28 luglio 2016

"Gianni Quilici e la fatica della scrittura” a cura di Tra le righe libri



Gianni Quilici nella post-adolescenza

Cosa significa scrivere un libro? Quale la scintilla, l’urgenza che prova una persona nel “dover” scrivere?
Scrivere, almeno per me, è una necessità. Scrivo in ogni luogo: non solo in casa, ma nei caffè, nelle sale d’attesa, sulle panchine, al gabinetto, in macchina (quando non sono io a guidare). E scrivo versi e riflessioni, interventi e pagine di diario.
Scrivere invece un libro nasce da una necessità, ma diventa fatica, una tremenda fatica, perché non ci sono limiti alla possibilità di migliorare, di renderlo più profondo, più scorrevole. E significa anche, per me, pubblicare “qualcosa” che abbia il senso di poter stare dentro un’industria che sforna migliaia di libri all’anno e che ha alle spalle grandissimi romanzi. Da qui un senso quasi “sacrale” che ha la pubblicazione, che mi ha paralizzato per tanto tempo.

Anais Nin
Leggere è base prioritaria per approdare alla scrittura. Vorrei sapere i nomi degli scrittori e delle scrittrici che ti hanno portato fino a questo porto.
Diversi anni fa, cercai di scrivere, sull’onda di un libro di Henry Miller, quali fossero “gli scrittori della mia vita”, dando però alla parola scrittori un significato ampio: non solo romanzieri o poeti, ma filosofi, psicoanalisti, sociologi e perfino politici. Iniziai così a fare una lista di coloro che mi avevano, in qualche misura, influenzato o interessato. Iniziai, ma ben presto mi fermai. La mia risposta comunque è duplice.
La prima: sono tanti coloro che mi hanno intrigato. Accenno brevemente, per dare un’idea: Sartre per la filosofia della libertà; Moravia per la capacità di costruire l’azione anche attraverso il flusso dei pensieri; Pasolini per l’acutezza semiologica e per quel “gettare il mio corpo nella lotta”; Leopardi per quei versi visionari che camminano e insieme cantano; Edgar Morin per il tentativo eroico di cogliere la complessità del Pianeta unificando le molteplici discipline; Lucio Magri per la limpidezza e lucidità nella ricerca delle radici ultime nell’analisi politica: e potrei continuare con Tolstoj e Dostoevskij, Rimbaud e Stendhal, Henry Miller e Anais Nin, Gramsci e Roland Barthes, Hammett e Patricia Highsmith, Arthur Schnitzler e Bukowski
Secondo: nessuno forse mi ha veramente influenzato, almeno stilisticamente. Perché ho una mia voce, che scrivendo ricerco, ed è una voce che deve trovare un ritmo, una musicalità, il cui timbro ritrovo anche in ciò che malamente scrivevo nell’adolescenza. Ed è una voce che ha in sé un imperativo categorico: un immaginario lettore, non necessariamente colto, ma che vuole capire, che vuole sentire.

Il primo libro non si scorda mai. Quale il tuo e dove, come, quando, perché?
Ci sono i libri dell’infanzia: per un verso l’avventura (Salgari), per un altro il banale romanticismo ( i romanzi rosa di Delly). Ho scoperto il romanzo nel momento in cui percepivo l’io sono con “La disobbedienza” di Alberto Moravia. Avevo 16 anni, facevo tormentosamente ragioneria, quando un amico di classe più maturo me lo prestò perché lo leggessi. Fu una folgorazione. Lì c’erano sesso, rivolta, solitudine e uno sguardo introspettivo acuto, con cui iniziai a confrontarmi. Da Moravia a Sartre, da Dostoevskij a Thomas Mann, da Freud a Marx, come autodidatta. Abbandonai la scuola. Diventai un altro. La mia avventura esistenziale iniziò.

Amos Oz
Il mondo del libro è complicato e disastrosamente gestito e spesso si fa fatica a riconoscere un buon libro da uno pessimo. I tuoi gesti in libreria. Come si “annusano” i libri. Come si scelgono (se sei tu che scegli loro o avviene il contrario).
Compro molti libri. Di questi numerosi in librerie a metà prezzo o nei banchetti. Qui ci sono occasioni straordinarie, spesso, più sorprendenti (mi dispiace scriverlo) di ciò che si può scovare nella maggioranza delle librerie. I libri li cerco sulla base di “amori” non ancora esauriti, mentre “altri amori” sono appena nati o possono nascere. Per esempio in questi due o tre anni mi sono, per così dire, innamorato di Amos Oz e di Abraham Yehoshua, di Philip Roth e di Kenzaburō Ōe, di Georges Simenon e di John M. Coetzee per citarne i più significativi.
Succede tuttavia, come a molti, che sfogliando un romanzo (e un autore) che non conosco ci sia una storia, dei giudizi di critici che stimo, una copertina, anche un tipo di impaginazione che m’intrigano e può iniziare una nuova scoperta. In conclusione: sono io che scelgo i libri, ma non sempre. E quando questo mi fa scoprire un nuovo autore o una nuova autrice per me, come scriveva Deleuze, è una festa.

26 luglio 2016

"Se la natura morta ci fa sentire la vita" di Dafne



Le nature morte suscitano in me un interesse particolare. Mi accorgo che nel campo delle arti sono i soggetti che maggiormente fanno fermare il mio sguardo ed il mio pensiero. Non è semplice capirne il perchè. A volte ho pensato che trattenessero un mistero maggiore della rappresentazione di uomini, donne, personaggi od anche paesaggi. Infatti la loro non vita, immobilità e staticità intrinseca rendono ancor più inatteso l’effetto emozionale che suscitano, se a rappresentarle è l’Arte. La loro ferma ed inutile solitudine sembra riscattarsi solo grazie ad uno sguardo diverso, lo sguardo dell’artista.

E’ “La canestra di frutta” del Caravaggio che spiega pienamente l’elevatissimo sentimento artistico che può offrire una natura morta; in questo caso i frutti sono rappresentati  nei loro interiori ed appena accennati disfacimenti e debolezze derivanti dalla loro totale naturalità, così come un il ritratto di un uomo può riuscirci affascinante per la rappresentazione della sua intima umanità. Lo sguardo artistico è, deve essere in grado, di osservare e partecipare questa sensazione e poi volerla rappresentare; può essere solo questo il senso di una rappresentazione di natura morta: la volontà, il bisogno di farla parlare, esprimerla attraverso dei particolari che la facciano coincidere con l’animo umano. 
Ed ecco che osserviamo che la frutta di Caravaggio all’apparenza lucida mostra in realtà, qua e là, segni di marcescenza, alcune foglie sono accartocciate, colpite dai vermi, la mela è bucata. Ma ciò non appare a prima vista, bensì in un momento successivo. Sta qui la forza: nella non evidenza, nella poesia del lasciar solo suggerire.

Tornano allora in mente le nature morte di La Chapelle, vistosamente scomposte, volutamente appariscenti, e mi rendo conto che l’impressione di verità ed autenticità che mi hanno suscitato è durata solo un attimo. A conferma del fatto che le emozioni, gli insegnamenti, derivano dalla capacità, da parte di chi vuole trasmetterci le proprie intenzioni ed una qualche  forma di bellezza, di togliere, levare piuttosto che aggiungere dati alla realtà che si vuole spiegare, decifrare, interpretare.


Un collegamento di idee mi porta al potente quadro di Lucian Freud “Ragazza nuda con uova”. Il forte espressionismo del pittore si evidenzia anche con la necessità della presenza di quelle uova che trova  corrispondenza nei gesti della vita; due uova, forse appena cucinate, di cui sembra di sentire l’odore sono credibili tanto quanto il corpo vero, appassionato, bellissimo per la sua realtà tormentata e preoccupata, che mi induce a soffermare lo sguardo, pensieroso. Quel corpo parla dei pensieri e della vita della donna che può essere ciascuno di noi, ed è certamente più di un corpo.

 Lucian Freud diceva “voglio che la pittura sia carne” , i suoi quadri, come questo, sono vita vera e la presenza dell’uovo (di nuovo una natura morta) amplifica e dimostra la sensazione di vita nella sua scarna ma tormentata verità. Il pensiero che mi illumina e sbalordisce è che basterebbero quelle uova ad esprimere il concetto esistenziale cercato  da Freud e la presenza del corpo nudo di ragazza non fa che esplicitarlo meglio rendercelo palese grazie alle pennelate dense e drammatiche  e all’espressione assorta, se non assente, della donna. Il dipinto avrebbe potuto anche intitolarsi “Uova con nudo di ragazza” tanto è simile e sullo stesso livello la forza evocata dai due soggetti che posti in una stessa composizione possono entrare in relazione rendendo più accessibili  ed evidenti i loro specifici significati reconditi, manifestandosi come espressioni diverse di una stessa nuda autenticità che diventa bellezza e chiarezza di pensiero.

Le nature morte di Caravaggio e di Freud mi hanno fatto sentire la vita.
                                                                                                                     
                                                                                                                       da Libri e Arte

24 luglio 2016

"Finestre che guardano finestre" di Ilaria Stabile






Quanti viaggi con la strada che scorreva dietro di me…?
Quante case, palazzi, finestre, tende a nascondere l’interno, balconi semiaperti e…
quante stanze,?
Qualcuna vuota, altre no e
quante vite se ci guardavo dentro?
Qualcuna ferma, altre no…
Quante stazioni, quante volte sempre la stessa…?
Quante persone? Quante?
Sembravano il presente, sembrano il futuro, sembrano infinite e…
Col tempo, ricordi ma…
Dei ricordi, qualcuno resta annuvolato, qualcuno invece conserva tutte le sue forme. Per sempre…
Lo sapevi che sarebbe stato così è così è stato.
In fondo, tutti noi sappiamo sempre. Sempre.
Altri ricordi invece…diventano simboli,
simboli di quel che non vuoi, di quel che non sei,
di quel che ti fa male, di quel che ti fa bene,
di quel che ti prevarica, di quel che ti sostiene,
di quel che ti ama, di quel che ti violenta,
di chi è arrabbiato, di chi è deluso,
di chi guarda fuori, di chi guarda anche dentro,
di chi ti vede, di chi è cieco.
Ma, solo col tempo, frattali infiniti divengono forme, immagini e acquistano
senso, spazio, tempo e…nomi.
Quel signore lì, per esempio, cosa farà ora? Quello lì che…era triste, sempre triste? Ho capito solo dopo il perché.
E lei? Quella che gli stava accanto, sempre attenta e preoccupata, che lo amava, che amava tutti e che sembrava tanto un girasole?
E lui poi? Quello dagli occhiali specchiati che nascondevano e confondevano occhi chiari, grandi, forti e, insieme, così umanamente incerti sulla vita? Quello che ha pianto per me, con me e…forse anche senza di me?
E lei che ora aspetta un bambino, quella che mi chiedeva sempre cosa fare, quella a cui ho chiesto aiuto, quella che me lo ha sempre dato?
E lei che cercava e riusciva a trovare una spiegazione a tutto, che si grattava sempre il naso quando sapeva che sarebbe stato inutile parlare all’ignoranza.
E l’altra? Quella piccola figura, all’inizio fredda e spigolosa che, col tempo, è divenuta dolce, attenta e corposa.
E lui che, per amore, una strana forma di amore, fu geloso a tal punto da tradirmi in un cerchio di cattivi pensieri?
E quella lì che mi deluse? Alla quale girai le spalle per anni per poi scoppiare a piangere un giorno sentendole dire: “Sai che aspetto un bambino…?”. Ero stata la prima a saperlo.
E quello che mi ha comprato il primo pacchetto di sigarette e che voleva darmi tutto? Di quel tutto, ho tenuto solo il…pacchetto di sigarette.
E lei che mi ha fatto sempre pensare a un ammasso di carne, ossa, pelo e luce spruzzato da un inafferrabile sapere divino che l’aveva resa lei?
E lui dove sarà? Quello che, guardandomi, interrogava i miei occhi e, insieme, le mie parole bugiarde? Quello che urlava contro le mie orecchie sorde?
Quello lì, poi, quello del mezzo sorriso più intero del mondo?
Quante vita ancora…quante immagini?
Il viaggio continua ma, ora, qualche volta, mi fermo. Mi fermo per…sentirmi viva.
E dentro me, sempre lei…quella voce, a volte bassa, a volte chiara, che mi ricordava chi ero. Quante volte non l’ho ascoltata? Troppo piccola a volte, troppo nascosta e dalle parole troppo semplici per esser credute, fin quando poi ha dimostrato la sua saggezza, la saggezza di chi non sa.
E dentro me, sempre lei…quella luce, quella luce presente in ogni uomo fin dalla nascita,
quella luce che tanti non han visto, che tanti non potevano vedere, che tanti hanno visto, frainteso, confuso e tentato di stuprare, quella luce a volte oscurata, a volte impossibile a farlo, quella luce che come tutte le cose terrestri, va via per poi fare un giro e ritornare…quella luce che, ora so, c’è sempre, nonostante colori diversi che assume di volte in volta.
In fondo, il sole non sarebbe sole se fosse sempre lì…uguale a se stesso. Ma, in realtà, lui è sempre uguale a se stesso ma…noi abbiamo mai visto un sole uguale a un altro? No. Proprio no. Un tramonto uguale a un altro? Da casa mia, mai.
Ed ecco gli occhi di una persona.
Gli occhi di una persona, come le finestre dei miei viaggi.
Stanze
E cosa ci sarà dentro?
Immaginarlo è meraviglioso, un pittore che anima la sua tela.
Viverlo è…struggente.
E la mia casa si fa sempre più grande.

                                                                                                     7 marzo 2010
                                                                

20 luglio 2016

"Su Paolo Bertolani" di Davide Pugnana



L’infinito sulla costa
la sostanza lirica della poesia
 di Paolo Bertolani
                                                                                                                           Sedetti e vidi le navi  scivolare
                                                                                                                          sul luminoso e vastissimo     mare,
come carrozze dello spirito, alate,
    sopra più sereni elementi iniziate”
Shelley
                                                                                                                                Come una musicale frana
                                                                                                                         divalla il suono, s’allontana.
   Con questo si disperdono le accolte
                                                                                                      voci dalle volute
                                                                                                       aride dei crepacci;
                                                                                                              il gemito delle pendìe,
                                                                                                               là tra le vite che i lacci
                                                                                                               delle radici stringono.”
Montale

                                                                                                          Una volta, io lo so,
                                                                                                             qui c’è stata la gioia.
                                                                                                                L’aria ne trema ancora.

                                                                                                                               Ancora non si è spento lo stupore
                                                                                           della valle
                                                                                                                            a vedersela un giorno andar via
Roberto Pazzi



I.  Presenze, voci e palinsesti: Bertolani e le figure della tradizione lirica italiana

             Chiunque decida di intraprendere un viaggio sul terreno misterioso e insondabile della creatività artistica - a prescindere dalla forma espressiva (pittura, musica, parola, cinema) - il dialogo con le voci e le opere del passato diviene un fatale ‘contrappasso’, un confronto dialettico in perpetuo bilico tra positività e negatività; tra edonismo e masochismo, risarcimento e frustrazione; tra registri di temperamento diversi, per gusto individuale e fondale storico. Eliot descriveva questo  processo come il rapporto tra talento individuale e tradizione. Nel caso specifico del poeta, l’atto di voltarsi indietro, verso gli snodi capitali della tradizione poetica, si fa emblema stesso di una civiltà   intesa, metaforicamente, quale ‘coro’ di voci inanellate, intreccio di presenze fuse le une nelle altre.
            Di questo complesso statuto della poesia, Paolo Bertolani, come altre potenti voci liriche del regionalismo italiano, ha vissuto gli effetti sia su larga scala (subendo l’ombra lunga di autori egemoni e canonizzati come Montale, Ungaretti e Saba, e, in seguito, l’ondata della generazione postmontaliana di Caproni, Zanzotto, Sereni, Bertolucci, i primi che capirono la grandezza del loro collega appartato), che su scala ridotta: dalla cattiva lettura che della sua poesia fecero i conterranei, facili alla mescolanza dell’uomo con il poeta, dell’io empirico -.biografico con l’io lirico-trascendentale (che Proust, in una celebre affermazione, ci invita a tenere distinti), fino alla miopia degli studiosi locali, che, dal canto loro, decisero di non accogliere Bertolani nella rosa aurea della letteratura ligure, almeno fino all’oggi.
            Uno dei luoghi comuni più resistenti intorno alla poesia di Bertolani è l’etichetta di scrittore istintivo, naif. La sua origine provinciale, l’infanzia e la giovinezza trascorse nell’aria stagnante del paese, la sua tumultuosa cultura di autodidatta, l’estrazione familiare chiusa in una dimensione di rurale arcaicità, i luoghi stessi della sua poesia, come delle sue pagine narrative legate a figure e situazioni di un confine tra campagnolo e suburbano, hanno accreditato l’idea di un autore ‘ingenuo’ che giunge per forza d’istinto e senza mediazioni a riversare sulla pagina scritta i grumi, gli umori e le angosce dell’esperienza biografica. Una simile tesi presuppone in origine uno scambio acritico tra il temperamento dell’uomo e il significato della sua opera, con l’avallo del resto di una fama locale che si è subito mossa per creare intorno a Bertolani il mito del poeta  istintivo, che ‘scrive come sente’. Oggi, che di Bertolani sopravvive l’abbondante vena delle raccolte in versi e in prosa, le spigolature aneddotiche e le ‘occasioni’ biografiche sono state finalmente abbandonate, superando certa immagine di maniera, ora agiografica ora folkloristica, di outsider paesano. Così, alle confezionate micro-schede delle antologie di glorie locali siamo passati alle analisi critiche e sistematiche provenienti dal milieu accademico.
Eppure quel luogo comune che discende da una sospetta equazione tra la biografia e l’opera, contiene un aspetto positivo, se corretto con strumenti di analisi metodologica che sollevino la mera scoria autobiografica a livello di elaborazione artistica. Con ciò intendo dire che della vita vissuta di un autore filtrano nell'opera quegli eventi e quegli istanti privilegiati portatori di verità conoscitiva. A noi interessa il passo successivo: la messa in opera di questo ‘materiale’; il suo trasferimento dall’informe della vita alla perfezione dell’organismo formale. Ci interessa la particolare angolatura di trasformazione stilistica del dato reale di partenza, i modi e il significato del suo trapasso entro le maglie della macchina artistica.
È da questo punto di avvio che la poesia di Bertolani – come quella di qualsiasi altro poeta che scrive con continuità, forte di un’acquisita identità d’artista e cosciente di aprire una personale direzione di scavo e di ricerca – oltrepassa lo spazio autobiografico per creare una rete sottile di interferenze, di prestiti, di interscambi, di palinsesti che innervano di linfe sempre nuove il suo laboratorio di poeta. È a quest’altezza che entra in gioco la presenza forte della tradizione lirica italiana. Basterebbe un diagramma delle fonti e dei modelli della poesia di Bertolani per sollevarlo definitivamente dall’etichetta di autore naif. Nell’intero arco della sua ricerca letteraria, la tradizione è costante presenza: esplicita nelle dediche poste in limine ai componimenti, o abilmente metabolizzata nelle trame del proprio testo.
Bertolani sapeva bene che il dialogo con le voci della tradizione lirica non doveva essere ‘imitativo’, né poteva trasformarsi in un ampio serbatoio da cui liberamente attingere. Ma da artista di talento aveva capito che la tradizione non va intesa come un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene, chi vuole interiorizzare le molteplici ‘lezioni’ dei maestri, deve attraversare un apprendistato di grande fatica.
Se apriamo una delle più belle raccolte in lingua di Paolo Bertolani, Piccolo cabotaggio(2004), l’immagine della ‘navigazione’ non si fa solo emblema di un incessante cercare, quanto di un attraversamento delle letture e dei classici di cui sono intrise le ore e i giorni di una vita di meditazione. Quale luogo occupano, dunque, i nomi della tradizione letteraria nella poesia di Bertolani? Abitano il luogo sacro per eccellenza del testo: la ‘soglia’, con tutte le sue valenze simboliche: ‘piccolo congedo’ trova la sua molla ispirativa ‘leggendo Proust’, e dall’autore della Recherche il poeta si stacca per svolgere una intensa riflessione lirica sulla polarità amore/dolore, sull’amore che, immerso nelle categorie di spazio e tempo, si trasforma, muta, si colora di tristezza e dolore, e, improvviso, sa mostrare all’interiorità la sostanza del vivere attraverso quel meraviglioso strumento conoscitivo che è il corpo, o meglio i sensi, aperte bocche sul mondo (“se amando è per sempre assicurato/ uno spazio al dolore/…se è vero che l’amore/ è spazio e tempo resi sensibili al cuore”).
Nel cuore della raccolta si apre un’intera sezione sotto il segno del resistente modello dannunziano: (d’annunzianine) è il titolo complessivo di un vero e proprio ‘ciclo’ di sei testi nei quali l’io lirico si rivolge ad un ‘tu’ femminile assente, lo richiama dal di dentro, dalle stanze della memoria, e assieme a lei costruisce un itinerario lungo cui il soggetto che ama e il fantasma amato toccano la sostanza della vitalità e della gioia indolente della giovinezza trascorsa (“dicevo/a te ridente scomposta/nei tuoi vent’anni/ nei tuoi occhi nella tua bocca infiniti”); il seducente erotismo velato di metafore (“mentre il ricordo di occhi/ voce mani dell’angolo più/ tenero tra l’inguine e quella/ specie di rondine giù/ mi trapassa a freccia la gola?”); l’annullamento di sé nell’altro (“per sempre/ sparire dal fondo del tuo orecchio diligente/ o volgere altrove la voce o soltanto inseguire/ una sola carezza”); la simbiosi assoluta e totalizzante nel segno della ‘coppia’, nel cui gioco due vite si mescolano seppur disgiunte, e, a distanza di anni, si scoprono ancora intrecciate a nodi affettivi indissolubili, come nella quarta poesia, dove l’io lirico ritorna a un presente di solitudine, un tempo in cui la presenza fantasmatica della donna è tassello dell’interiorità:

                                                       tu venga o no
                                                      di ricomporre un numero,
      verrai dentro di me comunque sempre
  perché nulla di te in me si smembri
   e non incappi in secche irremovibile
                                                      la vita

Nel ciclo si trova poi un testo particolarmente felice nel riecheggiamento di un modello illustre come Montale, una figura di maestro che permea di sé la storia e la ricerca poetica di Bertolani fin dai suoi esordi (montaliano è infatti il titolo di gruppo di versi appartenente alla aurorale produzione del poeta, Vecchi versi, del 1950, conglobati poi nella leggera architettura della raccolta d’esordio Le trombe di carta del 1960). Leggiamolo per intero:


                                                      già caduta la sera
                                                      il sogno che avevamo,
 il barlume che a stento si fa strada
                                                      nella crescente foschia
       si direbbe da un’isola lontana: Capraia
                                                      o Gorgona
    o l’Elba, all’occhio più lunga da qui,
più distesa. O da che sperso faro?

                                           Nell’estesa solitudine
al buio nel silenzio ormai stabiliti
               sentirmi chiamare – voce felpata dal cuore
                                                      del freddo, della neve

Chi conosca da studioso, o chi almeno da lettore trattenga qualcosa della musicalità dei versi montaliani, ritrova in questo testo di Bertolani una raffinata simmetria con alcune figurazioni del Montale degli Ossi di seppia, e in parte delle Occasioni (soprattutto nella presenza del ‘barlume’ come istante conoscitivo privilegiato). Prendiamo, per un rapido confronto, un testo come Casa sul mare, in cui Montale vagheggia il ritorno alla casa dell’infanzia a Monterosso: dopo aver chiamato ‘viaggio’ questo cammino dell’esistenza che ritorna ai luoghi topici e alle radici del proprio vissuto, dopo aver ricomposto le tessere del quadro d’origine, con il ruotare monotono della pompa, i moti del mare ‘assidui e lenti’, le striature violacee e caliginose dei ‘pigri fumi’, troviamo uno slargo paesaggistico fra i più belli della letteratura ligure:

                                                         ed è raro che appaia
                                                         nella bonaccia muta,
  tra l’isole dall’aria migrabonde
  la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tralasciando il genio linguistico montaliano, versato nel conio di neologismi almeno quanto Dante (bastino, nel giro di questa strofe, lemmi come: ‘migrabonde’ in luogo dell’oscillazione apparente delle isole nell’aria e ‘dorsuta’, per la singolare postura aggobbita della Corsica), il recupero discreto di Bertolani è solo apparentemente ‘mimetico’: nel suo testo, intonato sulle corde di dialogo dell’io con il suo fantasma muliebre, il paesaggio della costa si stempera nei fumi azzurri dell’orizzonte; affiorano isole ‘nella crescente foschia’ e l’occhio tenta di indovinarne il nome. Così, la Capraia e la Gorgona non rimangono decorazioni sulla superficie di linee e colori; ma da entità puramente iconiche o da semplici elementi dea scenario del ricordo, esse innescano la struggente fantasticheria nel declinare di un giorno che si fa sera; nostalgia del ‘sogno che avevamo’ diventato ora ‘barlume che a stento si fa strada’, in una ragnatela di nebbia che crea ingannevoli suggestioni, in mezzo alle quali solo lo ‘sperso faro’ è presenza animata da interrogativi simili a intermittenti bagliori. Bertolani richiama Montale, accoglie immagini degli Ossi di seppia, ma non li ricicla, non ne mima la scabra musicalità; egli si pone dinanzi allo stesso soggetto per investirlo della sua ‘visione’, per ricrearlo secondo il suo stile e il suo vocabolario espressivo.
In Piccolo cabotaggio le voci e i palinsesti della tradizione lirica italiana proseguono e via via si infittiscono: troviamo, a mo’ d’epigrafe, un verso del Purgatorio di Dante che fissa ‘Lerice e Turbia’ come ‘diserta, rotta ruina’ e il controcanto di Bertolani che sposta l’aspra immagine dantesca alla ‘piana del Magra, prima del mare’, osservata dal ‘belvedere’ (uno dei luoghi topici dell’ispirazione bertolaniana); un verso di una lirica di Goethe sulla visione di una rosa; e un testo complesso e ricco di risonanze, dal titolo (leopardiana), in cui del poeta recantese Bertolani schizza  una sintesi magistrale di motivi, quasi arrivando ad una forma di identificazione del suo spazio ligure con quello del ‘selvaggio borgo natio’: coglie la vita che scorre in ‘una quiete antica’, immersa in un ‘silenzio’ che rivela aspetti nuovi del ritmo quotidiano, della natura carpita dal ‘davanzale’, dell’ ‘esercito mite degli uccelli’ ; sente come il ‘dolore’ s’allarga nell’aria immobile; come nella notte ‘sfioriscono i profili/ delle cose’ e rimane un ‘usignolo,/ là nella macchia  e la realtà è pronta a ‘denudarsi/ per l’ultima verità’. 
Un ultimo riferimento ai modelli illustri, richiamati nella raccolta, ci proviene da un amico di Bertolani, un autore della levatura di Vittorio Sereni, che usava passare le sue estati di vacanza a Bocca di Magra. A lui - che fu tra i primi a riconoscere l’originalità di timbro e la portata della poesia di Bertolani – sono dedicati due testi di Piccolo cabotaggio, sui quali tornerò in seguito, trattando della ‘geografia’, fisica e spirituale, dell’universo poetico bertolaniano.
La presenza delle voci della grande lirica italiana, da Dante ai contemporanei, si accompagna alle presenze dei modelli europei, che non potevano mancare nel gusto di un lettore d’eccezione, colto e sensibile, come Bertolani – lo abbiamo visto nella sostanza viva dei suoi testi – ha saputo essere.

               Con molti poeti, scrittori, filosofi del passato mi sarebbe piaciuto conversare, sedere dimenticando il cadere silenzioso del tempo, fra le pareti di una stanza ovattata contro i rumori del  mondo, come quella impenetrabile di Proust e quella ‘tutta per sé’ di Virginia Woolf. Lasciare che lo spazio sia invaso dalla conversazione come da un’onda musicale, dalla quale suoni diversi si stacchino come foglie d’oro. E in questa deliziosa scia d’oppio cogliere un pensiero, afferrare un‘immagine, accompagnarla all’infinito, variarla su mille flauti, scoprire pensieri che non sapevamo di nascondere, portarli alla luce da gorghi felici di idee e fonderli con le parole dell’altro. La bellezza della conversazione è questa sua inarrestabile fluidità e mutevolezza: le parole sono mobili, leggere, passano e corrono via, procedono, si spostano nell’aria, si trasformano nell’ebbrezza dialogica come il piombo in oro nelle fiale dell’alchimista. E il gioco non finisce mai. Non finisce mai il piacere di modellare le parole con la bocca e le mani, di gettarle in aria, di farle scomparire dietro le tende, poi di riprenderle a volo e di tutto non conservare nulla, possedere l’arte folle dell’improvvisazione e lasciare che la conversazione si accenda per una somma di brillii, di scintille di fuoco, di rapide intuizioni subito dimenticate; che cresca sulla capacità dei caratteri di disegnarsi nel loro contrasto, nella loro voce variegata e contraddittoria, nella loro versatilità di pettegoli come nella loro sottigliezza psicologica.
Così, dalle mie prime letture ‘con coscienza’ fino ad oggi – oggi, che Bertolani per un soffio se ne andato - la sensazione di nostalgia, di assenza-presenza, di impasse anagrafica mi accompagna e impedisce quel ‘sogno di conversazione’, pura e disinteressata, che avrebbe potuto essere e non sarà mai. Averlo conosciuto attraverso quel medium magico che è la parola letteraria; averlo letto in tutte le sue sfumature di lirico vero, averne condiviso la visione intensa e cristallina del mondo; aver imparato a guardare il paesaggio con occhio ‘estetico’ sensibile a istanti epifanici, attenti a rubare nel brivido di un’alga insinuata dalla corrente o in uno stelo incurvo dal vento il massimo del soffio poetico, tutto questo è bastato ad insinuare in me il desiderio di parlare con lui, di passeggiare una volta su sentieri ricchi di sole e ulivi, di cogliere in una donna che passa una creatura d’aria e di luce. Di questo ‘tempo perduto’ non rimane che un amaro rimpianto, solo in parte lenito dalla scoperta dei suoi autori preferiti, scoprendo nel privato pantheon di Bertolani affinità elettive sorprendenti. Di che cosa avremo parlato se ci fossimo incontrati? Forse dei 'classici' che ci univano senza saperlo. Della guerra descritta da Tolstoj, degli scintillanti occhi grigi di Anna Karenina; del mistero sacro che Dostoevskij ha chiuso nel principe Miskin; dell’erotismo esasperato e seducente di Emma Bovary; del mondo assurdo di Kafka e del suo romanzo America;  dell’ “imprescindibile” Leopardi; del suo amato Faulkner e della sua abilità di “creatore di atmosfere”; dei saggi di Poe sulla poesia, dell’esotismo avventuroso di Salgari, degli oscuri Sonetti a Orfeo di Rilke, ricreati nella geniale traduzione di Pintor; di Dante, di Porta, del microcosmo affettivo di Pascoli; del verso materico di Baudelaire e del misterioso silenzio creativo di Rimbaud; dell’America reale di Whitman e di quella immaginaria di Pavese; della poesia metafisica di Eliot e Montale, dei soggiorni liguri di Pound; dei narratori che amiamo: Verga, Fenoglio, Gadda, e gli avrei chiesto di parlarmi di prestigiosi interlocutori come Vittorio Sereni, Franco Fortini, Attilio Bertolucci, Mario Soldati.
Ciò che rimane della nostra conversazione irreale sono i suoi testi, le sue raccolte, il lavoro creativo di tutta una vita di fedeltà all’arte: leggerle ininterrottamente, lasciando riposare i suoni e i sapori sul fondo dell’anima, contaminarle con altre voci, confrontarle, mandarle a memoria, gettarle in faccia ai baratri strapiombanti di Punta Corvo o lasciarle scivolare nel grembo materno di Lerici e Bocca di Magra, o affidarle alle linee sinuose e musicali delle colline azzurre del Golfo spezzino, nasconderle dietro le isole, dove cielo e terra si sciolgono in un abbraccio di lontananze ignote. In questa ‘corrispondenza di amorosi sensi’ che fatalmente si crea fra i suoi testi e i suoi lettori; in questa vena discreta e malinconica, lieve come le liriche giapponesi percorse da vibrazioni contemplative e gioiose delle ‘trombe di carta’, solo qui si apre la soglia per la comprensione dell’essenza lirica di Paolo Bertolani.


II. L’itinerario creativo di Paolo Bartolani: il ‘bilinguismo’ come voce dell’anima e cifra stilistica

1.  La rilettura consapevole dei modelli della tradizione europea e italiana, la presenza e la trasfigurazione della figura femminile nella sua condizione di ispiratrice assente, l’esplorazione delle pieghe nascoste dell’interiorità, l’alta qualità percettiva della visione paesaggistica; il carattere intimo, l’essenza del silenzio, l’intrinseca malinconia delle nature creative, la freschezza del timbro, la felicità analogica e la costante ricerca stilistica sono tutti elementi che fanno di Paolo Bertolani un ‘lirico’ di razza, ossia un’ indole predisposta a sentire e intuire la bellezza del mondo e della vita.
Perché parlo di ‘lirica’ e di ‘lirico’ e non utilizzo una tavolozza più varia e sfumata di termini? Perché ‘lirica’ risponde a un modo molto preciso di far poesia e di essere poeta. Non è solo una linea costante della storia della poesia italiana, che fa capo agli stilnovisti, a Petrarca, a Tasso, a Foscolo e Leopardi, a Pascoli e D’Annunzio, ma è una forma poetica che porta in sé tratti specifici di Dna. Che cos’è la lirica? A questa difficilissima domanda ha risposto Montale con un’immagine degna del suo genio:

“Che cos’è una poesia lirica? Per mio conto non
    saprei definire quest’araba fenice, questo mostro,
    quest’oggetto determinatissimo, concreto eppure
   impalpabile perché fatto di parole, questa strana
 convivenza della musica e della metafisica, del
    ragionamento e dello sragionamento, del sogno e
                                            della veglia.”             

La lirica è un’araba fenice, un mostro, un oggetto a un tempo definito e indefinito, palpabile e impalpabile, fisico e metafisico, uno canto che non si sa se origini dalla veglia o dal sonno. La nostra tradizione poetica si regge su questo grande dilemma. La lirica è la forma poetica che sceglie di dar corpo a fantasmi, a proiezioni e desideri, ad angosce, a rovelli metafisici come l’origine della vita e della morte, si nutre di malinconia, canta la donna e con essa le mille forme dell’amore, l’ebbrezza della carne sfiorata da un bacio come l’assoluta purezza della fedeltà. La lirica apre alla dimensione dell’interiorità, dell’astratto, del sentimento intimo che deve portare al discorso psicologico, introspettivo; mette in moto i meccanismi segreti della memoria, della rievocazioni in cui l’esperienza dell’io trova un baricentro e un senso. La lirica, nella sua accezione moderna, è la scoperta dell’uomo della ricchezza inesauribile “chiusa nel suo interno in una totalità autonoma di sentimenti e rappresentazioni”, scrisse Hegel. Ma non solo: lirica è anche poesia che mette l’io di fronte al mondo e problematizza questo rapporto, lo innerva di stimoli infiniti, di realismo e visionarietà a un tempo.
Di tutto questo che cosa troviamo nella poesia di Paolo Bertolani? In quale genere poetico della tradizione dobbiamo collocarlo? Qual è la cifra originaria della sua ispirazione? Perché ci sentiamo portati fatalmente a chiamarlo ‘lirico’? Senza che lo vogliamo, silenziosamente scivoliamo nel ginepraio d’interrogativi addensati sul fondo di una raccolta di versi; è nella natura stessa dell’espressione poetica, nel suo lievito misterioso, impastato di immagini, di metafore, di suoni, di parole investite di molteplici significati, sovente intelligibili e oscuri, a condurre nelle maglie di un lavorìo ermeneutico infinito.
Quali domande possiamo ancora rivolgere al nostra senso critico, per avvicinarci al fuoco creativo di Bertolani? Un poeta insegna a guardare con occhi nuovi il mondo; ci prende per mano e ci insegna a leggere la realtà secondo l’intelligenza del cuore, a provare nuove chiavi conoscitive, a scendere in lati nascosti della nostra psiche, a giocare con le infinite possibilità combinatorie del linguaggio. Leggere non è un delizioso passatempo, ma un atto intellettuale e conoscitivo, dove l’acquisizione impara la vera profondità di pensiero, l’arte della speculazione. E in questo processo diventare lettori di poesia equivale a dotarsi di una sensibilità quasi rabdomantica. È questa la condizione singolare, l’atmosfera mentale che crea in noi il dettato poetico di Bertolani.

 Conosco solo per via libresca e bibliografica il 'romanzo di formazione’ di Paolo Bertolani, i libri ‘letterari’e quegli autori prediletti che tracciano le linee sotterranee della sua storia intellettuale e un suo canone personale; altre informazioni le ho desunte da spie interne ai testi, come la presenza di lacerti della poesia lirica tradizionale, le dichiarazioni di poetica, la scelta lessicale, la costruzione dei versi e le scelte formali. Non so come sia arrivato alla scelta di essere poeta, quali fattori lo abbiamo spinto in questa direzione; ma esiste l’ ‘atto di nascita’ ufficiale, la data simbolica del suo ingresso nel mondo della poesia: il 1960. A questa data risale il suo primo libro di poesie, Le trombe di carta, ormai quasi introvabile.
In questo libro snello, impalpabile, aereo, si condensano, allo stato embrionale, i principali nuclei poetici e ispirativi della futura quete artistica di Bertolani. Dentro questa primigenia fucina - dove gli elementi della sensibilità,  i grumi del vissuto, le tappe di senso dell’esperienza, sono accarezzati – troviamo i tentativi, direi l’apprendistato del poeta da giovane. Accanto ai contenuti futuri, quello che più colpisce di questa fase aurorale è lo stile cercato, voluto fortemente per veicolare una specifica ‘visione del mondo’. Uno stile all’insegna della sottrazione, dell’essenzialità del dictum, di una brevitas intrinseca all’espressione lirica. Leggiamo uno dei testi della raccolta, Il resto è silenzio: 

                                                 Si vive tra lame sottili di allegria
                                                 per attese di niente. Il resto
è grigiore che tedia più che non rattristi.

In una brevità che concentra l’alta tensione dell’epigramma, il primo Bertolani trova lo stile capace di ri-creare la sua lettura della realtà, il suo senso d’esistere: il metro libero, (pur in presenza di versi tradizionali e canonici tra cui spicca l’endecasillabo), l’assenza della rima, (pur con giochi di rime interne e al mezzo, consonanze e assonanze, allitterazioni, etc.), la politezza formale delle immagini. È qui che il poeta trova la sua cifra fondamentale: una poesia rarefatta, altamente intertestuale, intrisa di discrezione, di urbanitas, modestia e riserbo. Qualità che, nella sua ricerca artistica durante gli anni successivi, verrà coltivata e assecondata come un lievito fecondo di ispirazioni. Una poesia in cui è evidente la presenza del gran ligure, Montale, il cui influsso profondo e durevole, quanto a contenuti, sostanza, visione e sentimento della realtà, animerà con vigore l’intera produzione del poeta della Serra, che, tuttavia, nel sua fare poetico, innervati in seguito di un tono di indignazione morale e di impegno civile (ancora molto velato nella prima raccolta), riesce, a partire da questa raccolta, a operare il distacco dal modello e, via via, a definire una sua precisa, individuale vena poetica con cadenze trobadoriche e contenuti unici e serresi.
Qual è la materia che fermenta in questa prima prova poetica di Bertolani? Una materia fatta di esistenza, di cose, di voci, di verità affidate a una voce lirica e illuminate dalla sua particolare luce. Ne Le trombe di carta troviamo gli squarci e i bagliori della futura alta poesia che vi si rivelano fin dalla prima, fugace lettura; gli slarghi paesistici; il rapporto viscerale con la natura; i gorghi cromatici della terra e del mare; le prospettive a volo d’uccello del ‘belvedere’, sospese in un clima di musica soavissima e struggente; le invocazioni di un disperato sapore umano a un ‘tu’ femminile lontano, vivo nella trasfigurazione della memoria; la parola con quel timbro di melodia estatica, con quel suo sentore lievemente malinconico. È in questo intrecciarsi di elementi originari la quintessenza della lirica di Paolo Bertolani, così ben fissata nell’emblema iconico della ‘tromba di carta’, “già consapevole – scrive Francesco Bruno – che la poesia è una tromba di carta, o comunque tale sarebbe stata la sua poesia: una trombetta colorata dal suono malinconico e struggente di dopofesta, non di ottone lucido e squillante ma di carta, una carta appena più spessa di quella su cui si scrivono i versi.”
In questa raccolta Bertolani trova l’intimo principio unitario e operativo dell’ispirazione che vi si manifesta, il suo anelito sensibile di lirico; quell’esercizio a poetare che accompagna lo schiudersi dell’anima di un giovane ricco di talento, che sta cercando la sua collocazione nel mondo. Chiusi nei versi lievi, scabri e levigati della prima raccolta, immersi in un’atmosfera atemporale, troviamo i nodi biografici della sua poesia: il microcosmo serrese e la cultura contadina; i ‘semplici beni’: la casa, punto stabile, porto di quiete per uno che il mare lo guarderà sempre dall’alto e da lontano; lo stupore di fronte ai piccoli miracoli della natura; la nostalgia del passato; gli oggetti del suo mondo fidato; l’amore totalizzante, incarnato nelle presenze fantasmatiche delle figure femminili. Basti leggere la poesia d’apertura della raccolta,  Casa mia:


Dalle macerie di tutti gli amori
                                                         i viaggi
                                                         le baldorie
                                                        con quello che segue
                                                                     sempre ritorno a te col batticuore
                                                                     sorpreso
                                                         di meritarmi ancora il sonno
                                                         il pane e il vino.

La presenza femminile è intimamente connaturata alla ricerca di un poeta lirico. Esempi celebri li troviamo lungo tutto il percorso della poesia italiana: l’amore intellettuale degli stilnovisti, iconizzato nella donna angelicata; lo sguardo metafisico di Beatrice; la sostanza di Laura a metà tra cielo e terra, impasto d’anima e di carne; l’amore fuggitivo e illusorio di Angelica; la nostalgia perduta di Silvia e l’erotismo di Aspasia; la simbologia e la complessa evoluzione della Clizia montaliana. In tutti questi casi la condizione della donna è di assenza e di lontananza; non è presenza che possiamo toccare o percepire con i sensi, ma è un ‘tu’ che invochiamo, dematerializzato, vivente nella dimensione dell’io lirico, rievocato nella memoria e idealizzato secondo valori salvifici; la donna diviene interlocutrice disincarnata del poeta, tramite celeste di un dialogo dell’io lirico con sé stesso. Anche in Bertolani la donna è parte di un passato o, viceversa, è custode del focolare domestico:

“Ora cha hanno messo fra noi
      la dura consistenza delle strade
                                                           dei ponti e delle selve

      ora mi cresci dentro più serena:

amarti in silenzio è scrivere
                                                           il tuo nome nel bianco
di tutte le cose. E altro cielo
                                                           chiuso alle parole.
                             (E altro cielo)

                                                           “Potevo figurarti
               in ogni immagine prossima e lontana
(…)
                   Per giungere a capire che nulla hai tolto
                                                           e aggiunto alla mia vita
    e scoprirmi una sera nel vuoto
                                                           di prima di incontrarci,”
                            (Domande)

         “Averti nell’ombra delle pinete selvagge
    ora che il sole infuria sopra l’acqua
           e forte odore il muro dei gerani…(…)”
                                                 (Ferragosto del V.U)

“Alle raffiche assidue del piovasco
      quel gelsomino arrampicato a stento
sul muretto
                                                       s’intride sino a morire.

                                                      Così ho fatto io con te
      che in troppo uragano ho voluto il tuo
                                                                    cuore
fragile come il fiore del ciliegio”
                                           (Corrispondenza)

 È qui che il Bertolani della raccolta d’esordio allinea tutti gli elementi per la successive fioritura poetica. Non è un fattore secondario che passino sedici anni prima dalla prima alla seconda raccolta; anni, si intuisce, di una lunga gestazione interiore e di una travagliata ricerca dell’oggetto del proprio poetare e della propria lingua poetica. Il frutto di questo incessante e silenzioso lavorìo è Incertezza dei bersagli, pubblicata nel 1976, e accompagnata da una nota prefatoria di Vittorio Sereni. Il grande poeta scrive:

                          Chi passa dalla Serra di Lerici trova spunti di facile ed effimera
invidia se appena si affaccia sul golfo della Spezia da quel belvedere
                          che è, casualmente, la casa in cui Bertolani abita. Ma, come spesso
                          avviene a chi vive stabilmente al cospetto di un corso d’acqua, non 
 è con questo sfondo, troppo fisso e presente per non essere ovvio, che
     identifica il senso dell’esistenza. (…) Non è la prima volta che un lavoro
          poetico muove. È dettato, da una volontà di confronto con la terra d’origine
 e con la sua gente, da una domanda che entrambe sembrano porre con
         ostinazione: tanto che il mezzo letterario, più che un rimedio o un soccorso,
            si pone come un intervento fatale e al tempo stesso intermittente, ammiccante
                         da versanti ‘dove i paesi non sono più che incerte notizie di luce’”


La seconda raccolta di Bertolani è, a mio modo di vedere, il suo capolavoro per quel che riguarda il suo versante creativo ‘in lingua’ (l’altro versante, ‘dialettale’, merita una trattazione a sé stante, che qui si rivela impossibile). L’esile rigagnolo de Le trombe di carta diviene il grande fiume di Incertezze dei bersagli.  L’architettura della raccolta allarga la propria tela, articolandosi in cinque sezioni; i testi brevi si alternano a quelli di ampia gittata; la materia si frange in numerosi rivoli; fanno il loro ingresso sulla scena le figure dell’universo affettivo del poeta (le figlie); si acutizza l’osservazione del paesaggio; si innesta tutta la ramificazione nuova del filone tematico morale e civile; il dettato poetico e la tavolozza lessicale si arricchiscono di sfumature preziose, di soluzioni raffinate e rare, ultimi bagliori dell’officina linguistica dell’autore prima della faticosa ricerca nei giacimenti archetipici del dialetto serrese, lentamente assimilato ad orecchio e trasposto ri-costruito nelle strofe nitide delle sue poesie.
Da qui la storia creativa di Bertolani si biforca: da un canto, la scoperta delle risorse musicali ed espressive della lingua d’origine, lingua ‘non scritta’, legata all’oralità degli antenati e del focolare, sfociata nel 1985 in Seinà; dall’altro, la meditazione dei nuclei tematici in chiave narrativa, a partire dal 1979, anno in cui Bertolani si misura  con la narrativa e pubblica il Racconto della Contea di Levante, che gli vale il prestigioso “Premio Comisso” per il Racconto. Il libro ha fisionomia autobiografica, articolata in una serie di racconti in prima persona, resi in un italiano di autonoma fisionomia, che, sulla lezione di Verga e di Tozzi, riprende movenze lessicali e sintattiche di “un idioma antico, quasi da tutti dimenticato ancor prima di poter assurgere a dignità di dialetto”. L’importanza di questa raccolta è fondante per capire l’iter creativo di Bertolani: nei sei, bellissimi, racconti si dispiegano, in aperte forme narrative sottese da una diffusa lirica, i temi che caratterizzano l’esperienza umana e poetica dell’autore; il dialogo continuo con la voce dei morti, immagini di uomini e di donne i cui tratti sfumati emergono dal ricordo, il paesaggio e i suoi suoni, il colore del cambiare delle stagioni. Il cammino verso la maturità artistica e la sapienza poetica è definitivamente aperto.    

III  Il suono della lontananza: l’infinito sulla costa

            Quando ho incrociato per la prima volta la poesia di Paolo Bertolani, fra gli scaffali della biblioteca della Scuola Normale di Pisa, accanto ai consistenti volumi di Attilio Bertolucci, l’idea che un poeta conterraneo fosse abbandonato nella fila di un illustre maestro mi sollecitò a prendere quel libro, a sedermi nella remota e ovattata saletta della ‘saggistica’ e a cominciarne la lettura. Il testo si intitolava Incertezza dei bersagli, nell’edizione Guanda con la copertina azzurra e la prefazione di Sereni. Ciò che mi colpì, ad una prima lettura sommaria, era l’intensa e quasi creaturale presenza del ‘paesaggio’ ligure. Quello stesso in cui, sonnambulo e svagato, avevo passeggiato più volte.
            Dopo qualche tempo, mi misi sulle tracce delle altre raccolte, in versi e in prosa. Divoravo tutto ciò che di Bertolani biblioteche e librerie potevano offrirmi. In seguito, decisi di assecondare un desiderio che la lettura silenziosa e domestica aveva stimolato: ripercorrere l’itinerario geografico disegnato dalle sue poesie, visitare i luoghi che avevano nutrito di linfe magiche quei versi, indovinare i nomi e le forme di quei paesi letti dal poeta come ‘incerte notizie di luce’.
            Tornando sui passi di Bertolani per cercare, a mia volta, non tanto di svelare, d’interpretare, o “capire” quanto piuttosto di assaporare la pura bellezza, la liricità e la solitaria pazienza della poesia di Bertolani, sentivo sempre più chiaramente come la sua verità stesse proprio nella profondità del suo radicamento tra quei sentieri, quei muri scrostati, quelle gole aperte sul mare e quei sassi franosi; come, cioè, il suo essere luogo per l’anima nascesse da una sua irriducibilità a qualsiasi geografia astratta. Respirare l’aria mossa della Serra, lasciarsi intridere dalle sue brezze improvvise e scaldare dell’arsione dei suoi soli, sedersi tra le sue pietre secche o nei suoi uliveti falciati di fresco, perdersi tra la sue viuzze e i suoi sentieri, era l’esatto pendant delle immersioni quotidiane nella poesia di Paolo, tra le sue pieghe chiare e segrete, tra le sue faglie di luce e d’ombra, tra le sue apparizioni e i suoi intimi rifugi. Stare alla Serra voleva dire abitare, al contempo, nel corpo vivo del mondo e nella verità della poesia, potersi nutrire di cose semplici e di parole sapienti, procedere tra la terra e i sogni. Ciò non significava affatto che tra la vita e la poesia – come ho detto all’inizio dello scritto – potesse darsi, per Bertolani, totale identità o fusione: nella prima resiste sempre un margine di indicibile, un cono d’ombra, un “ultimo orizzonte” che la seconda ricrea e testimonia trasformata secondo le leggi dell'arte. Ma, proprio perché consapevole dell’ombra, o del lato irriducibile delle cose, la voce poetica di Bertolani irradia luce vera, e sa illuminare come poche il nostro incerto cammino nel mondo.
            Accanto al modo dolcissimo e seducente di manifestarsi dell’amore, nella poesia di Bertolani la presenza di una ‘geografia’ si rivela fondamentale. L’atto poetico si lega e si nutre della fibre del paesaggio, l’occhio si spinge verso una lontananza carica di presenze, punteggiata di isole, di profili sfumati, di ‘spersi fari’, di globi accesi la notte come bottoni di madreperla. Il poeta racconta la ‘lontananza’, cerca di dare consistenza a un ritmo invisibile, a un sussurro irraggiungibile; la ricerca di un’immagine che porti a galla un oggetto, una figura, un ricordo perduto. Pensiamo a che cosa avviene ogni giorno tra la notte e l’alba: si apre una soglia sacra che separa il silenzio dal rumore, il sonno dalla veglia, la dimenticanza dall’affanno. Come può passare nei versi di un poeta questa sensazione?

…ed eccomi di nuovo
 dentro le case avvinte,
                sotto la punta del tuo campanile
        che s’arrossa nel tramonto.
           Che suona le ore, inutilmente
    per un’ombra a me cara,
                     da tempo compagna ad altre ombre

                                                                      e ben altri silenzi…
                                 (Pugliola)


Al ritrarsi delle ombre e al sorgere della luce del mattino, in lontananza, una rivelazione: la linea del mare, che appare col suo tremito. Tremito di luce sull’onda, più che movimento delle acque. Poesia dello sguardo, o meglio delle percezioni epifaniche, quella di Bertolani, il quale sapeva che per la poesia, dei cinque sensi, è il senso del vedere il più attivo. E intorno al vedere una fisica poetica si costruisce le sue ragioni: di verso, di ritmo, di confronto con il limite della lingua, e del pensiero. Il belvedere, che Bertolani rende luogo privilegiato di osservazione del paesaggio e delle lontananze che sfumano nell’invisibile, ma anche uno sporgersi sugli scenari dell’interiorità, questo paese che ha luci e ombre, avvallamenti, lampi improvvisi, pianure e colline. Ogni scrittura poetica ha un balcone che s’affaccia su questi due paesaggi. Bertolani, lettore attento di leopardi, sapeva bene che la poesia crea un movimento dello sguardo verso una doppia realtà: il quaggiù, il fisico percepito dai sensi, la topografia affettiva dei luoghi; e un altrove, uno spazio paesistico che dal reale passa oltre e si carica di valenze simboliche, di stati effimeri e transitori, di profondo silenzio e raccoglimento. Nella poesia di Bertolani la ‘geografia’ è fisica e metafisica a un tempo: fisica in quanto si lega a una precisa toponomastica (la Serra, Lerici, Pugliola, Ameglia, Montemarcello, Bocca di Magra, Punta Corvo) e di essa fissa indimenticabili scorci, come questa sintesi figurativa di Montemarcello, trasfigurato in un ‘micro-mondo’ a forma di ampio terrazzo dominante su tutto:

                                                                 …come un terrazzo alto
sui paesi a ventaglio intorno
                                                           -      ma qui un micro-mondo
                                                           folto di muretti, di campi in disuso,
                                                          di case, e con il grande prato all’ingresso
      del mistero dei vicoli, degli amori…
                                                    e poi – alla foce
                                                    di un viottolo – l’aperta vertigine
                                                    di Punta Corvo,
                                                                             e laggiù, guarda,
     il duplice fondale del fiume, del mare…


Per il poeta  “stanza”, cioè “dimora capace e ricettacolo”, è il nucleo spaziale della loro anima, perché essa custodisce l’anima, quello slancio vitalistico che invade tutto. Leggere e amare Bertolani è entrare in questo circolo sacro, non un luogo ipotetico, ma un’immersione nel tempo della vita: sentire il battito leggero delle foglie, la doratura dei soli pomeridiani, la dolcezza del sacro come ciò che in noi non è protetto da un’aura cristallina. Passeggiare nei luoghi di Bertolani, con i suoi versi sulle labbra, è portare con sé un rabbrividire di venti sui crinali, un tremolare della luce sull’acqua, il sapore degli ulivi e dell’erba, e in tutto ciò avvertire il respiro del mondo.
       Con questo Bertolani ha fatto del suo microcosmo fisico un luogo dello spirito, e lì, su quei crinali, su quei dorsi di collina, in quei manipoli di case la sua vena lirica ha trovato la sua più grande epifania: l’infinito sulla costa. È con questo richiamo dell’estremo nel quotidiano, dell’invisibile nel visibile, dell’azzurro nel ritmo dei giorni che Bertolani abita le nostre vite, investe la nostra fantasia. La poesia, allora, diventa lo spazio di un’inattesa ospitalità: per coloro che sentono la vita, il dolore della lontananza, e sanno nel corpo lo spaesamento, ma cercano una via di fuga alla finitudine nella profondità del pensiero creativo.
          


P.Bertolani, Le trombe di carta, Edizioni Contatto, Collana Voci, ristampato 2004
P.Bertolani, Incertezza dei bersagli, Quaderni della Fenice 14, Guanda, Milano, 1976, pp.86
P.Bertolani, Piccolo cabotaggio, Edizioni Contatto, ris