24 novembre 2010

"All’ombra di Narciso" di Beppe Calabretta

di Luciano Luciani


Tutt’altro che epico l’ incipit della seconda avventura investigativa di Bruno Carcade, commissario capo di mezza età in forza alla questura di Lucca. Il nostro eroe, infatti, è preda di una feroce dissenteria ed è costretto a una condizione di vita, a dir poco, umiliante. Ai mali fisici si aggiungono quelli morali perché Bruno non è più sicuro dell’amore della moglie Elina che da settimane, da mesi, lo trascura, preferendogli, da archeologa appassionata e competente qual è, prima una campagna di scavi in Africa, poi un’altra in località sempre più lontane. E, per non farsi mancare nulla, si trova alle prese con un caso dai risvolti misteriosi e inquietanti: due delitti, avvenuti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, commessi ai danni di stimati personaggi della città, facendo, a quanto pare, un uso sapiente e spietato di un mix di farmaci. E, nonostante gli sforzi degli uomini e delle donne della questura di Lucca e del sostituto procuratore Antonio Parrisi, l’intero scenario, compreso il movente, rimane oscuro per ben oltre la metà del romanzo.

Insomma, anche in questa occasione la polizia brancola nel buio.

A questo punto, la regola aurea del romanzo d’investigazione tradizionale, quello che si muove lungo la linea Poe, Conan Doyle, Agata Christie, S.S. van Dine avrebbe voluto che il governo delle indagini e la conseguente soluzione del caso spettasse a un individuo di eccezionale intelligenza, supercolto e piuttosto snob: un Dupin, per intenderci, oppure uno Sherlock Holmes, un Poirot, un Philo Vance… Ma l’Autore di All’ombra di Narciso preferisce ispirarsi a un’altra scuola del poliziesco. Quella meno algida, più intrisa di umanità ed esplicitamente citata da Calabretta: il Maigret di Simenon e il Montalbano di Camilleri. Quindi, tanto lavoro di squadra con i colleghi della questura; olio di gomito e buone gambe (indagini, riscontri, interrogatori, identikit, referti e reperti); alcuni aiuti insperati; un po’ di sana improvvisazione e l’antica nostrana arte di arrangiarsi per aver ragione della penuria dei mezzi. Aggiungici poi un pizzico di fortuna…È l’Italia, bellezza!

Di questo secondo romanzo poliziesco di Beppe Calabretta non va detto altro per non guastare la lettura e l’effetto di una serie di colpi di scena che, alla fine, premiano i buoni, assicurano i cattivi alla giustizia e, faticosamente, ristabiliscono l’ordine turbato dalla trasgressione criminale.

Come accade in ogni romanzo di genere che si rispetti.

Mi preme, però, sottolineare alcuni punti, a mio parere importanti per la comprensione del lavoro, della qualità del lavoro di Beppe: il personaggio di Bruno Carcade, l’eroe indagatore, è notevolmente cresciuto rispetto al primo romanzo Il pescatore di sassi, 2009. Ha, infatti, acquistato non poche sfumature che ne arricchiscono la personalità e l’umanità: ha perduto parecchi spigoli e durezze, si è fatto più problematico, dolente, amareggiato dai continui spettacoli di sofferenza, di strazio a cui, per motivi professionali, è costretto ad assistere e con cui deve continuamente misurarsi. Bruno Carcade è un guerriero, un agonista, è un combattente, ma dal cuore tenero. Lo dimostra, per esempio, nella simpatia solidale e affettuosa con cui riguarda a Xamal, bel personaggio femminile, ben raccontato nella sua condizione di immigrata alla ricerca di pace, lavoro e dignità nel nostro Paese. Oppure, come non notare e non ricordare l’emozione dolorosa con cui il nostro protagonista osserva lo spettacolo degli operai rimasti senza lavoro che manifestano davanti a uno dei tanti Palazzi del Potere? Insomma, il dolore del mondo, soprattutto se figlio dell’ingiustizia, indigna e offende ancora Bruno Carcade, che, dietro una scorza rude, modi bruschi e una generale ruvidezza cela sensibilità, premure, impensate doti di compassione per i più deboli e le vittime. Sensibile, Bruno Carcade e sensuale. Sempre all’erta: tanto nel cogliere la bellezza femminile che gli procura, dice, “un piacere più estetico che erotico”; quanto nell’ apprezzare il buon cibo, oppure le bellezze di un quadro, o l’armonia di un paesaggio. Dati edonistici che permettono di posizionare l’Autore all’interno di quel poliziesco mediterraneo che da Vasquez Montalban arriva a Camilleri, senza trascurare la Barcellona di Alicia Jimenez Bartlett e l’Atene dello scrittore greco Petros Markaris, l’inventore del burbero commissario Charitos.

E scusate se è poco!


Beppe Calabretta, All’ombra di Narciso, Narrativa Bonaccorso, Verona 2010, pp. 162, Euro 13,00

"Piccole penne crescono" di Elisa Tambellini

Non sempre ne siamo consapevoli, eppure tutti noi abbiamo un debito con gli anni della nostra adolescenza. E’ l’età del divenire, quella in cui il rapporto con la realtà è vissuto in termini estremi. Se si è felici, lo si è totalmente, attraversati da quel sentimento di euforia che con facilità si coniuga in onnipotenza. Niente appare impossibile e si è disposti a rischiare, con quella nobile incoscienza che non ritroveremo più da adulti, per perseguire il “giusto”. Difendere il migliore amico, gridare il nostro “io non ci sto” di fronte a regole imposte e non comprese, credere davvero che prima o poi “arriveranno i nostri”, e che combatteremo nelle loro stesse fila.
Ma gli anni che pressappoco vanno dalla quinta elementare alle prime classi superiori sono segnati allo stesso modo da momenti di profonda infelicità, legati soprattutto a quella che mi piace definire “la sindrome dell’incompreso”. E chi non l’ha avuta? Il percorso di dialogo con “i grandi” è complicato dall’assenza di un vocabolario condiviso. Ma non solo: le prime delusioni “sentimentali”, piccole, diremmo con il sorriso di chi guarda al proprio passato con un po’ di tenerezza e nostalgia, assumono proporzioni deformate e si fanno tiranne di stati d’animo alla Jacopo Ortis!

E’ su questo delicato arco di vita che insistono le “piccole penne” dell’antologia nata da un’intelligente cernita di elaborati che hanno partecipato, dal 1998 al 2009, al concorso riservato agli studenti delle scuole della provincia di Lucca Il Quaderno di Michele. Le voci, ora arrabbiate, ora sognanti, sono tutte registrate “in presa diretta”. Testimoni di quest’età sono le ragazze e i ragazzi che la stanno vivendo e trovano nella scrittura un efficace strumento per ammortizzare la confusione che essa porta con sé.

Una scrittura prevalentemente diaristica, ma capace anche di misurarsi con la disarmante levità della poesia e con i ritmi più meditati della riflessione saggistica. Sfogliando queste pagine ritroviamo la grazia della semplicità di fronte a temi che da adulti leggiamo con occhi appesantiti e disillusi. Come combattere lo sfruttamento minorile? Ce lo spiega Luca, dall’alto della sua saggezza di undicenne. “Secondo me, per evitare che i diritti dei bambini vengano infranti, bisognerebbe […] non comprare materiali fabbricati da loro”. Ma facciamo anche i conti con la consapevolezza seria di Rezart, cresciuto prima dei suoi coetanei, che ammette: “E’ difficile vedere tua madre che abita in una casa di accoglienza e sentirti dare la buona notte solo per telefono”.

Stupiscono, questi giovani studenti, per la loro capacità di percepire gli spazi bianchi tra le parole. Solitamente si prestano a essere analizzati e messi al giusto posto nelle caselle di statistiche e registri; eppure sarebbe sufficiente prestare loro ascolto, mettendo un po’ da parte l’atteggiamento di chi “ne sa di più”, per capire quanto bisogno abbiano di essere educati. Nel senso etimologico del termine, che non vuol dire né “ammaestrati”, né “indottrinati”, ma “portati fuori”. Ex ducere. Portati fuori anche dalla precarietà dei loro giorni, “l’età dello scemo”, come ci informa Andrea, dodici anni.

E in questo percorso il ruolo della scuola è assolutamente primario. Ce ne rendiamo conto leggendo le pagine di un libro che non avremmo tra le mani se non ci fossero stati insegnanti sensibili e attenti. Ha un suo peso specifico, soprattutto oggi, pensare al nostro tempo non soltanto come a un periodo di crisi, di declino dei parametri di riferimento, ma come a un momento proficuo in cui poter ricostruire un futuro che sia sintesi del reale e dell’ideale. La Storia insegna che sono le età crepuscolari, di confine, quelle più interessanti; e coloro che, sebbene con acume, riescono a leggere e interpretare lo sfaldamento del presente, hanno il limite di non riconoscere che il nuovo c’è, e sta crescendo. Non gli insegnanti che si confrontano tutti i giorni con la metamorfosi e con le intuizioni che secondo una bellissima espressione di don Antonio Bello, saranno in grado di “forzare l’aurora”.
I giovani hanno pensieri alti e il coraggio per proteggerli. “Forse sono troppo ingenua per capire / e per essere capita”, scrive Carolina in seconda media. No, ragazza, il tuo “sogno delicato” era anche il nostro. Puoi aiutarci a pagare il nostro debito con la tua età credendoci ancora un po’?

AAVV. Piccole penne crescono, Antologia degli scritti presentati al concorso “Il Quaderno di Michele” promosso dall’Associazione Michele Sonnenfeld – Osservatorio sugli adolescenti e gli adulti del loro tempo, pp. 128, Lucca, ottobre 2010, (sip).

Il libro si può richiedere all’Associazione Michele Sonnenfeld, via C. Lorenzini, 40 55100 Lucca tel. 0583 954614

21 novembre 2010

"Con i film e senza" di Alberto Corsani


di Gianni Quilici

Davvero una bella sorpresa questo volumetto di nemmeno 100 pagine, in cui Alberto Corsani (Torino 1962) ragiona sul “cinema pensando ad altro”. Sono note redatte per la rivista on-line “Expanded Cinemah” tra il 1997 e il 2003. Ed è uno di quei libri che ci può accompagnare nel tempo nelle visioni o re-visioni di film e autori. Perché nulla di ciò che vi si scrive è banale: dai concetti al tono, dal linguaggio al contesto in cui i film interagiscono.

Mi è venuto da pensare leggendolo all’ipotesi che l’antipsichiatra David Cooper proponeva sullo scrivere libri. “ libri come dialoghi in cui quanto viene esposto nel libro divenga una creazione comune per tutti” (1) Ecco, la prima impressione che ho avuto mentre lo scorrevo è di una riflessione, che, per lo spessore di pensiero, i diversi tracciati che propone, l’apertura mentale con cui li propone, si presta più ad un confronto stringente che ad una recensione. Nel senso che vedo gli articoli, che compongono il libro, come dei percorsi, che anche quando si possono confutare, si prestano soprattutto ad essere discussi, continuati, ampliati, incrociati, ramificati.

Ma, per dare un’idea, sia pure succinta, ma un po’ più concreta del libro, quali sono i temi e i registi prevalenti?

Tra i registi si possono citare alla rinfusa: Bresson e Kubrick, Buster Keaton e Rohmer, Paul Schrader e Tarkovskij, Nanni Moretti e Kiarostami, Pedro Almodovar e Makhmalbaf, Sergio Leone e Polanski…

Tra i temi alcuni dei più espliciti sono: fuori-dentro un film, rapporti tra poesia e politica, filmare le idee, il cinema come sfida del luogo comune, la grande lezione a livello linguistico delle comiche del muto, l’etica nel cinema, il cinema sulla montagna, il tempo nel cinema, il trascendente con o senza divino?, l’indicibile… (G.Q.)

1) La grammatica del vivere di David Cooper. Feltrinelli, 1976.

Alberto Corsani. Con il film e senza – Appunti sul cinema pensando ad altro – Edizioni SEB 27. Torino 2003. Pag. 94. € 9,00

da La linea dell’occhio


15 novembre 2010

“G. Masterna opera incompiuta” di Tazio Secchiaroli

di Gianni Quilici

Ci sono libri incompiuti, che meritano di essere pubblicati sia per il valore in sé che contengono, sia per il fatto che aggiungono ad un'opera una traccia “significativa”, la rendono più completa.

E' il caso di questo libro fotografico, che rappresenta l'opera tanto agognata, ma mai realizzata del famoso Mastorna di Federico Fellini.

Perché un libro incompiuto? Perché raccoglie soltanto una cinquantina di scatti del provino di Fellini a Marcello Mastroianni per inquadrare il personaggio di Mastorna. Così vediamo l'attore, mentre viene truccato, quando si prova cappello e vestiti e soprattutto con il violoncello in colloquio con il regista o sotto gli occhi della macchina da presa.


In questo senso il libro è completo. E' soltanto un momento, una scheggia di ciò che sarebbe stato fotografare il film nel suo farsi, ma esso comunque ha una sua unità e necessità.

Tazio Secchiaroli ha avuto di fronte a sé uno spazio ed un tempo limitati, ma la sua grandezza, in questo caso, risiede in almeno due elementi:

  1. raccontare il provino di un film attraverso molteplici punti di vista;

  2. aver scattato alcune grandi foto.


Prendiamo la foto che fa anche da copertina. Secchiaroli coglie l'attimo, in cui Mastroianni sta manovrando la tastiera del violoncello con la conseguenza di creare un rapporto di apparente simbiosi con essa e dall'altro lasciando scoperto solo un occhio quasi allucinato, che esprime invece stravolgimento o difficoltà. Con la bellezza espressiva del volto dell'attore si coniuga la geometria ed essenzialità dello scatto.

Certo, come nota Gaetano Gentile,in http://www.frameonline.it/Libri_Secchiaroli.htm “il libro meritava un formato più grande”, ma è grande merito della Sellerio averlo comunque scoperto e stampato.


Inoltre il libro contiene alcune illustrazioni tratte dal film-fumetto di Milo Manara Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet, alcuni schizzi dello stesso Fellini per lo storyboard, un’introduzione sulla genesi del film di Vincenzo Mollica, che utilizza la interessantissima ricostruzione fatta da Tullio Kezich, la poesia “Mastorna Blues” scritta da Bernardino Zapponi e pagine di ricordi intimi del figlio del fotografo, David Secchiaroli.


Tazio Secchiaroli. G. Mastorna opera incompiuta. nota di David Secchiaroli, introduzione di Vincenzo Mollica. (La Memoria Illustrata, Sellerio, Palermo 2000. 88 pagine.10,50 €).


13 novembre 2010

"Mi piace la pianta dell’olivo" di Luciano Luciani

Mi piace la pianta dell’olivo perché longeva assai e capace di una vecchiaia “robustosa e forte”. E poi feconda e in grado di mantenersi fruttifera per almeno due o tre secoli. Un sogno, per tutti coloro che aspirino a un’intensa vita sessuale anche nella senilità!

Una curiosità: il più antico olivo del mondo si troverebbe in Grecia, ad Atene. Lo chiamano "l'olivo di Platone" e dovrebbe avere, secondo la voce popolare, due millenni e mezzo. Fruttificava, donando olive e olio ai greci, al tempo delle guerre persiane e dell'età di Pericle, quando il mondo era giovane e gli uomini credevano ancora nei miti e negli eroi ...

Altrettanto carico di storia l'uliveto più antico del mondo: è quello di Gerusalemme, il celeberrimo orto dei Getsemani, il “frantoio per l’olio” nella valle del Cedron, ai piedi del monte degli Olivi, silenzioso scenario delle sofferenze di Gesù, cui rimane indissolubilmente consacrato.

La sua fama di eternità, espressa anche in alcune sentenze popolari, è dovuta alla virtù di sviluppare dal piede vigorosi rampolli che prendono il posto del vecchio tronco che invece deperisce. Questa caratteristica ne spiega anche l’aspetto contorto e tormentato che, quasi metafora della condizione umana, ha ispirato scrittori, poeti, pittori di ogni epoca. Non rimase estraneo al suo fascino un uomo di intensa spiritualità come il cardinale Giacomo Lercaro che nei suoi Foglietti di meditazione così lo descrive: “ l’ulivo…l’albero scarno, dal tronco e dai rami contorti, quasi tormentato, senza fiori anche in primavera, dal colore smorto delle sue foglie…ma la bacca è preziosa; l’olio è cibo nutriente, medicina…; l’olio lenisce la ferita, toglie la ruggine…è mitezza, l’olio” (da Card. Giacomo Lercaro, Vi ho chiamato figli, Foglietti di meditazione (1957-1978) ed. San Paolo, 2001).

Vecchio, fecondo a lungo e pacifico, l’olivo. Fin dai tempi del racconto biblico del diluvio, un ramoscello d’olivo sta a indicare l’annuncio di pace, la fine di una contesa: “Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello d’olivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra” (Genesi, VIII, 10-11) e che si ristabiliva l’alleanza tra Dio e l’uomo. Da allora l’olivo è sempre stato percepito come un simbolo di pace: secondo il racconto virgiliano, Enea, appena sbarcato in Italia e ricercando la pace e l’alleanza col re Latino, gli inviò gli oratori coronati di olivo: Centum oratores augusta ad moenia regis / ire iubet, ramis velatos Palladis omnes; / donaque ferre viro, pacemque exposcere Teucris…(cento oratori fa andare alle sacre mura del re, / e son velati dei rami di Pallade tutti / per l’uomo doni a portare, pei Teucri pace a implorare…) (Eneide, libro settimo, vv. 153-155). Nel medioevo la fronda d’ulivo era segno di buona notizia: pace, vittoria, fine di un pericolo… Lo testimonia Dante: “E come a messagger che porta ulivo / tragge la gente per udir novella / e di calcar nessun si mostra schivo / così al viso mio s’affisar quelle” (Purgatorio, canto II, vv. 70-71).

Pianta amica e alleata dell’uomo, è considerato segno di stupidità assoluta trattarla in maniera scriteriata e senza lungimiranza: come faceva (non si trascuri la pregnante malizia di questo singolare femminile trasformato in nome proprio maschile!) un certo Potta, autolesionista che tagliava gli olivi per farci la brace.

Così in autunno inoltrato, ma solo se avremo avuto per essi quelle cure minime che si debbono ad un amico paziente e caro da sempre, "i fratelli olivi / che fan di santità pallidi i clivi / e sorridenti", per dirla col D'Annunzio alcionico, potranno donarci, e con dovizia, i frutti della loro millenaria generosità.



"Parole e musica del Risorgimento" di Luciano Luciani

Nella nostra storia nazionale poche epoche come quella risorgimentale hanno affidato alle parole e alla musica i sogni e le speranze, le rabbie e le passioni del loro tempo: infatti, la cultura romantica che pervadeva tutti gli aspetti, pubblici e privati, della vita di quegli anni così fervidi individuava proprio nella musica e nella poesia le forme d'arte più adatte ad esprimere gli impulsi più veri della interiorità.

E se il Risorgimento trova in Giuseppe Verdi l'interprete più consapevole, colui che sapeva rivelare musicalmente nella maniera più piena ed intensa, l'anima profonda del popolo italiano, pure ogni piazza, ogni piccolo paese della penisola aveva il suo modesto "vate" locale: capace di offrire parole, spesso semplici e cordiali, e sonorità, magari elementari, a favore dello spirito nazionale proprio dell'età. Un'epoca apparentemente lontana nel tempo, ma fondativa della nostra storia civile dell'oggi.

Addio, mia bella addio…

Prendiamo per esempio un anno: il 1848, l'anno fatidico, l'anno “dei portenti”. In Europa ed in Italia rivolgimenti, libertà conquistate e perdute, Costituzioni e rivoluzioni...mentre le classi subalterne cominciavano finalmente ad affacciarsi sulla scena della storia. In Italia quale motivo faceva da colonna sonora a tali e tanti sommovimenti politici e sociali?

Lo spirito di quell'anno formidabile è bene espresso dalla "più popolare gentile canzone che sia stata scritta e cantata da coloro che combattevano le guerre dell'Indipendenza" (P. Gori): Addio, mia bella addio, intitolata in origine La partenza del volontario o anche La partenza del soldato.

I versi, celeberrimi, sono stati attribuiti ora al poeta marchigiano Luigi Mercantini, ora al letterato napoletano Alessandro Poerio, morto nel 1848 durante la difesa della repubblica di Venezia.

Invece, pare che siano da attribuirsi a Carlo Bosi, studente fiorentino di giurisprudenza, che lo firmò, anagrammando il proprio nome come Basocrilo, nelle drammatiche settimane che precedettero le vicende del '48 italiano.

Il primo verso suonava Io vengo a dirti addio..., ma il sentimento popolare lo mutò nel più patetico Addio, mia bella addio.... Per la parte musicale il Bosi fece ricorso, riadattandola, ad una melodia popolare che già esisteva e circolava da tempo a Firenze.

Immediata la diffusione di questa canzone patriottica: il 21 marzo del '48 appena a Pisa furono conosciuti i fatti d'arme delle Cinque Giornate milanesi non fu possibile contenere l'entusiasmo degli universitari toscani, che per manifestare la loro passione nazionale intonavano dappertutto il testo recente del loro collega fiorentino.

Le parole e la musica di quella bella canzone patriottica avrebbero di lì a qualche settimana accompagnato l'epopea del Battaglione universitario toscano nel nord Italia, a Curtatone, divenendo in breve tempo un inno modesto ma efficace ad entusiasmare e commuovere.

Quante aspettative, quanti sogni ingenui, individuali e collettivi, quante lagrime hanno accompagnato queste strofe:

Addio, mia bella addio,

l’armata se ne va:

se non partissi anch’io

sarebbe una viltà.


Non pianger, mio tesoro,

forse ritornerò:

ma se in battaglia io moro,

in ciel t’aspetterò.


Il sacco è preparato

sull’omero mi sta

aon uomo e son soldato;

viva la libertà…

Ero povero ma disertore

Ma il senso della profonda disaffezione dall’Austria e dai suoi destini, ormai diffuso anche tra i ceti più popolari, era stato largamente propagandato da un altro testo di poco precedente il 1848 e destinato, in seguito, ad entrare in tutti i repertori della canzone militare fino al secondo conflitto mondiale:

Ero povero ma disertore

e disertai dalle mie frontiere

e Ferdinando l’impè - l’imperatore

che mi ha perseguità.


Valli e monti ho scavalcato

e dai gendarmi ero inseguito

quando una sera mi addo – mi addormentai

e mi svegliai incatenà.


Incatenato le mani e i piedi

e in tribunale mi hanno portato

ed il pretore mi ha do- mi ha domandato

Perché mai sei incatenà?”


Io gli risposi francamente:

Camminavo per la foresta

quando un pensiero mi vie- mi viene in testa:

di non fare mai più il soldà”


Caro padre, che sei già morto,

e tu madre, che vivi ancora,

se vuoi vedere tuo figlio alla- alla tortura,

condannato senza ragion.


O compagni che marciate,

che marciate al suon della tromba,

quando sarete su la – su la mia toma

griderete: pietà di me.

Io vorrei che a Metternicche

Ma i nostri bisnonni erano capaci - chi l'avrebbe mai detto? - di contenuti assai più corrivi, per non dire volgari, ma sicuramente espressivi: è il caso di Io vorrei che a Metternicche... dove Metternicche sta per Klemens Wanzel Lothar, principe di Metternich-Winneburg, uomo politico austriaco di origine tedesca, uomo simbolo della Restaurazione, della Santa Alleanza, della reazione europea e dell'oppressione austriaca sull'Italia:

Io vorrei che a Metternicche

gli tagliassero le gambe;

le mettessero per stanghe

alla carrozza del suo re.


Io vorrei che a Metternicche

gli tagliasser le basette

ne facesser le spazzette

per le scarpe del suo re.


Io vorrei che a Metternicche

gli tagliasser le budella

vorrei farne le bretelle

per le brache del suo re.


Io vorrei che a Metternicche

gli mozzassero la testa

vorrei farne una gran festa

nel palazzo del suo re.


Io vorrei che a Metternicche

gli tagliassero i coglioni

vorrei farne di bottoni

per la giubba del suo re

.

E, a partire dal 1847, si inventarono sempre nuove quartine, sempre più beffarde e cruente, che accompagneranno e scandiranno, di lì a breve, le marce dei volontari verso i campi di battaglia della prima guerra d'indipendenza.


Fiori toscani

Anche i motivi musicali più semplici e spontanei conoscono in questo clima una riconversione in senso politico: è il caso di alcuni stornelli toscani, dai testi polemici, essenziali, diretti:


Fior di ginestra,

il nemico ha a andare via di casa nostra

dalla porta, se no dalla finestra.


Fior di giunchiglia,

chi di far guerra agl'Italiani ha voglia,

sappia che tutti siamo una famiglia


Fior di limone,

tutti alla nostra Italia vogliam bene:

dall'Alpi all'Etna abbiam giurato unione.


Evviva, Italia, evviva il tuo buon anno!

Or che svegliata sei dal lungo sonno,

per te non vi sarà mai più malanno.

Più letterari, invece, il Canto degli Italiani (1847) di Novaro e Mameli, divenuto più tardi il nostro inno nazionale, e quell' Inno a Giuseppe Garibaldi (1858), che, peraltro, l'Eroe dei due mondi non amava troppo per quell'incipit piuttosto macabro Si scopron le tombe: si levano i morti...: parole del poeta marchigiano Luigi Mercantini, celebre allora e oggi per la sua Spigolatrice di Sapri e musica di Alessio Olivieri che dirigeva la banda musicale della Brigata Savoia.

Versi romani e note musicali dal 1846 al 1849

Come sempre accade parole e note accompagnano le speranze e le illusioni che alimentano le aspettative dei patrioti: così, nel 1846, al momento dell'ascesa al soglio pontificio del cardinale Mastai Ferretti col nome di Pio IX in fama di sentimenti liberali, il cieco Alessio Tarantoni, un famoso stornellatore romano, non può fare a meno di registrare l'entusiasmo generale intonando per la strade della città dei papi:

Oh, Dio! Oh, Dio!

tutta l'Italia è un gran pollaio ov'io

nun ce sento cantà che: Pio! Pio!...

Anche Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, rispettata figura di capopopolo e futuro martire della Repubblica romana si infiamma per il Papa patriota e liberale e improvvisa versi ingenui e inni facili ma sinceri:

Dall'Alpi a Palermo

non s'ode che un suono

evviva Pio nono

che ci benedì.

.

E anche:

Viva la Guardia Civica

più non temiam perigli

d'antichi eroi siam polvere

del nono Pio siam figli.

Un fervore che doveva durare pochi mesi. La fuga del papa da Roma e la proclamazione della Repubblica sono scanditi da testi popolari di tutt'altro tono e contenuto:

Se il Papa è andato via

buon viaggio e così sia.

Non morremo d'affanno

perché fuggì un tiranno,

perché si ruppe il canapo

che ci legava i piè.

Viva l'Italia e il Popolo

e il Papa che va via.

Se andranno in compagnia

via pure gli altri re.

Anche l'assedio a cui fu sottoposta la Roma repubblicana dalle truppe francesi sollecita poeti e musicisti popolari:

All'armi Romani

la patria ce chiama

all'armi Romani

la patria a sarvà

All'armi Itajani

da popolo fiero

contro un impero

bisogna marcià.

E il cieco cantastorie Tarantoni così cantava sotto le bombe francesi per le strade e le piazze di Roma:

Ciavemo Garibbardi

ciavemo Calandrelli

sti boja de francesi

nun sò potuti entrà

l'amo respinti indietro

nun ponno aritornà..

Strofette antirisorgimentali

E gli "altri"? Con quali versi e quali melodie cercavano di convincere, commuovere ed entusiasmare ai propri ideali, ai propri miti gli avversari del Risorgimento?

Bisogna dire che anche gli oppositori del processo nazionale e unitario non andavano davvero leggeri nella polemica con la loro controparte politica. Queste che seguono alcune strofette di segno reazionario diffuse in Toscana dopo lo sfortunato epilogo delle vicende del '48 e del '49:

Diceva un codino

e aveva ragione

che il re più coglione

è il popolo re.

Su dite, fratelli

ov'è Montanelli?

Su dite, minchioni,

Mazzoni dov'è?

L'infame Guerrazzi,

facendo fagotto,

diceva -M' infotto

del popolo re. / ...

e via di questo passo, picchiando duro sugli sconfitti di quella contingenza storica.

Questo in Toscana, ma anche nel Veneto la sconfitta dei Piemontesi lasciava spazio alla propaganda austriacante che, intelligentemente, cercava nel dialetto e nell'oralità i modi per una diffusione larga e generalizzata:

I Piemontesi son partiti

con la piva nel suo saco,

Carlo Alberto è un gran macaco

ch'el vogliamo fusilar.


I Piemontesi coi suoi bafi

j è 'na manega de mati birbanti,

i coparemo tuti quanti,

i metaremo soto i piè.

La Bella Gigogin

Sì, la generazione del ’48 fu costretta a chinare la testa e a subire, in silenzio, vessazioni, prepotenze e sarcasmi. Fu duro accantonare di fronte alle ragioni del più forte speranze e progetti e tornare a lavorare nell’ombra, in silenzio: agitazione, propaganda, educazione e…pazienza. In attesa di giorni migliori che si fecero attendere per dieci, lunghi anni quando giunsero, si annunciarono con una festosa tiritera piena di doppi sensi: La Bella Gigogin.

Rataplan tambur io sento

che mi chiama alla bandiera

che gioia o che contento

io vado a guerreggiar.

Rtaplan non ho paura

Delle bombe e dei cannoni

Io vado alla ventura

Sarà poi quel che sarà.


E la bella Gigogin col tremila-lerillalera

La va a spass col so pigin col tremille-lerillelà


Di quindici anni facevo all’amore

dàghela avanti un passo

delizia del mio cuore.

A sedici anni ho preso marito

dàghela avanti un passo

delizia del mio cuore.

A diciassette mi sono spartita

dàghela avanti un passo

delizia del mio cuor.


La ven la ven la ven alla finestra

l’è tutta l’è tutta l’è tutta insipriada

la dis la dis la dis che l’è malada

per non per non per non mangiar polenta

bisogna bisogna bisogna aver pazienza

lassala lassala lassala maridàr…

Diffusa e cantata soprattutto a Milano e in area lombarda La Bella Gigogin è costituita da un miscuglio di strofe popolari non tutte lombarde: Gigogin, per esempio, è il diminutivo piemontese per Teresa. La musica è del milanese Paolo Giorza, compositore e direttore d’orchestra che la eseguì per la prima volta la sera di San Silvestro del 1858 al Teatro Carcano di Milano: fu un successo strepitoso, tanto e vero che la banda civica dovette ripeterla per ben otto volte consecutive.

Il testo è denso di allusioni politiche che oggi ci appaiono vaghe, ma che dovevano risultare ben chiare ai milanesi in trepida attesa dei grandi eventi che si preparavano per l’imminente 1859.

“Daghela avanti un passo” stava per certo a significare un sollecito al re del Piemonte perché si adoperasse in senso antiaustriaco; “bisogna aver pazienza, lassala maridar”, un invito a pazientare ancora un poco, fino a quando ci fossero state le condizioni migliori per unire la Lombardia al Piemonte; la ragazza che “la dis che l’è malada per non mangiar polenta” si potrebbe identificare nella stessa Lombardia, o forse l’Italia intera, che non tollera più la bandiera austriaca di colore giallo polenta.

Gli austriaci non capirono o fecero finta di non capire.

Certo, di lì a pochi mesi, nel corso della seconda guerra d’indipendenza, il segnale della battaglia di Magenta tra austriaci e franco-piemontesi (4.VI.1859) fu dato proprio dalle note della Bella Gigogin.

Il povero Luisin

Ma ogni guerra, anche se motivata dalle ragioni più valide, comporta sempre un prezzo terribile di sangue, dolore, lutti…: il senso di perdita successivo ad ogni vicenda bellica, anche la più fortunata, anche la più gloriosa è ben registrato dalla canzone popolare successiva alla seconda guerra d’indipendenza. Lo dimostra Il povero Luisin, il contraltare pensoso e malinconico alle ilari, beffarde strofe della Bella Gigogin: un testo di delicata, struggente poesia, un lamento per la morte di un giovane soldato dell’unità nazionale, caduto combattendo al Castellino nella campagna militare del 1859:

Un dì per sta contrada

passava un bel fiò

e un masulin de ros

l’ha trà in sul pugiò


E per tri mes de fila

E squasi tuti i dì

El pasegiava sempre

Dumà per vedem mi


Vegnù el cinquantanov,

che guera desperada!

E mi per sta contrada

L’ho pù vedù pasà.


Un dì pioveva, vers sira

S’ciupavi dal magun,

quand m’è rivà ‘n lètera

cul burd de cundizion


scriveva la surela

del pover Luisin

che l’era mort in guera

de fianc al Castelin


Hin già pasà tri an,

l’è mort, el vedi pù

epur stu pover cor

l’è chi ancamò per lù.

Stornelli fiorentini del 1859

Se l’anno eroico del nostro Risorgimento è il 1848, quello decisivo dal punto di vista militare, politico e diplomatico è senz’altro il 1859. Un anno importante anche per la Toscana, che, se non fu teatro di imprese di particolare epicità, pure vide la deposizione del granduca di Toscana Leopoldo II (24.IV. 1859); la formazione di un governo provvisorio composto da Peruzzi, Malenchini, Danzini; la reggenza del principe Eugenio di Savoia come prodromo all’unione col regno di Sardegna.

L’Italia cresceva a fatica, un pezzetto per volta e i salaci stornelli del popolo fiorentino esprimono bene gli umori dell’opinione pubblica fiorentina patriottica e liberale:


O Leopoldo, vecchio rimbambito,

e tutta la Toscana hai rovinato:

dal tanto bene ora tu ci hai tradito.


Nel mezzo dello mare c’è una stella;

leva quella bandiera nera e gialla,

mettila tricolore, ch’è più bella.


Fiorin di mela!

Dentro a palazzo Pitti c’è paura;

e c’è Leopoldino nella bara.


Fior di Limone!

Più non ci togli dalla bocca il pane,

né i liberali più metti in prigione.


Fior di limone!

Il granduca poté toccar con mano

Come si sbalza il re dal seggiolone.


Se stiamo saldi

La libertà ci costa pochi soldi

Andando tutti sotto Garibaldi.

A Roma, dalla Repubblica romana a Porta Pia

A Roma, dopo i generosi entusiasmi repubblicani della primavera '49, il clima della normalizzazione era stato particolarmente pesante. E se Giuseppe Gioacchino Belli si "ravvedeva" delle sue caute aperture liberali di appena qualche mese prima con un sonetto sarcastico ed irridente nei confronti di Mazzini, Saffi ed Armellini, i triumviri sconfitti, l'opposizione al governo del papa-re continuava a manifestarsi tra il popolo romano. Ora assumeva le forme improvvisate della canzonetta, ora le note dei melodrammi verdiani La battaglia di Legnano e Il Trovatore, incautamente ammessi alla rappresentazione dalla occhiuta censura del governo pontificio: i patrioti facevano propria, modificandola lievemente, la famosa aria di Azucena:

Ai nostri monti ritorneremo

la bella Patria noi rivedremo

.

Ma è nelle strade, nelle piazze, nelle osterie romane che si esprime con maggiore libertà e pregnanza la volontà di libertà e di ritorno all'Italia del popolo romano:

Ai monti de Cesena

sentirai passà la banda

Vittorio comanda

e li preti mai più.

.

Oppure:

Guardate Garibaldi

che bella barba cià

co' la camicia rossa

oh quanto bene sta.


Co' la camicia rossa

e i pantalon turchini

la carabina in spalla

semo garibardini.


Evviva Garibaldi

gridavano le belle,

evviva Manuelle

viva la libertà.


Evviva Garibaldi

gridavano le donne

e se l'Italia dorme

presto se svejerà.

E sulle note che, ancora oggi, costituiscono la facile melodia della caratteristica Fanfara dei Bersaglieri così cantavano i romani al 20 settembre 1870:

O vojantri berzajeri

che ciavete la gamba bona

fate presto a venì a Roma

a portacce la libertà.

Berzajeri avanti

prima Vittorio

poi Garibbardi.

Berzajeri indietro

verso San Pietro

s'ha da marcià....

Per la città dei papi, la libertà è alle porte. Anzi, a Porta Pia…Mentre il processo di unificazione nazionale trova un suo primo, faticoso compimento, il popolo e le sue canzoni già da qualche anno si sono rivolti a cantare altre dolorose oppressioni ed altre difficili forme di resistenza.


04 novembre 2010

"Interruzione" poesia di Elisabetta Borghi

foto gianni quilici
di Gianni Quilici
















Interruzione
Mi sono inaridita
come la nostra terra qui
che (quanta pena!)
puoi vedere percorsa
da spaccature grosse irregolari oscure
profonde tanto
che ti pare di infilarci l'occhio
sino al centro del pianeta (denso e fuso)
fessura della terra asciutta!
Dicono che lo spirito
cresca nell'aria sottile
e invece io cerco (sempre)
la più insana umidità
purché ci senta pullulare
il movimento la trasformazione.
Questo terso del cielo
chiaro e uniforme (credimi)
è quaggiù crudele
quando non muta non trapassa
e nel silenzio della notte
puoi sentire le piante
che col respiro fondo e affannato
chiedono un po' di refrigerio
al giorno che segue: ed ogni giorno
che segue si riapre
invece uguale al precedente.

In estrema sintesi la grandezza della poesia di Elisabetta Borghi vive nel connubio tra soggetto e oggetto, tra l'io e la sua Terra. La Terra diventa metafora dell'io poetico, ma anche di un popolo. Una condizione esistenziale, quasi un destino.
Eppure il primo verso, “Mi sono inaridita”, potrebbe far presagire una poesia personale, intima, autobiografica. Non è così. Da subito Elisabetta Borghi s'infila in una lunga similitudine accorata e incalzante nel succedersi di immagini, che allargano a dismisura lo spazio tanto da prefigurare un occhio che arrivi fino al “centro della terra”. Non è, tuttavia, questo uno spazio arioso tra cielo e terra, sono le profondità di essa, le spaccature “grosse, irregolari e oscure” che emergono.
Una poesia in cui le metafore diventano visioni che trasmettono aridità e immobilità, sofferenza e soffocamento. Ci si sentono echi di Antonio Machado nel rapporto doloroso e simbiotico con la Terra e ancora di più del Leopardi sensitivo e disperato (“ quando non muta non trapassa/ e nel silenzio della notte/ puoi sentire le piante/ che col respiro fondo e affannato (...)/.
Non c'è tuttavia nel rapporto col mondo rassegnazione. C'è ricerca, desiderio di movimento, di trasformazione. Così “la più insana umidità” va letta non solo e tanto metereologicamente quanto simbolicamente. Un simbolo indefinito, che può contenere qualsiasi movimento, anche insano, che possa contrastare lo scorrere monotono, sempre uguale del Tempo.
Elisabetta Borghi nasce nel 1958 a Cagliari, dove vive e lavora svolgendo attività di ricerca nell'ambito delle arti figurative e dei beni culturali. Collabora con enti e privati alla realizzazione di manifestazioni, mostre, progetti editoriali, attività didattiche. Scrive storie che non insegnano e non dimostrano nulla, ma che si affidano alla libertà di immaginazione del lettore.

03 novembre 2010

"Sogni perduti" di Luigi Martini

di Gianni Quilici

C'è una ragione per cui Luigi Martini, ex calciatore della Lazio-scudetto, può risultare con questo libro autobiografico Sogni perduti (Mursia editore) come un personaggio forse unico nel panorama calcistico di questi decenni.

In questo libro, infatti, la sua vita viene scandita da sogni, che diventano scelte e da scelte che diventano anche svolte radicali. Sono queste svolte, e la forza di alcune di queste, l'originalità del libro e dell'autore. Filosoficamente si potrebbe affermare che Luigi Martini sia inconsapevolmente un esistenzialista sartriano: un uomo, cioè, che si inventa, che si è inventata la vita.

Primo sogno: diventare un calciatore famoso. Ed è un sogno che nasce nell'infanzia in lucchesia, a Lammari, negli anni '50, in una situazione familiare dolorosissima, per la morte della sorellina per una peritonite non diagnosticata. Questo sogno ha un inizio, una mattina del 1955 a sei anni, quando sul ciglio della strada vede “una piccola palla bucata e indurita dal gelo”. Da lì passa da partite immaginarie giocate con se stesso a quelle all'oratorio, da un prima squadra giovanile alla Lucchese, per poi, nel volgere di breve tempo, transitare dal Livorno al Siena per arrivare infine alla Lazio, che gli darà onori, scudetto e nazionale.

Secondo sogno: a 30 anni. Ha appena vinto lo scudetto ed è ancora competitivo tanto che Nils Liedholm lo richiede per la Roma. Decide invece di smettere. E' una svolta coraggiosa: inizia corsi di pilota all'Italia, ritornando ad essere, lui campione, uno dei tanti giovani in cerca di futuro, scegliendo di passare da 8 milioni a sole 400 mila lire al mese. Dopo un anno viene promosso pilota, diventa responsabile, ogni volta, della sicurezza dei passeggeri, matura, scopre l'umiltà, la freddezza , l'umanità e lo spazio: l'abbraccio dell'infinito, una visione d'insieme ed anche più distaccata della vita.

La terza svolta è, invece, casuale, quella a cui nel libro egli dedica minor spazio. Senza quasi volerlo diventa, infatti, deputato di Alleanza Nazionale. Qui scopre il Parlamento, la politica e i politici. Entrare nell'ingranaggio parlamentare, interagire con un ambiente dove la trasparenza e la lealtà sono poco diffuse sarà duro, ma gli servirà per raffinare, radicare e cercare un'altra strada.

Che sarà la quarta e più esaltante svolta, il sogno più grande, quello che Martini vive tuttora: il mare.

Qui Luigi Martini scrive le pagine più profonde e poetiche, in cui trasmette la filosofia a cui è progressivamente arrivato: vivere il mare, conoscerne la natura e i movimenti, rispettarlo e contemporaneamente avere un orizzonte davanti aperto e illimitato, non avere più radicamenti, né certezze, sentirsi inserito nella natura, diventare essere minuscolo nella grandezza del creato. C'è una concezione della vita e una felicità nell'osmosi con l'universo che mi ha fatto pensare, in quel senso, agli ultimi scritti di Tiziano Terzani.

Tutto il libro è percorso da sogni, che diventano sfide, ma è nelle pagine sul mare che Martini raggiunge quella essenzialità filosofica e poetica, che ha fatto scrivere ad Antonio Ghirelli: “Credo che questo libro di Luigi Martini sia uno dei più bei libri mai scritti sul calcio” Non sul calcio penso, che è forse la parte più debole del libro, anche se gustosa nella descrizione dei rapporti conflittuali tra i calciatori stessi. A partire dal calcio, ma sulla vita come scelta, come sfida, come ricerca e felicità, come bilancio, sia pure provvisorio di un orizzonte ancora aperto.


"Caos calmo" di Sandro Veronesi

di Gianni Quilici


    Un romanzo che mi ha lasciato perplesso per l'alternanza, che leggendolo,ho vissuto tra grande libro e grande libro mancato. Non c'è conclusione (in me), ma punti interrogativi.

    E' il romanzo di chi non accetta i valori ed i tempi di vita attuali, che anche personalmente non si assolve... E' un romanzo sulla ferocia della globalizzazione, sulla fatica di vivere oggi, sulla necessità di avere molti punti di vista.

    Non a caso Nanni Moretti ne ha interpretato il protagonista nel film omonimo. C'è una moralità di fondo che è parte del sentire morettiano.

    Ci sono dialoghi di grande forza, un rapporto sessuale raro a leggersi per voracità e analiticità ... Su ogni aspetto il rapporto padre-figlia profondo e creativo.

    Cosa non mi convince? Un eccesso di riflessione dell'io narrante, che allunga troppo i tempi, diventa una riflessione non vissuta all'istante, ma scritta dopo a tavolino....

Sandro Veronesi. Caos Calmo. Bompiani.