28 aprile 2016

“ Svizzera Pesciatina: viaggio a San Quirico di Valleriana” di Gianni Quilici





 Dopo Pietrabuona la strada inizia a salire morbidamente. Strada stretta tra olivi e castagni, nella luce smorta che ingrigisce il verdognolo dei prati della collina.
Il parcheggio di San Quirico di Valleriana, proprio all’entrata del paese, è quasi vuoto. Vedo una fitta boscaglia nell’armonia tra il biancore di fusti e di rami e il verde tenue delle foglie. Il cielo all’orizzonte è di un grigio cinereo  con nuvole nere minacciose qua e là. San Quirico è uno dei “dieci castella”, di cui si compone questa zona conosciuta come “Svizzera pesciatina”. Dieci paesi medievali, che si stagliano meravigliosamente nel verde della collina.


Entro nel paese, che ha conservato la sua struttura tipicamente medievale, nonostante che i nazisti lo avessero, in buona parte, devastato, fucilando, inoltre, venti persone, rastrellate nei dintorni  come rappresaglia per uno scontro a fuoco avvenuto tra militari tedeschi e pattuglie partigiane, avvenuto il 17 agosto 1944.  
Ed infatti la via sale con la tipica pavimentazione di pietra scura con piccoli scalini di  pietra con bordi arrotondati.  Vedo una delle porte, che conserva soltanto due colonne di pietra su cui poggia l’architrave. All’interno della porta una scala sale ad una casa, ma  disabitata, come altre che incontrerò.


Dalla porta una via arriva dritta alla piazza del paese: Piazza Garibaldi. Una lastra di marmo del 1908 con un bassorilievo del volto esalta, con il linguaggio aulico tipico del tempo, l’eroismo del condottiero. La piazza è ampia ed aperta ed ha una sua bellezza contemplativa. Mi siedo su una panchina di pietra. Mi colpisce la fontana rinascimentale dentro una nicchia semicircolare  con formelle squadrate tutto intorno e soprattutto con l’acqua che sgorga fresca e impetuosa a ricordare nel silenzio il tempo che scorre.
Un uomo con passo stanco attraversa la piazza. “E’ buona l’acqua?” gli chiedo retoricamente  per attaccare discorso. “E’ bona sì, viene direttamente dalla fonte, non è comunale, è acqua nostra. E’ un’acqua questa che vengono da fuori a prenderla”. Si avvicina infatti una donna vestita di scuro, e mentre  scatto con  noncuranza una foto chiedo “ ma quanti abitanti ci ha questo paese… 200?” azzardo. “ Magari! Ce n’è rimasti ormai pochini… una 70ina saremo, 80! Del resto che vuole: qui nella piazza c’era un alimentari, un altro era laggiù, c’era la posta in quell’angola là. Ora non c’è più nulla! C’è un anziano qui in paese, che gli tocca fassi portare in macchina giù a Pescia per riscuotere la pensione! C’è rimasto soltanto il circolo lì”. E me lo indica.


Di fronte a me, infatti, c’è un bel porticato di colonnine doriche con tettoia, un bel portale, da cui si entra nel circolo, in questo momento, chiuso. Era senza dubbio un bel palazzo rimasto oggi dimezzato come se avessero appiccicato due parti tra loro completamente diverse. La parte inferiore ricca di sottigliezze architettoniche; la parte superiore sciupata da un rifacimento tirato via con delle terrazze di cemento orribili.


Ad un passo dalla piazza la Porta ancora perfettamente conservata con blocchi di pietra serena e i cardini della prima cinta muraria del XIV secolo con un bellissimo loggiato a due volte: una rivolta verso un paesaggio che tocca i monti Pisani, l’altra  che prosegue con l’inizio di una nuova via.  Da questa due ragazzi stanno arrivando in mountain bike per s’involarsi in discesa per la via adiacente alla Porta, lungo le vecchie mura.
Ritornando nella piazza passo attraverso una breve galleria e salgo da un vicolo  con uno di quei tornanti di pietra squadrata, che, dentro di me, definisco poetici. Ci si sente la mano e la maestria.


Un cane chiuso da un cancelletto di metallo abbaia furiosamente. Mi avvicino, smette di abbaiare e mi guarda fissamente pensoso. Avvicino la mano, anche lui si avvicina con il muso, poi scatta di colpo indietro, come se avesse avuto paura e riprende furiosamente a abbaiare.


Arrivo da ultimo alla Chiesa. E’ grande,  imprevedibilmente ampia, con un bel campanile merlato. E’ chiusa, come la canonica, che sembra non più abitata. Ma da una porticina vicina ad essa ecco che sbuca un uomo. “Volete entrare?”. E’ l’orto-giardino della Chiesa. Ben curato tra il prato con margherite, l’orto con i fagioli, tanti vasi di fiori ed un tavolo con panchine tutto di pietra, posto su una delle due torrette delle vecchie mura.

Pescia. San Quirico di Valleriana.                                                      22 aprile 2016.

27 aprile 2016

“Mostre d’arte in digitale? Plateali baracconate! “ intervento di Davide Pugnana



Per curiosità, ho provato a cercare su google voci polemiche in merito alle mostre d'arte in digitale che stanno dilagando in alcuni dei principali centri d'arte italiani, come Firenze, Torino e Milano. Fatico a digitare la parola "mostra" per queste plateali baracconate.

 La più celebre, dopo Caravaggio in hd e forse altre che non ricordo, è quella dedicata a Van Gogh. Caravaggio e Van Gogh: e chi, se non loro? - gli artisti pop "maledetti" par excellence.

Devo dire che il silenzio della critica attorno a questo fenomeno mi lascia sgomento. Che dire? Speravo in un intervento al vetriolo di Tomaso Montanari di fronte a questa manifestazione assurda della "società dello spettacolo" che, non so come, calamita consensi ovunque, talora perfino tra gli storici dell'arte.

Quando penso a questi consumistici Luna Park, a queste grandi macchine buone solo per far soldi, mi viene alla mente il titolo di un saggio di Daniel Arasse: "non si vede niente". Proprio qui sta il paradosso.

Pensiamoci bene: per vedere queste pseudo-mostre, magari si fa un viaggio di andata e ritorno; magari, si spendono più o meno ore in fila all'ingresso, e, soprattutto, si paga il biglietto. Si impiegano tempo e denaro per continuare a non vedere niente. Ne usciamo senza che la nostra conoscenza dell'artista e della sua opera ne sia minimamente arricchita.

Se, nel frattempo, non è cambiato qualcosa e se la mia opinione non suona troppo reazionaria, fino a ieri sapevo che andare a vedere una mostra significava fare esperienza degli originali. Ripeto: fare esperienza degli originali: ossia vedere, direttamente sul campo, da più o meno vicino, quelle opere d'arte nella loro eccezionale presenza; nella loro materialità e unicità, cogliendone le stesure, lo stile, i colori e i segni del tempo; senza filtri libreschi e finalmente liberate dal diaframma della riproducibilità tecnica.

E badiamo, non si sta parlando di rivisitazioni di capolavori con medium digitali o di dialoghi con la tradizione, come nel caso esemplare di Bill Viola. Né siamo in presenza di operazioni culturali condotte secondo una logica divulgativa, come nel caso dei documentari d'arte in mano al cinema e alla televisione.

Qui siamo di fronte alla manifestazione del nulla: se l'opera d'arte, attraverso i secoli, "parla" nella sua potenza visiva, nel caso di "Van Gogh Alive" e affini si cammina in un contenitore "funebre" pervaso da striscianti immagini di larve e fantasmi bidimensionali. Un contenitore kitsch, nel quale la musica non fa che coprire il silenzio delle opere assenti.

"L'orologio di Paris" di André Kertéz




di Gianni Quilici

Siamo a Parigi, anno 1929: dal vecchio orologio de l'Institut la visuale con il ponte sulla Senna e lo sfondo monumentale del Louvre. Ma non ci fosse l'orologio, la foto avrebbe un'importanza documentaria. L'orologio con la lancetta e i numeri romani dà invece alla foto il “tocco” d'autore.
Provo a dire perché.

Primo: crea una distanza tra il primissimo piano del dettaglio dell'orologio e il campo medio-lungo dello  sfondo. Di più: un  contrasto cromatico tra la nettezza aggressiva del nero ed il chiarore-grigiore del resto.

Secondo: perché l'insieme di questi elementi forma una contaminazione: a un quadro placidamente naturalistico si sovrappone violentemente una sorta di incisione variamente grafica, che destruttura la compostezza della foto, sorprende l'occhio.

Terzo: perché quella statua che sembra guardare quei corpi che passeggiano, scuri su ponte grigiastro, è scolpita doppiamente in quel preciso attimo del Tempo che fugge, sia dall'orologio che dallo scatto fotografico.

Infine: l'insieme di questi elementi ha la forza di colpire immediatamente l’occhio, al di là di ogni ragionamento. E tuttavia osservandola, come ho cercato di fare, affina sguardo e percezioni, vocabolario e idee.  

André Kertész (Budapest, 2 luglio 1894 – New York, 28 settembre 1985) è stato un fotografo ungherese che ha però svolto la maggior parte della propria carriera artistica tra la Francia e gli Stati Uniti.
Prendo da Wilkipedia:
“Tra i maggiori fotografi del XX secolo, il suo lavoro ricevette notevoli riconoscimenti e fu di inspirazione per importanti artisti e fotografi suoi contemporanei. Dimostrò come qualsiasi aspetto del mondo, dal più banale al più importante, meriti di essere fotografato. Di carattere introverso, guidato principalmente dall'intuito, la sua opera è difficilmente classificabile. Nonostante la strada sia stata il soggetto principale e più stimolante delle sue fotografie, non era interessato alla cronaca o agli importanti eventi mondani, quanto alla possibilità di mostrare attraverso i grafismi delle moderne metropoli la felicità silenziosa di un istante”.

24 aprile 2016

“I vizi capitali e i nuovi vizi” di Umberto Galimberti


di Gianni Quilici

Un libro che dovrebbero leggere innanzitutto  l’educatore e il politico. 

L’educatore, perché consente di conoscere l’umano, oggi molto più complesso di ieri, perché molto più insinuante e persuasivo è ciò con cui esso entra in contatto.

Il politico, perché questo libro traccia una mutazione antropologica, che richiederebbe una svolta sociale e culturale altrettanto profonda nei meandri in cui una società si articola.


Umberto Galimberti ha raccolto articoli pensati per il quotidiano La Repubblica nel 2002, scritti con  un linguaggio limpido e diretto, rivolti ad un pubblico non specialistico.


Così divide il libro in due parti: i vizi capitali ( i vizi di sempre, di allora e di oggi) e i nuovi vizi. I vizi capitali  sono 7: ira, accidia, invidia, superbia, avarizia, gola, lussuria. Altrettanti sono i nuovi vizi: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, diniego, vuoto. Via via che leggevo pensavo a come si potessero racchiudere questi nuovi vizi in un filo comune, e a come si potessero cogliere il nesso o i nessi che legano le varie specificità e di conseguenza quali fossero le novità rispetto ai  vizi di allora.

La risposta è semplice, perché è indicata dallo stesso Galimberti ed è questa:

“ . . . a differenza dei vizi capitali che segnalano una deviazione o, a seconda della tolleranza dei tempi, una caratteristica della personalità, i nuovi vizi ne segnalano il dissolvimento, che tra l’altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti”.


Dissolvimento della personalità. Concetto così sottile che difficilmente un individuo lo   fa suo, cioè lo riconosce. Anzi accade proprio l’inverso. Chi  subisce questo processo è colui che meno di tutti lo sa, perché è colui che è abituato a non ascoltarsi, a non vedersi, che immagina di essere padrone delle sue parole, dei suoi pensieri, dei suoi comportamenti.  


Il rischio di dissolvimento della personalità può essere riconosciuto, almeno parzialmente, da chi questi processi oggettivi li riconosce, ci si confronta e cerca di combatterli pure.

In ogni caso questo processo di dissolvimento si attua in modo morbido e suadente con la piena adesione di chi ne partecipa.


Innanzitutto, come sottolinea Galimberti, perché non è  vizio personale, ma è a tendenza collettiva, che investe, più o meno, (quasi) tutti.


In secondo luogo, e soprattutto, perché i nuovi vizi sono accettati in quanto rispondono a bisogni veri ( di comunicazione e di bellezza, di identità e di sessualità), che però  vengono nevrotizzati, producendo quei “vizi”, analizzati da Galimberti. Alcuni fin troppo rapidi esempi.


C’è un dissolvimento di identità nella perdita di consistenza di cose, che vengono continuamente distrutte e sostituite, perché così vuole l’industria, con una tecnologia che trasforma continuamente gli oggetti stessi, con il concorso ossessivo della pubblicità.


C’è un dissolvimento di identità nella perdita della Memoria, in quanto un sovraccarico di informazione non elaborato riduce e  svaluta e cancella il passato anche quello prossimo, facendo vivere in un eterno presente manipolante.


C’è un dissolvimento della realtà a beneficio dell’apparenza, con la conseguenza che diventa più importante l’immagine virtuale che la realtà sostanziale.


C’è un dissolvimento della sessualità, perché la continua esibizione di essa spegne la possibilità di scoprire e il sesso diventa crudelmente produttività, ripetizione,  professionismo.


C’è un dissolvimento di identità, perché ciò che viene richiesto è una buona esecuzione, non la responsabilità di uno scopo. La conseguenza: una diffusa omologazione nel considerare questo mondo come l’unico possibile, conservando tuttavia la convinzione e l’illusione di essere liberi.


C’è un’immaturità affettiva, un’apatia morale senza rimorsi o sensi di colpa, che porta a volte a delitti realizzati con freddezza e indifferenza, perché manca un’educazione psicologica, nella scuola, oltre che nella famiglia, capace di elaborare i conflitti, di conoscere e controllare i propri impulsi più sotterranei.


Esiste un’alternativa a questo processo di spersonalizzazione e di omologazione conformistica? Galimberti non  affronta questo interrogativo; non era, infatti, il compito che gli articoli si prefiggevano, anche se ragiona su questi processi come se non avessero nessuna dialettica, come se fossero inevitabilmente destinati a chiudere qualsiasi scenario diverso.


Quasi sicuramente sarà così. La forza della tecnologia e del potere che questa tecnologia utilizza è enorme e sproporzionata rispetto a chi ha compreso ( e agisce)  per ciò che si potrebbe chiamare con una parola consumata “alternativa”. Alternativa come nuovo modello di sviluppo economico e sociale, culturale e antropologico contro la tendenza dominante di una catastrofe planetaria, preannunciata da tempo da scienziati, pensatori e artisti e che entra in connessione con altre voci: guerre nucleari e disastri ambientali.



Umberto Galimberti. I vizi capitali e i nuovi vizi. Feltrinelli.  

23 aprile 2016

"L'arte dell'incontro" di Caterina Donatelli



                                                                                  foto di Caterina Donatelli


“La vita, amico, è l’arte dell’incontro".
 L’esaltazione, lo stupore di un nuovo edificio da conoscere;
 la meraviglia e l’adrenalina 
fomentata dalla curiosità della scoperta…

Per un attimo senti che stai profanando
 il silenzio di anni di abbandono,
 immediatamente dopo ti arriva
 l’urlo della vita passata da lì,
incisa su ogni singolo elemento,
che aspetta di essere svelata.




"Cose da niente" di Ilaria Stabile

                                                                           Ilaria Stabile

Cose da niente

Niente..
Non ne ho di grandi cose io
solo piccole, invisibili, a parole morirebbero.
Niente...
le grandi cose non son mie,
non mi vengono incontro o
mi vedono impegnata
e cambiano strada.
Niente...
le grandi cose sull'altra strada
ed io, accovacciata, a giocare coi sassi.
Niente..
Qualcuno dice che le mie son "cose da niente"
io, solo se qualcuno me lo chiede, dico: "Son cose mie".

22 aprile 2016

“Patricia Highsmith” foto di René Burri



di Gianni Quilici

Qualche anno fa su Il manifesto vidi questa foto, la tagliai e la incollai su un quadernone, che mi accompagnava.
Non volevo perderla almeno per un po’.
Mi colpiva (colpisce) per due ragioni.

Ero allora preso da Patrice Higsmith, (e ne sono preso ancora), di cui leggevo, uno dietro l’altro, molti romanzi, perché la Highsmith riesce a creare una incredibile tensione dentro la quotidianità, anche la più apparentemente banale, facendoci vivere progressivamente, e sempre di più, situazioni sul filo del rasoio, attraverso personaggi (e situazioni) complessi, che trascinano nella lettura a mente sveglia ed occhi spalancati.

Da qui la domanda:” Ma che tipo di donna è Patricia Highsmith e che vita avrà avuto?
Ecco, la foto di René Burri è forse una sottile indicazione.

Siamo in Svizzera nel 1988 e Patricia ha circa 67 anni. La vediamo seduta  ad un tavolo con davanti un piatto vuoto, che stringe meccanicamente un bicchiere con una delle due mani. Ciò che colpisce immediatamente è il suo volto così diverso, per chi ha visto le foto, da quello piacevolissimo della sua giovinezza. E’ un volto sul filo dei generi (potrebbe sembrare anche di un uomo), ed è un viso piegato, che sembra perso sul versante disperato, per gli occhi abbassati come se guardasse il nulla.

L’acutezza fotografica di Burri, che fa grande lo scatto, è dare la giusta cornice a questo volto già di per sé fortemente simbolico.
Infatti, il tavolo non risulta essere un banale tavolo di cucina, dove si consumano i pasti, ma appare un tavolo, per così dire, totale. Ci sono, oltre agli strumenti del mangiare, anche fogli, penne ed un giornale dispiegato sopra non si sa cosa, come se mangiare-bere-leggere-scrivere potessero coesistere simultaneamente.

René Burri coglie l’intimità di Patricia Highsmith, un’intimità che può assurgere a simbolicità. Perché per un verso trasmette forse la fatica e il tormento di una creazione che non ha orari; per un altro questa creatività, difficile a farsi, la colloca in un’atmosfera che lascia indefiniti non solo gli oggetti, ma anche la stessa scrittrice, misteriosa,  come appaiono nella loro contorta e ambigua identità i protagonisti dei suoi romanzi.

René Burri. Patricia Highsmith. Svizzera 1988.         

21 aprile 2016

"Su Primo Levi saggista" di Davide Pugnana


C'è un altro modo di ricordare Primo Levi, a ventotto anni dalla sua scomparsa: ripercorrere la sua produzione saggistica. Pagine che segnano uno dei punti più alti, nel Novecento, e, nella fattispecie, della forma del saggio come genere letterario. 

Quelli che Levi dissemina nei cappelli introduttivi della sua meravigliosa antologia personale - "La ricerca delle radici" - o ne "L'altrui mestiere" sono 'essais': 'assaggi' di pensiero critico, nel significato alto e prezioso (e gustosamente autobiografico) che vi impresse Montaigne; ma con venature ironiche volterriane e una politezza di dettato dal sapore di certe operette leopardiane (soprattutto là dove riesce a far letteratura conversando delle farfalle, degli scarabei, delle calze al fulmicotone, delle complicate tele dei ragni e del linguaggio degli odori). 

E come nei romanzi, anche nei saggi c'è l'andare alla radice delle cose. C'è la sua ostinata volontà di capire, di capire tutto fino in fondo: sviscerando a mani nude il già detto; sfogliando i veli d'oscurità sulle cose; facendo saltare dispositivi e archeologie culturali così ben collaudati. 

Quella di Levi saggista è una vena ermeneutica stampigliata nel sangue da atavici innesti ebraici; com'era in Benjamin e in Canetti. Quando scrive sul pugno di Renzo, su Huxley, sulla Cosmogonia di Queneau, su Thomas Mann, sul dimenticato D'Arrigo, o disegna un finissimo medaglione di Rabelais, si avverte sempre il "clic" di una parola azionata per ricucire, ricomporre, ordinare le leve storte e ingolfate della Storia e della natura umana.

20 aprile 2016

"Il progetto nazista della distruzione dell'infanzia" di Luciano Luciani

"I bambini crescono e diventano schifosi ebrei".
La guerra di annientamento dichiarata dal nazismo nei confronti del mondo ebraico europeo è soprattutto una guerra contro i bambini: “perché i bambini crescono e diventano schifosi ebrei!”, così argomenta un ufficiale tedesco a chi gli chiedeva con quale animo potesse tenere prigionieri dei bambini, nell’Hotel Meina, sul lago Maggiore, teatro, nell’autunno del ’43, della prima strage ebraica in Italia. 50 morti ammazzati tra cui 4 bambini.
 

Con quale animo, ad Auschwitz, il dottor Joseph Mengele si recava ad ascoltare i bambini ebrei che cantavano in coro Tutti gli uomini sono fratelli, per poi avviarli alle camere a gas e ai laboratori sede dei suoi sadici, spietati, letali esperimenti di genetica?
 

Oppure quale aberrazione mentale, quale deviazione della psiche poteva spingere un attore fallito di nome Helmut Doork a trasformarsi nel clown col naso truccato di rosso che accompagnava i bambini al treno sul punto di partire per Auschwitz e per un destino di morte? Angelo pietoso delle sofferenze e delle paure estreme dei più deboli, i bambini appunto, a cui intendeva regalare un ultimo sorriso o mostruoso pifferaio di Hamelin, complice del Boia e del Male? È accaduto anche questo!
 

E se, in alcuni casi possiamo trovare risposte nella infermità psichica, nell’aberrazione mentale di alcuni, la distruzione del mondo ebraico è, certo, progetto di lungo periodo che nasce all’indomani del I° conflitto mondiale: l’idea della cospirazione ebraica domina il modo di leggere la realtà dei nazisti che utilizzeranno categorie e concetti antisemiti per spiegare tutti gli sviluppi politici ed economici all’interno e all’esterno della Germania:  il cristianesimo, il liberalismo e le ideologie di sinistra, tutto veniva ricondotto all’ispirazione e alla cospirazione ebraica.
 

Intorno alla metà degli anni Trenta la legislazione antiebraica di Norimberga per la prima volta attua il principio della diversità biologica, rendendo così gli ebrei non solo sudditi, ma sudditi di seconda classe del Reich nazista. Ovvero gli ebrei sono al di sotto degli esseri umani: possono tutt'al più posizionarsi tra gli animali e le cose. Quindi, i bambini degli ebrei sono piccoli animali, piccole cose, neppure in grado di lavorare per il Fuehrer e lo Stato assoluto.
 

Come aveva detto quell’ufficiale tedesco di guardia all’Hotel Maina! “I bambini crescono e diventano schifosi ebrei”. Così, non può sorprendere la testimonianza – una tra migliaia dello stesso tono – di Sebastiano Finzi, deportato ad Auschwitz-Birkenau: “ho veduto prendere un lenzuolo, strappare i neonati che poppavano dalle madri, metterne cinque, sei dentro, fare un fagotto così, come di panni sporchi, e buttarli violentemente sopra a un camion. Un fagotto come i panni sporchi che si lava alla lavanderia...”

I bambini, vittime e anche, talora, carnefici.
Le bambine e i bambini ebrei ormai sono stati “reificati”, “cosalizzati”. Ridotti a cose: ed è quindi consentito il loro sterminio di massa. Perché la guerra condotta contro l’infanzia dal nazismo non è la conseguenza, non è un sottoprodotto del conflitto in corso o del genocidio in atto, ma è la ragione stessa della Shoah. La Shoah ovvero lo stermino, la distruzione, la catastrofe che ha colpito con particolare durezza e ferocia sistematica l’infanzia, i bambinicome portatori di futuro. Non solo gli ebrei, ma anche i rom, i sinti, gli slavi. E, mi si permetta di aggiungere, anche gli stessi bambini ed adolescenti tedeschi: sia quelli uccisi per la loro disabilità, una minoranza ma che macchiava la purezza della razza, sia la maggioranza, quelli educati nelle scuole del Reich al culto della morte e a una feroce intolleranza. Racconta, quasi con stupore, un deportato sopravvissuto, Lello Perugia: “Una volta ci siamo fermati in una stazione in Germania e ho visto intorno al vagone dei bambini con la svastica. Sentivano le nostre grida, ma rimanevano impassibili. C’era proprio una forma di indifferenza, erano talmente infatuati del nazismo anche i bambini… Per me la responsabilità ce l’hanno anche loro. Nessuno ha avuto pietà, nessuno”.
 

Questi bambini con la svastica, spietati come i loro padri nel ricordo di Lello Perugia, sono i figli, sono il prodotto della collocazione dell’infanzia tedesca all’interno del progetto complessivo del nazismo, del suo inquadramento e della sua militarizzazione.
Il decreto che disponeva lo studio della razza nelle scuole tedesche dichiarava che ”per rispondere al desiderio del Fuehrer nessun bambino, ragazzo, fanciulla sia autorizzato a lasciare la scuola senza essere penetrato dell’importanza e della necessità di un sangue puro”.
Nel Mein Kampf Hitler scrive “il tempo del servizio militare deve essere considerato la conclusione dell’educazione normale del tedesco medio”. “La gioventù” ribadisce Hitler “appunto in virtù della sua ignoranza rappresenta quasi sempre il soggetto che meno oppone resistenza e [siccome] “i bambini di oggi saranno gli adulti di domani solo chi li ha veramente conquistati può credersi signore del futuro”.
Così soltanto il popolo tedesco sarà un popolo di guerrieri, esso solo avrà il diritto di portare le armi: gli altri popoli saranno schiavi destinati a lavorare per la casta guerriera dei tedeschi. “Non ci saranno più cinque, sei, o otto grandi popoli sul continente europeo, vi sarà solo la Germania, onnipotente”, dirà Hitler a Otto Stresser.
 

E, sempre per usare le parole del dittatore tedesco, “il nazismo dominerà il mondo per duemila anni e gli darà una pace non basata sugli scodinzolamenti di lacrimose prèfiche pacifiste, ma fondata dalle vittoriose spade di un popolo di dominatori, che si impadronisce del mondo per scrivere una superiore civiltà”.
 

Questo programma aberrante, questo disegno mostruoso, questo piano degenerato, snaturato non si è realizzato.
Che fallisse non era per niente scontato e sconfiggerlo è costato lutti e rovine inenarrabili, materiali e morali, quali mai si erano dati nella storia del mondo.
 

Nostro compito ora, oggi e per l’avvenire è operare con le armi della cultura, dell’informazione, della politica, della diplomazia per impedire che si ripetano le condizioni che hanno permesso l’orrore della Shoah.
Quindi l’impegno di tutti quanti noi deve essere quello di non dimenticare: perché la maledizione degli uomini è che essi dimenticano.
E quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo.
E quando ti chiederanno che cosa facciamo, tu gli risponderai: “Noi ricordiamo”.

" Il sesso delle ciliegie" di Jeannette Winterson



di Fortunata Romeo

“ Odio le etichette” dichiara l’autrice Jeannette Winterson in un’intervista del 1990, al tempo della pubblicazione de “Il sesso delle ciliegie” .

Rispettare il suo desiderio di non essere catalogata è l’unico modo di comprendere la natura di questo  testo che va assaporato, letto e riletto, senza preoccuparsi di metterlo in ordine .

Un libro in cui si entra lasciando senza freni l’immaginazione, seguendo le divagazioni, i salti spaziotemporali, il trasformarsi dei personaggi in un viaggio in cui non mancano  le occasioni per fermarsi a riflettere.

La storia inizia nell’Inghilterra del diciassettesimo secolo, con due personaggi principali, un bambino trovato abbandonato in un fiume a cui viene dato il nome di Jordan e la donna che l’ accoglie,  gigantesca addestratrice di cani, troppo grande e grossa per qualsiasi amore…

Sullo sfondo le vicende storiche della Londra di Cromwell, delle lotte tra realisti e puritani, un mondo di povertà  e meraviglie, di sporcizia, peste e  frutti esotici sbarcati con le navi di ritorno da nuovi mondi…

Una mondo sospeso tra realtà e sogno, tra l’andare e il restare, tra terra, mare e cielo.
La terra , il luogo del radicamento, della realtà pesante e sudicia, il mare l’ orizzonte che suggerisce nuove possibilità , il cielo regno dell’immaginario, delle le fiabe che s’intrecciano senza soluzione di continuità con le vicende reali.

In particolare delicata e struggente è la storia delle dodici principesse,  quasi un libro nel libro:  le vediamo ogni notte fuggire dai loro lettini per andare a visitare in una città sospesa in cielo, fino a che vengono scoperte e date in moglie a dodici fratelli…
Una di loro però fugge il giorno del matrimonio, leggera s’aggrappa ad una fune e vola verso il porto per salpare e non fare mai più ritorno, metafora del desiderio di uscire dai ruoli prestabiliti , verso la libertà di una vita autenticamente vissuta.
E’ lei l’oggetto della ricerca di Jordan, che avendola intravista una volta di sfuggita, se ne innamora e ne segue le tracce  per tutto il mondo.

Condotto attraverso il tempo il lettore si ritrova spiazzato ai giorni nostri, riconosce Jordan e sua madre in due personaggi contemporanei che ne riproducono le fattezze e i gesti.
Come in un eterno presente si manifestano al di là delle epoche gli stessi nuclei tematici :  terra, pesantezza, realtà, cielo, leggerezza, immaginazione, femminile e maschile…tutto si mescola e si connette..

E’ l’amore a tessere la tela, a unire gli opposti, a ricongiungere luoghi, tempi e persone, magari solo per un istante. E’ l’amore a operare miracoli , a permettere ad una madre minuta di reggere sulle spalle il peso insostenibile dell’enorme figlia,  a scardinare gli ordini sociali tanto da essere bandito, a dare speranza..

Le riflessioni filosofiche sull’amore e sul tempo scandiscono il romanzo
-“ E l’amore” le chiesi?” – Aprì le braccia e tenne una breve lezione sulla vita delle stelle marine-
Domande a cui nessuno da risposta, ma che conducono i personaggi fino alla soglia del futuro nell’ epilogo,affacciati come su un tempo anch’esso inesistente in quanto svanisce man mano che ci si avvicina e si tenta di afferrarlo…   Il tempo del sogno, della rivoluzione , di una rifondazione del mondo.

Il viaggio che la Winterson ci ha portato ad immaginare è dunque viaggio verso il futuro, verso l’amore, verso il sogno…un viaggio che nasconde altri viaggi senza nessun definitivo approdo.


IL SESSO DELLE CILIEGIE
Jeannette Winterson
1999 Mondadori Editore










17 aprile 2016

"Il fuoco dello sguardo" di John Berger



IL POETA MINATORE    

di Vianca Tancio Quinzon

“Il poeta è come un minatore che scava in profondità fino a che non trova un fondo nel proprio Io, che è comune  in tutti gli uomini. Scopre gli altri in se stesso” diceva Giorgio Caproni.
Quando ho cominciato a scrivere di John Berger non sapevo nemmeno da dove iniziare, tanta è la sua poliedricità, ma ecco che d’un sol fiato Giorgio Caproni è riuscito a descriverne il carattere più essenziale. Ora so da dove cominciare.

È stato un viaggio, un cammino che tutt’ora sto percorrendo al fianco della sua poesia, alla ricerca di un’espressione, di un’ispirazione, di uno spazio creativo.

John Berger ha ridefinito il mio spazio reale, piantandomi per terra e staccando un paio di piume dalle ali della mia speculazione. Mi ha fatto vedere la falce che taglia il grano, provare le ore eterne in una fabbrica, ascoltare il sussurro dell’acqua nei campi, sentire il dolore di una partenza, dell’assenza.

Mi riferisco, in particolare, alla raccolta di poesie “Il fuoco dello sguardo”, curata e tradotta da Riccardo Duranti, e pubblicata nel maggio 2015, dalla sua stessa casa editrice “Coazinzola Press”. John Berger ha sempre scritto poesie che però erano rimaste sparse fra i suoi saggi, romanzi, racconti ed ora per la prima volta si trovano unite in un'unica raccolta organica e compatta scoprendolo essere un poeta, ruolo con il quale non ha mai voluto identificarsi.
Le poesie sono divise ed organizzate in cinque sezioni: Parole (“Words”), La Storia (“History”), Emigrazione (“Emigration”), Luoghi (“Places”) e L’amore mio (“My love”).

Questa suddivisione pone chiare linee guida alla lettura, rendendola più scorrevole e comprensibile.
John Berger, infatti, è piuttosto un poeta - minatore che scava nei posti più remoti, un artigiano che plasma la materia con maestria.

John Berger è un artista che scandaglia a fondo le capacità umane di penetrare nella realtà con pensiero apparentemente pacato ed immobile, ma agile e dinamico nel suo esplicarsi.

Il suo è uno sguardo che non si ferma sulla superficie, ma scava in profondità, brucia le parti inutili e ne scova l’essenziale. Un occhio sensibile alle variazioni di colore, attento e vigile ad ogni movimento. Un occhio indagatore che scruta e si nasconde senza voler cambiare il fatto, lasciandolo essere.
Non è un caso il titolo in copertina, “Il fuoco dello sguardo”, che allude alla sua abilità di osservatore.

Non usa filtri di nessun tipo, nessuna pretesa di censurare il diverso, l’inusuale, il bizzarro ma racconta liberamente della storia, della vita, della natura, dell’amore, della guerra…
Sono nato dallo sguardo dei morti
fasciato nell’iprite
e allattato in una trincea
(Autoritratto 1914-1918 - da "Il fuoco dello sguardo)

L’esperienza è una parola chiave della sua poesia, che è sobria, asciutta, essenziale, vera. Le parole di cui si serve sono misurate, osate e dirette senza troppi preamboli, perifrasi. I versi sono semplici ed incisivi, liberi si aggrappano sulla pagina e nulla è lasciato al caso.

La metafora del minatore pare la più appropriata a caratterizzarlo e se proprio dobbiamo risparmiare sulla parola, come consiglia Giorgio Caproni, basterà rivolgere lo sguardo in quella miniera per trovarlo alle prese con rocce, pietre e minerali di vario genere.

Leggendo i versi bergeriani mi sembra di riuscire a scorgerlo avere tra le mani pezzi di mondo scrostati, spigolosi ammassi di roccia, filamenti penzolanti di radici, poi subito ricompattati e plasmati con la semplicità di uno sguardo.

John Berger non ha paura di osare.
Nelle lontane ombre dell’alba
sul lato occidentale degli alberi
che paura si diffuse
del giorno appena iniziato
con l’arrivo del sole.
(Per chi si nasconde - da "Il fuoco dello sguardo)

È una poesia che lascia spazio all’immaginazione, alla riflessione, e tronca talvolta le aspettative, rompendo la fluidità della storia.

Ma proprio lo scuotimento dal profondo dell’anima genera una trasformazione che devia dalle attese comuni.
Allora, “...che paura si diffuse”?
Osate immaginare, osate amare.

In una sua serie televisiva, “Ways of seeing”, trasmessa nel 1972 dalla BBC, dice:
“The process of seeing paintings, or seeing anything else, is less spontaneous and natural than we tend to believe”
(“Il processo di visione dei quadri, o di qualsiasi altra cosa, è meno spontaneo e naturale di quanto noi tendiamo a credere”)

Con questo Berger spiega che il nostro stesso sguardo è vincolato dall’essere tale, giacché anch’esso come una macchina da ripresa è basato su alcuni filtri e ottiche costitutivi dell’essere umano che non permettono la visione totale della realtà.

Ma poiché le cose sono silenziose sono molto più facili da manipolare e quindi essere trasformate in diverse forme d’arte. Ecco svelato il segreto della poesia!

La poesia è intercambiabilità di vita, condivisione totale del mio all’altro, rinascita continua e il poeta - minatore è tale perché scopre di avere nel profondo del suo Io qualcosa che lo accomuna agli uomini.
Una farfalla disturba un granello
quel granello un altro
finché c’è tale attrito nella polvere
che il cielo versa latte azzurro
sulle pietre che hanno concepito

Un giorno nasce
Giù per il precipite sguardo dei suoi occhi aperti
vengono condotti gli alberi.
(A Remaurian II - da "Il fuoco dello sguardo")

Mi sono avvicinata alla poesia di John Berger, in particolare a "Il fuoco dello sguardo", grazie a Riccardo Duranti, suo traduttore italiano.

Duranti era stato ospite nella biblioteca della mia scuola per presentare un suo libro di poesie e così in estate, io insieme ad alcuni amici siamo andati a trovarlo nel suo casale a Mompeo, immerso nella campagna della Sabina. Lì ci ha presentato la raccolta di poesie di Berger di cui mi sono innamorata facendomi rapire dal suo modo di scrivere e di presentare le singole parti della sua esperienza.

Dopo aver letto alcune delle poesie abbiamo deciso di creare un gruppo di noi ragazzi, accomunati dall'amore per la poesia, con l'intento di trasmettere questa nostra passione per l'arte ad un più vasto pubblico, facendo conoscere quelle figure che fanno fatica ad emergere e quelle realtà di cui non sempre si parla. Non a caso abbiamo scelto di chiamarci "Il non detto" riprendendo proprio il titolo di una delle poesie della raccolta.

Il 28 novembre 2015, “Il non detto”, per la prima volta, ha presentato “Il fuoco dello sguardo” presso una libreria dei Castelli romani in provincia di Roma con il prezioso intervento dello stesso Riccardo Duranti.

Insieme abbiamo scoperto nuove sfumature della sua poesia e più volte ci siamo posti delle domande, sul come ad esempio riesca ad accostare elementi del tutto differenti conferendo loro un senso, un filo logico. L'essenzialità dei versi fa sì che il lettore s'immerga d'impatto nella sua storia ed inizi a vedere con occhi diversi, con un'altra prospettiva.

Non scrive di luoghi comuni, stereotipi ma segue il suo pensiero che va controcorrente rispetto a quello della massa. Può generare sconcertamento e mettere in dubbio, solleticare la curiosità perché scrive di situazioni insolite, certe volte bizzarre, lontane da ciò che comunemente si potrebbe pensare; non è da tutti infatti associare una trota ad una montagna, o la luce ad un chiodo martellato... Insieme abbiamo discusso sulle poesie, dandone ognuno una personale interpretazione, convinti che sentire più voci apre nuovi spazi entro cui muoversi.

Alcune poesie offrono una maggior consapevolezza sulla realtà, altre inducono a domandare.
Il poeta - minatore presenta la sua esperienza, rivelandola per come è, nuda, spoglia senza edulcorazioni.
qui
la notte è tempo dimenticato
l'alba eterna
e nel freddo sogno
                    di come il pino
                    ardeva
                    come la lingua d'un cane
                    dietro le zanne
(Fabbrica - da "Il fuoco dello sguardo")

John Berger. Il fuoco dello sguardo” curata e tradotta da Riccardo Duranti.  Casa editrice “Coazinzola Press”.













16 aprile 2016

"Giacomino il drago" di Manuela Crisanti



di Laura Menesini

Proprio un bel racconto, una fiaba dentro l'altra come in un gioco di scatole cinesi o meglio come una matrioska perché al suo interno c'è l'animo dell'autrice, la sua sensibilità e il suo essere dalla parte dei meno fortunati. 

Ugualmente diversi-diversamente uguali è il messaggio più bello che ci potesse dare questo racconto così piacevole e scorrevole, questo Giacomino tanto simpatico ma anche tanto birichino che fa dannare la mamma e il nonno, che sogna i draghi che gli permetterebbero di fare giustizia e di liberare la principessa sul pisello (anche lei una diversa???). 

Abbiamo qui molti degli ingredienti delle fiabe di tutti i tempi, il gigante addolorato per la perdita del suo orsacchiotto, quel pupazzo che per un bambino è il suo compagno di giochi e al tempo stesso il figlio di cui prendersi cura, perché la cosa più brutta nel mondo è il non sentirsi utili a nessuno, il non servire a niente! E il bambino iper coccolato soffre per questa sua inutilità.
Perché tirare giù i piedi dal letto al mattino quando il calduccio delle coperte ti trattiene come se ti avesse avvinghiato, se non per una missione da compiere?
E Giacomino questo lo sa bene, lui deve diventare un drago!
Ma quando, nella fiaba delle ombre cinesi, la fantasia si trasforma in realtà, fugge e lui adesso così grande e verde incontra un omino piccolo piccolo che da sempre cerca il venerdì che gli manca.

La fantasia, e con essa tutto quello che rende vivo come se fosse lì davanti ai nostri occhi, è lo strumento migliore per affrontare l'esistenza con gioia e serenità, per superare quei momenti tristi che sempre si presentano nella vita, ma che sono anche quelli che ti fanno apprezzare meglio il dopo bufera.

Significativi e appropriati i disegni, fatti realmente da un bambino di nove anni, dai bei colori e dai particolari eccezionali come le lacrime che riempiono il lago o le mani di Caccoletta.

Uno strumento formidabile, questo racconto, per tutti coloro che si occupano di aiutare i bambini a crescere nel modo più sano e completo possibile!

Manuela Crisanti. Giacomino il drago. con disegni di  Daniele Mazzara.
I soldi raccolti dalla vendita del libro saranno devoluti all'associazione italiana dislessia sezione di Lucca