contrapposizione tra soggetto ed oggetto è sempre più marcata e pericolosamente non si autolimita: qualcuno può essere sempre più libero, anche di dare comandi telematici comodamente seduto su una spiaggia, qualcun altro perde perfino la libertà di combattere per i propri diritti, di combattere per la propria libertà.

In questo contesto liquido e disparitario solo l’individualismo sembra garantire una personale certezza, una forma di solidità: solo utilizzando l’altro a riempire le sabbie mobili sembra possibile venire a galla, quindi è attraverso la competizione che si emerge, ma in modo individuale, senza resa, senza i presupposti della Solidarietà.
Ad amplificare tutto questo e ad impedire quindi ulteriormente la possibilità di servirsi della Solidarietà come passo avanti per l’evoluzione della società, ci si mettono gli incessanti flussi migratori. La migrazione, da sempre costitutiva della nostra realtà è destinata nel tempo solo ad aumentare. I lavoratori si spostano, con tutte le migliori intenzioni, ma certamente non rinunciano volentieri alla propria identità, così come chi li ospita. Quindi, condannati a convivere col diverso, occorre trovare una strategia collaborativa alternativa alla Solidarietà.

E qui Bauman si ferma.

Smette di dipingere con estrema semplicità e lucida chiarezza un quadro dalle tinte per niente rassicuranti, un triste paesaggio ormai allagato su cui continua a cadere pioggia e che tutti noi negli anni abbiamo solo innaffiato. Da attenta e silenziosa la sala si è fatta cupa e mugugnante, reazioni istintive e distribuite sono state quelle di sillabare qualcosa al vicino di sedia, di cercarne gli occhi, di leggere un’espressione simile alla propria a rappresentare un conforto. Velocemente e pacatamente era in atto un tentativo estremamente  umano di allontanare, per quanto possibile nell’Hic et Nunc, quell’individualismo che abbiamo riconosciuto come concreta e inesorabile parte delle nostre vite e che a tutti fa davvero paura. A questo punto un uomo del suo calibro, con la sua storia, la sua formazione, la sua esperienza, la sua intuizione, avrebbe facilmente estratto il coniglio dal cilindro, ci avrebbe certamente sollevato, meravigliato, in fondo quello che ci sia aspettava a quel punto era una chiave concreta per aprire la via d’uscita. Bauman ha offerto un materiale, tra l’altro neanche suo, e l’ha lanciato in sala come se potesse essere la chiave di tutti quelli che riescano a raccoglierlo, a forgiarlo, a limarlo perché lo strumento prodotto possa entrare nella propria serratura.

Il sociologo Richard Sennett si è chiesto cosa significhi oggi, nel nostro tempo, essere umanisti ed ha risposto introducendo la strategia approssimativa della “INFORMAL OPEN-ENDED COOPERATION”. È un’ipotesi di certo estremamente libera ed approssimativa, non è una mappa che ci indichi una strada, ha un limite enorme,  non insegna, suggerisce e in questo stesso limite sta la sua grandezza: potrebbe essere il vento su cui possa galleggiare la società liquida.
  • INFORMALE: senza regole, senza norme, senza attese, neanche di risultato; le uniche regole possono emergere dal dialogo.
  • APERTA: cioè attuata a porte aperte dove chiunque possa entrare, ma anche a mente aperta dove ognuno possa essere alternativamente docente e discepolo, possa arricchire l’altro per quanto sia estraneo, alieno, strano.
  • COOPERAZIONE: non si tratta semplicemente di dialogo, di discussione, di dibattito, non è un seminario universitario, nemmeno un’arena dove alla fine predomina una posizione, dove uno avrà ragione ancora prima di discutere. È qualcosa di più: è un impegno vicendevole senza vincitori né vinti che si concretizza in operatività. Nessuno potrà uscire vincitore, tutti saranno sempre più ricchi.
Non si tratta di Solidarietà: in una società liquida dove non c’è sicurezza non ci si può permettere il lusso di arrendersi e catturare. Il più grande sforzo possibile è quello di aprire una porta in se’ stessi per discutere su un piano paritario con l’altro, senza regole, come capita, mettendo in gioco ogni parte di se’, con la consapevolezza che non esiste una sola verità e che nessuno dei dialoganti sa dove si andrà a finire. È uno sforzo superare il dialogo aperto e informale e renderlo anche operativo, utilizzando energie fisiche oltre a quelle intellettuali.

È per questo che ho dedicato un po’ del mio tempo per scrivere: per non essere solo vinta dalla potenza del pensiero di Bauman, per farmi attivo vincitore e trasformare la sua idea con un pezzo di me, metterla in circolo perché chiunque possa aggiungere nuovi mattoni ed edificare insieme una nuova società. Perché in molti  si possa cooperare, anche solo soffiando un buon vento su questa troppa acqua. Allora ho provato a ripercorrere il filo del suo ragionamento così come l’ho masticato, filtrato e sviluppato, senza distinguere troppo il suo pensiero dal mio. L’eccellenza della riflessione di Bauman mi porta a credere che non rivendicherebbe alcuna paternità, che forse sarebbe lieto di una cooperazione informale e aperta, che ritiene essere l’unico possibile nostro futuro. Di certo troverebbe da correggere alcune mie semplicistiche e forse errate interpretazioni, ma non sono altro che una mente alla ricerca, curiosa ed “errante”.


da  il giardino degli elefanti

08 giugno 2012

"Sofia Loren em Portugal" foto di Agnès Varda



di Gianni Quilici


Una foto è uno sguardo. Una foto sono tanti sguardi.
Questo è uno scatto di Agnès Varda, regista di "Senza tetto ne' legge", Leone d'oro a Venezia nel 1995, di "Garage Demy", dell'ultimo bellissimo documentario autobiografico "Les Plages d'Agnès".

Il primo immediato sguardo è sulla ragazza, volto tondo concentrato, piedi scalza-marciapiede, ombra-muro screpolato.

Il secondo inevitabile sguardo sul manifesto, in alto, di Sofia Loren strappato e un po' staccato; e a quel punto scatta l'associazione -quasi incredibile- per affinità-opposizione con la ragazza che ricorda una Sofia Loren più giovane e di strada. Una ragazza comunque vera, viva, scolpita non pubblicitaria come  in quel tipo di foto del manifesto la Loren appare.

Il terzo più distratto sguardo è lo spazio del paese, Povoa de Varzim in Portogallo, con scorci di case, camini, torrette.
Qui la Varda poteva anche togliere, in camera oscura, questi dettagli, perché la foto restasse più concentrata sul rapporto ragazza-Loren, comunque centrale nello scatto. Ha voluto invece dare respiro, allargare lo sguardo.

E  comunque viene da chiederci: Agnés Varda che avrà fatto quel giorno?
Avrà visto il manifesto e avrà aspettato la giusta vittima (dello scatto) o è stata fortunata d'un colpo?

Agnès Varda.   Sofia Loren em Portugal. Povoa de Varzim, 1956

04 giugno 2012

ITIS Galileo L’importanza della carta stagnola di Marco Paolini






di Maddalena Ferrari


Una lunga camminata attraverso un corridoio e poi l’attore (Marco Paolini) ed un gruppo di ricercatori, rigorosamente muniti di casco, arrivano nella Sala B, uno dei laboratori sotterranei dell’Istituto di Fisica Nucleare del Gran Sasso, dotati di macchinari complessi, finalizzati a progetti di studio. La Sala B è videocollegata con la Sala Fermi del medesimo Istituto, più grande, dove sono presenti altri ricercatori, più numerosi ( i laboratori sotterranei hanno precisi limiti di capienza ), con cui alla fine dello spettacolo avverrà uno scambio di informazioni\commenti, sotto la guida di Natasha Lusenti .
La scena: una sfera, una mina vagante, che pende minacciosa dal soffitto, legata ad una catena, azionata dall’attore mediante un argano: egli la fa salire, scendere, oscillare; una campana, appesa anch’essa al soffitto, il cui suono secco e inquietante irromperà qualche rara volta nella narrazione. Estrema sobrietà anche per l’abbigliamento dell’attore, che, nel corso della performance, si doterà di accessori quantitativamente irrilevanti, anche se metaforicamente significativi.

Marco Paolini inizia a scambiare qualche parola con il suo pubblico ristretto; poi chiama in successione due ricercatori e fa leggere all’uno un “bignami” di Platone e all’altro un “bignami” di Tolomeo. Così, tra Storia, Scienza, citazioni e battute, è introdotto il tema: quale visione dell’universo e su quali basi?

Ma Paolini a raccontare “la prende un po’ bassa” e l’ITIS, proprio nel senso di Istituto Tecnico Industriale, è il segno del “meccanico” Galileo Galilei: uno che cercava non il perché, ma il come...non per niente una vasta sezione dello spettacolo è dedicata all’invenzione ed all’uso del cannocchiale.
Su questa base si articola il conflitto fra pensiero dinamico, che parte dall’esperienza e pratica l’esercizio del dubbio, e la visione dominante del potere, con le sue certezze dogmatiche.
  
 Il racconto procede avvincente, divertente e denso di dati informativi.
Facciamo la conoscenza di Galileo scienziato, delle sue scoperte e invenzioni, ma soprattutto del suo metodo; ed anche di Galileo divulgatore dei propri studi : l’attore ci parla della chiarezza e della bellezza dei suoi testi, dal “Sidereus Nuncius” alle lettere, dal “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano” agli appunti, per arrivare all’ultimo “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze”, apparso a Londra nel 1638, dopo la condanna e l’abiura.

Siamo messi di fronte alla grandezza di Galileo, che ci appare però nella sua complessità di uomo, con contraddizioni e debolezze: le ambizioni, l’autoconsapevolezza, le meschinità ( il rapporto con il potere, quello con la donna che gli dette tre figli ), perfino le “cantonate” ( la teoria delle maree dovute al movimento della terra ).

Ma nella pièce non c’è solo Galileo: oltre a Copernico, Keplero, Bruno, che gli fanno buona compagnia, c’è la storia del Teatro, ci sono Shakespeare e “Amleto”, di cui ascoltiamo un piccolissimo estratto in “lingua madre” ( di Paolini, cioè il veneto ); ci sono la riforma del calendario, il viaggio di Colombo, la medicina e le lezioni di anatomia...

Lo spettacolo ( autori lo stesso Paolini e Francesco Piccolini ) si sdipana intensissimo, senza dare tregua; ha momenti di pregnanza poetica: si apre la sfera ed all’interno l’astrolabio viene fatto ruotare armonico dalla mano di Paolini, che con l’altra mano tocca la catena come le corde di un violoncello, di cui sentiamo la voce nel preludio della prima suite di Bach; l’attore si copre il volto con una maschera e recita, in dialetto veneto, con qualche spruzzatina di inglese, la dimostrazione che nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” Salviati fa dell’erroneità delle convinzioni di Simplicius a proposito della condizione e del movimento di corpi, animati e non, sopra un altro corpo, anch’esso in movimento; e spunti di schietta comicità: l’esponente tedesco del Sant’Uffizio, che proclama l’ereticità del testo di Copernico; Copernico,che, dopo aver aspettato, come dice lui, tre volte nove anni, arrivato alla fine della sua vita, pubblica il libro, tanto ormai...;Galileo che gigioneggia ( come anche l’attore che lo interpreta, dice Paolini ), quando i Medici lo richiamano da Padova in Toscana; il corporativismo dei professori dell’università di Pisa, che si vedono passare avanti il nuovo venuto e poi devono anche cambiare il programma di astronomia...   

Marco Paolini.  Itis Galileo. L'importanza della carta stagnola. La 7.

"Qualcosa di scritto" di Emanuele Trevi


PETROLIO DI PASOLINI,
 ELEUSI ALLA LUCE DEL SADOMASO?
  di Emilio Michelotti


Ho letto Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi. Mi è sembrato un bel libro, agile, accattivante. Non tutto, però, mi pare andato per il verso. Provo a tratteggiare quel che mi trova concorde e quello che – chi legge perdoni la presunzione – non mi convince.
Tralascio le molte pagine di amorose maldicenze e di affettuosi pettegolezzi su Laura Betti e vado al sodo.

Concordo su:
1)- Forse l’ultimo romanzo di PPP è un finto abbozzo, la sua incompletezza è presumibilmente in gran parte una scelta letteraria.
2)- Il racconto si fonde con l’esperienza vissuta, ne rappresenta la sua stessa stesura narrativa.
3)- Pasolini, quindi, sperimenta, nello stesso momento che documenta, un rito di iniziazione, che per Trevi è consustanziale alla scelta sessuale di “fare la femmina”.
4)- E’ un’iniziazione in piena regola e, come tale, è intesa da PPP come morte-rinascita, passaggio a una superiore conoscenza.
5)- Conoscenza ciclica, anche nel senso di un circolo ermeneutico che va dalla creazione testuale alla comprensione “totale” e viceversa.
6)- Condizione di questo passaggio di consapevolezza è l’esperire l’intera gamma delle possibilità umane. Centrale è il binomio differenza/identità sessuale. La stessa antinomia presente nel mito di Tiresia, aggiungerei, nel quale il potere di preveggenza origina dalla più radicale delle iniziazioni: tornare ad essere maschio dopo essere stato femmina.
7)- Petrolio è “un’opera-mostro”, “una morte in atto”, “qualcosa di sporco come l’acqua del cesso prima di tirare la catena”. Ma è anche, con le coeve Salò e Divina mimesis, fra le opere più caste che si conoscano.

Che cos’è che ha suscitato, in me lettore, un po’ di delusione e una leggera irritazione?
a)- Il legame di Salò con Sade è più che esplicito, didascalico. E, in un certo senso, il nesso vale anche per Petrolio. Ma non direi nel senso indicato da Trevi. A me pare che PPP si serva del sadismo e del masochismo come strumenti e manifestazioni esteriori del rito di passaggio stesso. Una cosuccia che implica il molto di funereo presente nella sessualità e la effettiva possibilità di autoannientamento e autoimmolazione. E che, trasferita sul piano letterario-filosofico, rappresenta una chiarificazione di quanto vi è di sacro nella violenza del sesso.

Un’idea di sacralità (intoccabilità, praticabilità eversiva) che, dalle più antiche società patriarcali, giunge quasi intatta a quelle capitalistiche del Novecento. Non è un caso che gli “illuminati” Sade e Pasolini fondino su tale trasgressione la loro critica radicale all’illuminismo, per l’uno, e alla sua estrema deriva consumistica, per l’altro. Due autori “ciechi”, marchiati cioè in modo indelebile, disumanante (come, appunto Tiresia), di una terribile capacità di preveggenza (pre-videre, vedere prima, con agghiacciante lucidità).

b)- Dal mondo dei Troya/Cefis, del potere stragista e mafioso, origina, per accumulo, l’intero disordine cosmico. Ogni nefandezza di questi osceni personaggi permane nell’intera storia umana e va a formarne il grumo malefico. Ai due Carlo Valletti è affidata tutta la possibilità di conoscenza possibile, ma nessun potere d’intervento. Sono due impotenti, anche se in modo molto diverso. Il doppio produce l’androgino, il doppio del doppio. Figure simili alle dee mediterranee, estromesse dal potere, con grandi seni cadenti per lunghi allattamenti e il sesso, significativamente, come “piccola piaga”, come “un nulla coperto da una macchia di peli”. Carlo primo, dopo l’esperienza androgina è condannato, per nascita e cultura, al dubbio, alla autocolpevolizzazione.

A Carlo secondo tocca in sorte la “conoscenza totale”. Giusto. Non mi pare un caso, però, che questi avesse scelto, come donna nel suo percorso iniziatico, la promiscuità più innocente e abietta, che si concretizza nel Pratone della Casilina in ciò che Trevi definisce “estasi della sottomissione”. Da ciò il dono della visione, della preveggenza profetica sul genocidio che si sta consumando nell’indifferenza generale.

c)- Nulla Eleusi ha a che fare, a mio parere, con le pratiche sadomaso. Casomai col rifiuto del sesso, con la partenogenesi, se Persefone è figlia della casta Demetra. Con l’uno e il molteplice (chicco e spiga), col doppio (pre-dantescamente madre e figlia di sua figlia). Il citeone (orzo, miele, menta) si oppone all’ebbrezza dionisiaca (non c’è fonte che citi droghe). Quel che colpisce PPP è certamente il contenuto di protesta femminile e antiurbana che s’instaura per un millennio alla periferia di Atene. E la violenza generatrice di colpa che egli vi scorge è proprio ciò che ha dato vita al “suo” mondo contadino: un inganno, uno stupro, che costringe Gea a produrre figli non suoi, mostruosi ibridi partoriti dalla mente maschile, una violenza simboleggiata dal ratto di Persefone da parte di Plutone.

Emanuele Trevi – Qualcosa di scritto – Ponte alle Grazie, 2012, euro 16