27 giugno 2022

Novy Mir. Storia psicovegetale di Enzo G. Guidi

 

di Elisa Bertoni

       Sfogliando un poco errabonda il libro di poesie di Sandro Penna, mi sono imbattuta nella lirica Il vegetale: "Lasciato ho gli animali con le loro/ mille mutevoli inutili forme./Respiro accanto a te, ora che annotta,/purpureo fiore sconosciuto: assai/ meglio mi parli che le loro voci./Dormi fra le tue verdi immense foglie,/purpureo fiore sconosciuto, vivo/ come il lieve fanciullo che ho lasciato/ dormire, un giorno, abbandonato all'erbe". Le parole "assai meglio mi parli" potrebbero scorrere quasi inascoltate, in quanto conosciamo bene la sensibilità dei poeti incline ad umanizzare ogni cosa, dagli animali alle piante fino agli oggetti inanimati. Eppure quel testo mi ha colpito, e forse non a caso, perché in quei giorni avevo iniziato a leggere con interesse il romanzo di fantascienza di Enzo Guidi Novy Mir.

       Questo libro sembra prendere le mosse da quella letteratura novecentesca che ha al centro la figura dell’inetto, incapace di realizzare le sue velleità siano esse letterarie o amorose, immerso in continui ed asfissianti autoinganni mentali. In questo caso, tuttavia, Riccardo Bruni, alterego dell’autore, incarna un inetto del tutto atipico: nella sua autobiografia immaginaria riesce a superare se stesso, senza nulla togliere alla propria problematica complessità. Anzi, proprio le caratteristiche nevrotiche della sua personalità, incapace di integrarsi fino in fondo nel mondo degli uomini, diventano la carta vincente per meritare il “premio” che rappresenta al contempo la prospettiva di una nuova vita come singolo e di un nuovo mondo per la collettività.

         Riccardo sembra un prolungamento ulteriore della parabola dell’inetto sveviano e se Zeno, protagonista dell’ultimo romanzo dell’autore triestino, andava fiero della sua guarigione da malato cronico -guarigione ironicamente frutto di un successo commerciale ancora ampiamente ancorato al mondo degli ordigni costruiti dagli uomini, capaci di disintegrare l’umanità stessa con tutti i suoi germi patogeni, come prospettato nella famosa chiusa apocalittica de La coscienza di Zeno- Riccardo può sperimentare la possibilità di una rigenerazione, di un oltreumano, uscendo dalla propria coscienza e divenendo co-scienza, una esperienza che sa unire fantascienza a realtà in nome di una sensibilità condivisa che appartiene a tutti gli organismi viventi.

      Il romanzo può diventare dunque un viaggio nel tempo che trasporta in un futuro dal sapore di un ancestrale ritorno alle origini sulla scia di una “nostalgia vegetale” come definita da Cioran nella citazione presente all’inizio del libro: è come se in ognuno pulsasse forte la parte vibrazionale della propria pre-evoluzione che ci imparenta alle piante in modo indissolubile.

     Se l’inetto tradizionale, con la sua propensione ad una inazione contemplativa, risulta tagliato fuori dalla società capitalistica incentrata sull’efficienza in nome di un frenetico profitto, adesso diviene il prescelto, perché la sua “esistenza da vegetale”, prima vissuta come emblema di una passività colpevole, secondo un modo di dire svalutante, è il mezzo che gli consente di sperimentare l’eccezionale, una nuova via per rifondare un nuovo mondo e una pace possibile. L’"inetto vegetale" va oltre la sensibilità tipica dei poeti e dei predicatori, la cui fantasia non sembra poggiare su verità razionalmente determinate, per assumere una vera e propria coscienza vegetale, che si esprime in una sorta di linguaggio prebabelico dell’armonia incondizionata, della compartecipazione totale con la vita che pulsa in quelle creature che rendono possibile l’ossigenazione del pianeta e la nostra stessa sopravvivenza.

      Recuperare questa coscienza è come sperimentare un nuovo Eden, simboleggiato in un fisico e metafisico “infinitissimo piacere perdurante orgasmo”: in questo senso, la pagina della Genesi in cui Adamo ed Eva sono cacciati dal Paradiso terrestre con la conseguente affermazione nel mondo del dolore e della logica della sopraffazione potrebbe davvero essere legato al “mangiare il frutto dell’albero della conoscenza”, rappresentazione icastica della superbia dell’uomo che crede di poter sfruttare la natura a suo piacimento senza ascoltare il linguaggio profondo e la saggezza che proviene da essa.

     

                                 Enzo Guidi. Foto di Gianni Quilici                               

        Enzo Guidi, in questo pur breve libro-viaggio, riesce a fondere la sensibilità dei poeti e dei santi capaci di cogliere le sollecitazioni offerte dalle piante, attribuendo ad esse caratteristiche umane, con la prospettiva con cui attualmente studiosi come Stefano Mancuso stanno lavorando. Lasciando l’ottica antropocentrica che vuol vedere le piante “come se fossero animali menomati”, secondo quanto appunto afferma Mancuso ne “L’incredibile viaggio delle piante”, vegetalizzare l’uomo sarebbe la nuova frontiera dell’umano in un panismo che va oltre l’esaltata ebbrezza superomistica dannunziana ed oltre l’esplorazione ai confini dei sensi di un veggente poeta maledetto, ma possibilità esperienziale con valore scientifico, operata in supertecnologici laboratori.

       E questo nuovo mondo che Guidi prospetta trova perfetto rispecchiamento nel nuovo stile letterario, originale nella sua spontaneità espressiva, frutto della commistione di generi e di letture che si fondono in modo armonico. Uno stile da chiacchierata limpida e fluente che colpisce per la straordinaria coerenza tra il contenuto autobiografico romanzato ed i mezzi espressivi con cui esso viene comunicato al lettore, un lettore che spesso si sente più spettatore-ascoltatore che semplicemente lettore. Il narratore diventa davvero l’uomo-Guidi autentico seppure personaggio, esaltato delle proprie frustrazioni e frustrato delle proprie esaltazioni, un Don Chisciotte che diventa cavaliere paradossalmente accettando di togliersi l’armatura in una spogliazione che dà valore anche alle sue continue lotte con i mulini a vento.

       Dal romanzo novecentesco di scavo psicologico, fatto di monologhi interiori, si torna a tratti all’antica confessione attraverso il dialogo, come nel Secretum petrarchesco, in cui un personaggio interroga il protagonista, spingendolo a rivedere il suo passato. Il grottesco pirandelliano che si respira nell’eccezionalità di un viaggio che ha del tragicomico, coniugato al kafkiano di una esperienza spaesante e perturbante “di una metamorfosi dopo un processo”, non cancella il bisogno di un fiabesco primitivo, di “un paese delle meraviglie botaniche” come si legge nel testo. Non è un caso che venga chiamata “bara di Biancaneve” una delle ultime fasi dell’esperienza: fiaba non è idealizzazione di un fantastico di principi azzurri ma è superamento di paure sulla scorta del sogno.

      Dal complesso l’autore è come se avvertisse il bisogno di un ritorno al semplice di un’immaginazione non strutturata, prelogica come quella che potrebbe galleggiare nella mente ondosa di un bambino prima della piena grammaticalizzazione del suo linguaggio.

       Si scopre dunque anche un “fanciullino”, capace di stupore, che nel momento stesso in cui vuole disfarsi del romantico (si pensi al bisogno di cancellare il messaggio affettuoso ricevuto da Ivanka) lo crea per l’ansia di infinito che pare dilatare quasi in ogni pagina. Gli interminati spazi, i sovrumani silenzi, la profondissima quiete leopardiani hanno una loro corrispondenza nella quantità di superlativi presenti nel testo fin dall’inizio: la siepe ed il colle costruiti dall’uomo con le invenzioni alienanti, che in nome del progresso spesso lo strozzano, diventano il trampolino di lancio verso lo sconcerto, verso il sensazionale, non più tuttavia concepito come sterile solipsismo di una mente in cerca della propria via di fuga, ma come “immaginazione costruttiva”, una strada per tutti, dove l’impossibile può divenire possibilità e pace. Dal distopico del Nuovo Mondo di Aldous Huxley ad una utopia del possibile.

      Riccardo non parla con le piante come faceva ad esempio il Piccolo Principe nell’indimenticabile dialogo con la rosa su che cosa sia veramente l’amore, egli arriva a “parlare le piante”. Non è strano che nelle pagine conclusive si assista ad una sorta di “flusso di coscienza vegetale” che rivela all’uomo una massima di saggezza immersa nel fluire incessante delle altre parole. Si legge: “la stessa libertà è un bisogno che non si deve conoscere, c’è già tutta la sostanza”. L’unica libertà possibile si trova nel non sentirne mai il bisogno. La coscienza vegetale ci insegna quello che Gesù già riconosceva nei gigli dei campi così spontaneamente belli senza alcuna pena né preoccupazione; la capacità di adattamento delle piante nella loro presunta passività diviene una delle forme più elaborate e organizzate di altruismo solidale pre-etico: vivo e la mia vita è vita anche per gli animali.

       Sarà dunque davvero possibile in futuro recuperare la nostra coscienza vegetale? Se davvero ciò che si può realizzare deve essere prima concepito nell’immaginazione, il protagonista Riccardo ne è stato pioniere grazie alle penna di Enzo Guidi che ha saputo mirabilmente farlo parlare.

Enzo G. Guidi. Novy Mir. Storia psicovegetale. ETS

15 giugno 2022

"La reliquia del disonore" di Massimo Capanni


di Marisa Cecchetti

       I secoli allontanano la Storia passata tanto che finisce per sfumare in leggenda. Senza dubbio è successo anche per i rapporti devastanti tra
Lucca e la cittadina di Barga, in Garfagnana, al tempo dei fatti ricostruiti e intrecciati con la fantasia nel romanzo storico di Massimo Capanni.       

 Si tratta dell’arco di tempo che va dal 1229 al 1256, al tempo dei Comuni, della Chiesa in lotta con l’Impero, quando Lucca aveva l’appoggio di Firenze nel tentativo di assoggettare Barga, importante centro viario ed economico. Pisa, nemica di Lucca, era schierata dalla parte di Barga insieme al resto della Garfagnana, anch’essa minacciata dalle truppe
lucchesi.

       Sono tempi di cieca violenza e di volontà di conquista - in ciò
tragicamente simili a quelli che stiamo vivendo -, di ignoranza oscura e di
superstizione, quando intorno alla reliquia di un sant’uomo, anche uno
straccio strappato al suo vestito, cresce una forma di fede cieca, assoluta,
salvifica, fino ad apparire fanatismo. La ricerca e la scienza sono in
sospetto di stregoneria, tanto più se praticate da una donna.      

        Gli strumenti d’assalto di una città erano le catapulte, le frecce incendiarie,
gli arieti per sfondare le porte; gli aggrediti si difendevano dall’alto delle
mura con pietre, frecce, olio bollente rovesciato addosso agli assalitori.
Come in tutti gli assedi di ogni momento storico, la resistenza dentro le
mura era legata ai rifornimenti alimentari. Si dovevano curare i feriti, si
dovevano ottenere tregue per la sepoltura dei morti.

        La reliquia del disonore recupera tutti questi elementi legandoli alla vita
dei protagonisti, alle loro imprese eroiche, alla menzogna, alla passione
amorosa, all’affetto, alla cieca violenza, ma anche all’onestà che si può
trovare sugli opposti versanti.

        La passione nasce tra Beldie, “una venere stupenda e sfrontata” capace di
sentire l’avvicinarsi di un pericolo, figlia del cerusico tenuto in sospetto di
stregoneria, e il capitano d’armi Lando di Totone Lemmi Cattaneo, conte
di Gragno e di Palodina.

       Il cerusico Arrigo ha scoperto delle polveri misteriose capaci di portare
uno stato di torpore e di depressione in chi le inala, ma non è profeta in
patria. La cieca soldataglia ha come suo rappresentante Guglielmo, feroce
e inquieto, talora attraversato da un sottile timore di un ignoto castigo.
Alfeo è il vice comandante di Barga, avido, invidioso, spione, capace di
passare con disinvoltura da uno schieramento all’altro, senza rispetto per
nessuno, nemmeno per una donna.

       Il vescovo di Lucca Obizzone incarna il potere temporale della Chiesa,
pronto ad agire in armi per espandere i domini, anche contro le linee del
Papa, allora Gregorio IX.

        La libertà è comunque il primo bene da difendere: “La nostra voglia di
libertà non può essere dominata e grande è la nostra determinazione nel
voler riaffermare la giustizia e la pace. Chi insidia la nostra terra dovrà
sapere che non ci piegheremo, non arretreremo mai e ci ribelleremo ad
ogni sopruso”.

       Ma qual è la reliquia del disonore? È un pezzetto del bastone di San
Cristoforo, protettore di Barga, quello a cui si appoggiava mentre
trasportava sulle spalle Cristo bambino attraverso un fiume.
Intorno al furto della reliquia – garanzia di sicurezza per i barghigiani- in
una notte buia in cui i ladri sacrileghi mettono a fuoco la Pieve di Loppia,
si sviluppa questa storia, con un intreccio molto fitto che coinvolge il
lettore, con estese e ripetute riflessioni che accompagnano i fatti,
sorprendenti tuttavia data la cultura modesta dei tempi.

       Nell’infuriare dell’assedio, nell’attesa sfibrante di rinforzi, in mezzo a tutto
quel sangue versato, ai tradimenti, alle separazioni, alle sofferenze, il
paesaggio regala sempre un attimo di respiro: “In quel momento, alzando
lo sguardo, non poté fare a meno di incontrare la linea dei monti che
dominava la valle. Vide le splendide montagne, le colline, i prati e i boschi
che iniziavano a rianimarsi dalla stretta dell’inverno andando a incontrare
la primavera, con i suoi colori che predispongono il cuore a pensieri di
bellezza e speranza”. E sottolinea il forte legame dello scrittore con la sua
terra.

 Massimo Capanni, La reliquia del disonore, Tralerighe libri, Andrea
Gianasi Editore, pag. 284, € 18,00

13 giugno 2022

"L'amico armeno" di Andreï Makine

 

di Marigabri

“Capii che le nostre vite scorrevano continuamente sull’orlo dell’abisso e che, con un semplice gesto, potevamo aiutare l’altro, trattenerlo dal precipitare, salvarlo.”
          Siberia, anni Settanta. A tredicianni il narratore conosce Vardan, ragazzino armeno debole e malaticcio che possiede però una luce particolare: intelligenza e cuore lo proteggono dalla violenza dei bulli del quartiere, lo distinguono dalla massa opaca dei coetanei spavaldi e ottusi.
 
          Andreï (perché questa è una storia vera) ne è subito conquistato. Da suo difensore contro i compagni prepotenti ne diventa l’amico e in un certo senso l’allievo. (“Mi ha insegnato a essere chi non ero”, esordisce questo racconto, così intimo e toccante).
 
          Così il ragazzino allevato in orfanotrofio, che ha imparato a sue spese ad applicare il darwinismo sociale nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, conosce il contesto di emarginazione in cui Vardan vive, il cosiddetto regno degli Armeni: poche famiglie di sopravvissuti ora deportati in Siberia, che mantengono vive le loro usanze e soprattutto la memoria degli antenati, brutalmente cancellati dalla faccia della Terra. Un ambiente deprivato dove però le persone hanno conservato intatto il loro senso di dignità e anche una inconsueta, esotica gentilezza.
          
        L’amicizia con il ragazzino filosofo insegnerà all’autore, Andreï Makine, che si può vivere coltivando l’autonomia di giudizio, senza conformarsi al luogo comune. Pensando -ad esempio- che il cielo non è poi così lontano, ma comincia appena sopra i nostri piedi e che un essere umano è davvero tale solo se è capace di empatia verso la sofferenza altrui.
 
         “Nella nostra giovinezza eravamo abituati a pensare in maniera sommaria e superficiale, dividendo l’umanità in classi, in razze, in popolazioni di ricchi o di poveri e facendo la differenza tra le società che avanzavano verso un futuro radioso e quelle, retrograde, che si frapponevano a quel luminoso progresso. Ciò che diceva Vardan andava molto aldilà di quel gioco di antitesi sociali. La disgrazia e l’abiezione di un essere rendevano inaccettabile tutto il formicaio umano. Sì,tutto.”
 
          L’insegnamento di quel fragile e brillante adolescente ancora oggi accompagna Andreï . E accompagnerà di certo anche chi ne legge il racconto.
 
Andreï  Makine. L'amico armeno. La nave di Teseo.

08 giugno 2022

Fushimi Inari di Martina Benedetti

 


                   Le magie del Fushimi Inari

di Luciano Luciani

        Romanzo d’esordio per Martina Benedetti, massese, infermiera di terapia intensiva: un nome ancora poco noto al grande pubblico, mentre nel marzo 2020, è diventato popolarissimo il selfie di denuncia che ha proposto al pubblico dei social il suo viso, segnato dai dispositivi di sicurezza anti Covid-19 e dalla fatica per i turni di lavoro massacranti.  

       Ma, oltre a questa bruciante esperienza di vita, cosa ha da raccontarci ancora Martina? Per esempio, una storia d’amore, ambientata nella nostra contemporaneità tra una Lei e un Lui che più diversi non potrebbero essere… Siamo a New York e Sophia Turner, figlia di un ricco magnate americano delle costruzioni con forti interessi nella carta stampata, lavora svogliatamente nella redazione di “Wiews”. Bella, ricca, arrogante, senza alcuna motivazione ideale, pratica un giornalismo tra il pettegolo e il finanziario più per hobby che per amore della verità: una trumpiana perfetta. Di tutt’altra pasta Dave Williams, che, invece, scrive su “Expose”, una combattiva testata liberal: innamorato della verità, penna affilata e affidabile, il giovane redattore non ha esitato a rischiare spesso anche la vita per amore di un’informazione senza padroni. Li avvicina e li mette l’una contro l’altro, il caso di un senatore repubblicano, autorevole figura dell’establishment conservatore, accusato di violenza sessuale nei confronti di una giovane cameriera d’albergo: una vicenda che li vede schierati su due linee interpretative diverse e contrarie. Insomma, sembrerebbe la consueta commediola sentimentale a cui Hollywood ci ha abituato da tempi immemorabili: i due protagonisti, contrastando e polemizzando tra loro, finiranno per conoscersi meglio, apprezzarsi e innamorarsi. 

        L’autrice, però, convinta che le cose intorno a noi, anche le più banali, nascondano una realtà più profonda dove il tempo e lo spazio abitabili perdano di senso, evita fastidiosi effetti di déjà vu e spiazza i Lettori con una originale trovata: Sophia e Dave, infatti, godranno della straordinaria possibilità di conoscere, dall’interno, le reciproche esistenze in tutte le loro complicatezze e sfaccettature passate e presenti: infelicità, generosità e miserie, contraddizioni e coerenze… Uno strano incantesimo: se poi tale interazione prodigiosa si stabilisce sui millenari scenari di Kyoto, l’antica capitale giapponese, complice un biglietto della fortuna trovato dentro un dolcetto nipponico, in un ristorantino che prima c’era e poi non c’è più, allora abbiamo ben più di un tocco d’esotismo che, si sa, in una relazione magica non guasta mai. Strane coincidenze del destino porteranno i nostri due eroi protagonisti, fianco a fianco, presso il Fushimi Inari, il grande santuario sulle alture di Kyoto, la città più bella del mondo secondo alcuni, fino al riconoscimento del legame particolare che li unisce e alla scoperta di una versione migliore di se stessi.

       Una storia d’amore e di speranza. Sentimenti che resistono anche quando tutto sembra congiurare contro di essi, il cui avvicendarsi tiene il Lettore con gli occhi incollati alla pagina per seguirne gli sviluppi. Cosa sarà della passione nata tra i due giovani giornalisti? E come finirà il processo all’onnipotente senatore della destra americana? Amore e verità possono andare d’accordo? Scritta in un buon linguaggio di comunicazione e nonostante talune ingenuità proprie di un’autrice esordiente, la vicenda prende il Lettore che non l’abbandono sino all’ultima pagina. E per un’opera prima è senz’altro un buon inizio.

Martina Benedetti,  

Fushimi Inari

collana Battitore libero, Giovane Holden

  edizioni Viareggio (Lu),

 2022, pp. 216, 

Euro 14,00

 

06 giugno 2022

"Il sogno di Schroder" di Amity Gaige

 

di Marigabri

Immagino che sentissi il bisogno di una vita che fosse in mio potere correggere. Se avessi accettato semplicemente la vita numero uno, la mia prima vita, ne avrei probabilmente rispettato i limiti. Avrei vissuto in maniera quieta, quasi privo di sogni. Mi sarei sforzato di credere che una vita triste e sommessa fosse una vita degna. Io invece sognavo. Decorai tutte le stanze del mio passato con i piaceri che saccheggiavo altrove.”

         È così che Erik Schroeder, fuggito a cinque anni da una cupa Berlino Ovest prigioniera del Muro, con la mano stretta a un padre taciturno e senza avere mai più notizie di una madre relegata per sempre all’incanto dell’infanzia, è così che Erik Schroeder, approdato in America, nella mitica terra delle infinite opportunità, diventa Eric Kennedy e come tale si immagina una vita nuova, non solo presente e futura ma anche passata.

        “Io posso dire solo che eravamo nel 1984. Allora ci si poteva iscrivere alla previdenza sociale per posta. Le banche dati non esistevano. La carta di credito ce l’avevano solo i ricchi. Le ultime volontà venivano conservate in una cassetta di sicurezza, insieme ai soldi arrotolati a formare un cilindro corto e tozzo. Non esistevano le tecnologie dell’onniscienza, che del resto nessuno voleva. Eri chi dicevi di essere. E io ero Eric Kennedy.”

      Assimilarsi alle schiere dei perfetti ragazzi americani, acquistare una dizione ineccepibile, seppellire ogni ricordo della vecchia vita, separarsi drasticamente dal triste e silenzioso padre, dimenticare ogni remoto dolore e costruire una identità nuova sul solco di una ferita rimossa sarà l’obiettivo di Erik fino a quando ogni invenzione diventerà così credibile da sembrare pura e semplice verità, fino a quando al mondo resterà soltanto Eric, unico costruttore della propria storia.

       “Sapevo che quello che stavo facendo era sbagliato. Ma molte cose sbagliate erano state fatte a me. E a volte bisogna fare delle cose sbagliate per realizzare ciò che è giusto.”

      Come è facile immaginare le cose non andranno come Eric aveva vagheggiato.

      Questo racconto, infatti, è la lunga lettera dal carcere che il protagonista scrive all’amata e perduta moglie Laura per raccontare la sua storia, per spiegare le sue ragioni. Una intensa, dettagliata dichiarazione di impossibile amore.

       In passato Eric aveva riflettuto a lungo sulla “pausologia”, cercando di elaborare una filosofia delle pause dalla comunicazione verbale. Ora il silenzio lo avvolge e lo costituisce, coronando con l’esperienza quell’affascinante teoria dell’assenza.

      E mentre avidamente lo ascoltiamo non possiamo che comprenderlo. Anche se sappiamo che ha torto, torto marcio accidenti, non possiamo evitare di sentire la vibrazione del suo dolore, non possiamo che essere dalla sua parte.

      Perché Amity Gaige, che gli ha dato voce e consistenza, è brava, straordinariamente brava.

Amity Gaige.  Il sogno di Schroder.  Einaudi