30 giugno 2014

"Sesso, potere, cultura nelle Donzelline rinascimentali" di Luciano Luciani



 

di Cristiana Vettori

“Il lato oscuro della storia”  potrebbe essere il sottotitolo del libro appena uscito per le edizioni ETS, Le donzelline – Donne d’amore nell’Italia rinascimentale di Luciano Luciani.

Il libro, ci dice l’Autore, nasce da un fortuito incontro con la biografia di una poetessa rinascimentale che dell’arte del sesso aveva fatto la propria principale attività, appena nobilitata, sembra, da un parallelo esercizio dell’arte letteraria nella quale, però, non si mostrò tuttavia all’altezza della prima. In contemporanea, le rivelazioni sulle esuberanze di un nostro ex ex ex premier: dunque la storia si ripete, o meglio Nihil sub sole novi, è l’osservazione che affiora spontanea alla mente dell’Autore, insieme con il desiderio di approfondire un argomento spesso taciuto e volutamente dimenticato, e invece interessante nella storia del costume e della vita quotidiana dei secoli passati.
E dunque Luciani passa in rassegna vari usi e costumi dell’erotismo cinquecentesco, a partire da quelli che si praticavano nelle cosiddette stufe, ovvero i bagni pubblici, ufficialmente stabilimenti termali, che godevano di una fama equivoca ed erano gestiti da professioniste del sesso ormai troppo anziane per esercitare la professione attiva: ne riconobbe la funzione come luoghi di convegni amorosi già Boccaccio nel Decamerone, nella novella in cui si racconta la storia di Iancofiore, sagace avventuriera ciciliana, e Salabaetto, ingenuo mercante fiorentino di pannilana.

Al lupanare, o ad altri luoghi simili sia pure coperti da un velo d’ipocrisia, come appunto le stufe, si riconosceva comunque un’importante utilità sociale, come quella di porre un vincolo alla violenza contro le donne e un freno ad una sregolata attività sessuale considerata peccaminosa anche all’interno del matrimonio se non finalizzata alla procreazione.

La stessa Chiesa cattolica, pur contraria ad ogni manifestazione sessuale, che era considerata immorale e viziosa, tollerava in qualche misura il sesso mercenario, riconoscendo la funzione di male minore alla prostituzione e alle sue protagoniste, soprattutto se concentrate nel lupanare, regolato e controllato.

Gli uomini di Chiesa del resto non erano estranei ai richiami della carne e al vizio della lussuria tanto che la maggior parte di loro non rinunciava a ricorrere ai servizi delle cortigiane, come ricordano i cronisti dell’epoca: non per niente nella Roma rinascimentale, grazie alla presenza di molti celibi nella città sede della corte pontificia (oltre il 60%), la prostituzione era un’attività fiorente e prospera. Accanto a Roma, anche Firenze  e Venezia, potevano farsi vanto di un simile florido commercio, che Luciani ci fa conoscere con una ben documentata analisi delle fonti, quali cronache, detti e storie popolari, epistole, opere letterarie. Non mancano approfondimenti e interessanti notazioni sul resto d’Italia: Genova, che obbligava le prostitute a vestirsi di giallo per distinguersi dalle donne per bene; Viterbo, che conobbe il primo tentativo di regolamentazione delle prostituzione nel XIII secolo; Perugia, che aveva istituito una tassa per sostenere le spese del postribolo; Lucca, a cui va probabilmente il primato di avere istituzionalizzato la prostituzione dopo la terribile pestilenza del 1348; Pistoia, in cui il lupanare era concesso all’incanto e aveva sede in luoghi diversi a discrezione dell’appaltatore.

Ma chi erano le donzelline del Rinascimento? Alcune di loro, quelle frequentate da letterati e uomini colti dell’epoca, le cosiddette cortigiane oneste, secondo la definizione che ne diede Giovanni Burcardo, maestro di cerimonie di Alessandro VI Borgia, erano raffinate ed eleganti tanto nel vestire quanto nella conversazione: una di loro, secondo la descrizione che ne fece l’Aretino, conosceva a memoria Petrarca e Boccaccio “e infiniti e bei versi latini di Virgilio e d’Orazio e d’Ovidio e di mille altri autori”.

Luciani si sofferma a raccontare le vicende umane di tre delle più famose e celebrate “donne di piacere” dell’epoca: Tullia d’Aragona, bellissima incantatrice grazie all’aspetto fisico, alla voce morbida e ben intonata, e alla capacità di fare versi, che riuscì a strappare la lode di “vera regina” perfino a una lingua sferzante come quella dell’Aretino; Veronica Franco, autrice di uno dei rari canzonieri femminili del Cinquecento, animatrice del più raffinato salotto letterario di Venezia, più volte ritratta dal Tintoretto; Imperia, la più famosa cortigiana del Rinascimento romano, morta suicida perché innamorata di un nobile che non poteva sposare in quanto l’uomo era già legittimamente coniugato.

Accanto a queste cortigiane di alto livello sociale e intellettuale, un esercito di donne del popolo – lavandaie, cucitrici, tessitrici, fantesche, ambulanti – che non riuscivano a vivere del loro lavoro e cercavano clienti tra gli strati più infimi della popolazione per integrare i loro miseri guadagni, denominate le prostitute “da candela” in quanto indicavano la durata della loro prestazione con una tacca incisa nella cera, che corrispondeva a mezz’ora circa. 

La storia della prostituzione in età rinascimentale che Luciani ci racconta con dovizia di riferimenti letterari (facendoci scoprire tra l’altro come Niccolò Machiavelli fosse, oltre che il fondatore della scienza politica, anche un insaziabile frequentatore di bordelli) conferma, se ce ne fosse bisogno, la soggezione femminile al potere e al desiderio dell’uomo, sia nelle classi colte che in quelle popolari: e le vicende delle donne di piacere, anche quando non si concludono tragicamente secondo una delle più diffuse credenze dell’epoca, hanno, nel migliore dei casi, connotazioni tristi e malinconiche.

Alla fine, questo esteso e peculiare commercio fu sopraffatto definitivamente dalla diffusione del “mal francese”. Originaria del Nuovo Mondo, propagatasi in tutta Europa dapprima grazie ai  marinai, poi ai soldati degli innumerevoli conflitti che insanguinavano il vecchio continente, la nuova peste del XVI secolo prese il nome di sifilide da  un’opera del medico umanista Gerolamo Fracastoro, intitolata Syphilis sive de morbo gallico libri tres, in cui il protagonista, un giovane pastore di nome Sifilo, viene punito con questa nuova orrenda malattia per aver offeso il dio Apollo.

La diffusione della sifilide, che colpì tutti gli strati della popolazione  e all’inizio soprattutto le fasce più ricche e benestanti, determinò l’idea della malattia come punizione divina, mentre crebbe l’insofferenza verso la figura della prostituta che fu sempre più oggetto di misure vessatorie e discriminanti.

Lo spirito della Controriforma fece il resto: in ogni campo del sapere e del costume si dispiegò l’offensiva della cultura cattolica. Luciani tratta con un vero e proprio pathos la decadenza della grande stagione culturale del Rinascimento italiano sotto i colpi dell’Inquisizione e della diffusione del cattolicesimo tridentino. E per le “donzelline” il destino era segnato: “nella ‘casa delle ragazze’ si installò durevolmente il boia”, scrive Luciani citando J. Rossiaud. E così l’Europa fu intossicata per oltre due secoli da cacciatori di streghe, di eretici e lussuriosi, che per la coscienza europea dell’epoca appartenevano allo stesso mondo sacrilego e peccaminoso.

Un libro, dunque, di grande interesse ed anche di profonda umanità, quello di Luciani, in cui le vicende scandalose e dimenticate delle donzelline del Cinquecento vengono presentate sapientemente nel loro intreccio con la storia politica e del costume, senza moralismi, ma semmai restituendo dignità a persone e personaggi, all’insegna di quel detto che l’Autore stesso ricorda all’inizio del libro: homo sum: nihil humani a me alienum puto.

 
Luciano Luciani, Le donzelline Donne d’amore nell’Italia rinascimentale, collana Obliqui, Edizioni ETS, Pisa 2014, pp. 130. Euro 12,00


29 giugno 2014

"Quaderno proibito" di Alba de Céspedes



di Camilla Palandri

Era domenica e il tabaccaio non voleva vendermi il quaderno, rammento. Mi disse:”E’ proibito.” Allora fui colta da un desiderio irrefrenabile di possederlo, sperando che in esso avrei potuto esaurire senza colpa il mio segreto desiderio di essere ancora Valeria. Ma da allora invece è incominciata la mia inquietudine…..”

Inizia con l’acquisto di in quaderno nero, di quelli lucidi e spessi come si usavano a scuola, il processo di autoanalisi di Valeria, una quarantenne borghese, sposata, con figli. 

 Siamo agli inizi degli anni ’50 e  la narrazione si sviluppa in un arco ristretto di tempo da novembre a maggio , ma attraverso le annotazioni sul diario, pur in un breve periodo, Valeria scopre  gradualmente la discrepanza fra la  sua vita esteriore incanalata dentro confini stereotipati  e quella interiore più ricca, variegata e piena di desideri inespressi.
Il diario riporta fatti di vita quotidiana della protagonista che si divide fra la famiglia, composta dal marito Michele e  i due figli grandi, Riccardo e Mirella, ed il lavoro in ufficio. Lavoro  inteso come sostegno al misero bilancio familiare, quindi dovere e non autorealizzazione.
La sua è una vita tranquilla e senza eventi di rilievo ,non ritenuta dalla stessa  tanto importante da poter essere raccontata, ma la scrittura opera una sorta di trasformazione . “……Invece, da quando per caso, ho cominciato a tenere un diario, mi pare di scoprire che una parola, un accento, possono essere altrettanto importanti, o anche più, dei fatti che siamo abituati a considerare tali….”

Valeria libera lentamente attraverso le pagine del quaderno la propria interiorità, comincia a dubitare, a rivedere i propri pensieri, a lasciar emergere la parte più profonda e repressa.
Il quaderno è vissuto con senso di colpa dalla narratrice, come del resto tutto ciò che esula dal ruolo imposto di moglie e madre.
 E’ lo strumento attraverso il quale ella prende consapevolezza di sé e questa consapevolezza è collegata al senso del  peccato, perciò viene nascosto  accuratamente e costantemente perché sfugga alla possibilità di essere ritrovato dai familiari.
Nello stesso tempo scrivere diventa un momento liberatorio, uno spazio personale molto ricercato in cui dedicarsi completamente alla  propria persona spesso compressa nei  ruoli familiari . “E’ strano: la nostra vita intima è ciò che più conta per ognuno di noi eppure dobbiamo sempre fingere di viverla senza quasi avvedersene, con disumana sicurezza.”
Con il tempo il diario si arricchisce di particolari, la vita intima viene sempre più scandagliata con occhio analitico e impietoso e l’insoddisfazione e la frustrazione emergono in tutta la loro potenza. “Sempre di più mi convinco che l’inquietudine si è impossessata di me dal giorno in cui ho comperato questo quaderno: in esso sembra nascosto uno spirito malvagio, il diavolo.”

Valeria entra in contatto con l’altra parte di sé e guarda la sua vita con “altri occhi”,oltre il velo dell’apparenza e della consuetudine ,le certezze rassicuranti fino ad allora nutrite cadono e tutto diventa relativo “…allo stesso tempo buono e cattivo, giusto e o ingiusto….”.
 Nel ritratto di vita familiare che viene delineato si percepiscono  sullo sfondo il contesto sociale, i condizionamenti morali dell’epoca, il ruolo ancora difficile della donna  legato all’immagine di moglie e madre, il potere e le attrattive esercitate dal denaro e l’influsso del consumismo nascente.

La decisione finale di bruciare il quaderno è il segno della rinuncia di Valeria a vivere una vita diversa affermando il proprio sé, la chiusura di una parentesi che le ha fatto intravvedere anche nuove possibilità a livello affettivo nella storia con Guido, il datore di lavoro innamorato di lei.
E’ la sua accettazione rassegnata alla propria condizione della quale ha pur preso pienamente coscienza.
Sarà Mirella, la giovane figlia a rompere in modo anticonformista gli schemi consueti, legandosi ad un uomo sposato, senza pensare al vincolo del matrimonio e affermando la propria indipendenza attraverso il lavoro inteso come autorealizzazione.
La sua scelta rappresenta il passaggio ad una nuova fase, un mondo nuovo che si intravede e  anche per questo sarà a lungo osteggiata dalla madre, inchiodata dai propri condizionamenti.
Alla fine ne riceverà il consenso perché  in fondo rappresenta anche la materializzazione  di ciò che lei stessa si è negata .

Alba de Céspedes. Quaderno proibito. Mondadori

27 giugno 2014

Note per un collasso mentale” di Giuseppe Isgrò




di Riccardo Dalle Luche
 
Al teatro On\Off di via mac Mahon a Milano è andata in scena per una settimana una libera trasposizione del testo letterariamente più ambizioso e creativo di J.G.Ballard, cioè la raccolta di sardonici miniracconti surrealisti tardomoderni, ma profeticamente post-moderni, parzialmente articolati tra di loro, popolati di cifrati indizi autobiografici e di una serie infinita di osservazioni sociologiche ed estetiche mai banali, uscita col titolo di "The atrocity exhibition".
Secondo la poetica dell'Inner Space, corrente fondata da Ballard nel fermento avanguardistico anglosassone anni '60, nella mente di un molteplice personaggio maschile,
Traven/Travis/Trabert/Talbot/Tallis, attorniato da molteplici quando anonime figure femminili (Signora Travis, Catherine Austen, Karen Novotny etc.), le immagini filtrate dai media dei principali avvenimenti della storia americana e non solo dagli anni '40 alla fine dei '60 (dal lancio delle bombe atomiche all'assassinio dei Kennedy, passando per i campi di concentramento, il Vietnam, le morti automobilistiche di Jayne Mansfield e James Dean e la morte "morbida" di Marilyn Monroe) si mescolano agli avvenimenti privati nel contesto di un non ben definito ospedale neuropsichiatrico.

Come scrisse magistralmente Antonio Caronia, che a suo tempo ha mirabilmente curato l'edizione italiana del testo ballardiano, ed a cui la compagnia dedica un ricordo affettuoso facendogli citare in video una frase della presentazione di Burroughs, "questa scrittura (...) pare un nastro di Moebius e ci fa passare dalla psiche alla storia senza che ci accorgiamo di aver cambiato faccia della superficie".

Si tratta, in fondo, dell'assunto base di ogni letteratura surrealista, cui qui si aggiungono sfumature joyciane per il prevalere nel testo “automatico” degli aspetti sensopercettivi immediati, soprattutto visivi, con i loro problematici riflessi nella dimensione emotiva e affettiva del protagonista. "The atrocity exhibition", come molta altra produzione "pseudofantascientifica" di Ballard, è un testo profetico sotto molti aspetti e, con lo sguardo di oggi, si può dire che la mente di Tra ven/Travis/Trabert/Talbot anticipa quella che è divenuta la mente connessa perennemente al web di molti di noi e, soprattutto, quella dei nostri figli, prima generazione
fenotipicamente pura della mutazione neurale cui ripetutamente ha alluso decenni addietro lo scrittore inglese.

Se il cinema, per il suo potere di ricreare universi plurisensoriali nei quali si fondono i mondi interiori ed esteriori (anzi a ben vedere nel cinema questo accade sempre, perchè è parte integrante dell'esperienza della visione), ha potuto affrontare più volte
con un discreto successo i testi ballardiani (la prima volta con l'algido e plumbeo capolavoro del canadese Cronenberg, "Crash"), e lo stesso "The atrocity exhibition"  è stato trasposto nel 2001 dall'americano Jonathan Weiss, l'impresa di trasportarlo sulle tavole di un palcoscenico ha richiesto notevoli dosi di coraggio e creatività, se non di incoscienza.

L'impianto scenico scelto da Giuseppe Isgro' con la collaborazione di Francesca Marianna e di Antonio Caronia, nell'ultimo periodo della sua vita, prevede due corpi-voci attoriali, i bravissimi Andrea Berrettoni e Francesca Frigoli (a quest'ultima va una particolare menzione per la straordinaria presenza scenica), accompagnati da una ininterrotta, stridente colonna sonora che riecheggia quella di Howard Shore per Crash
(chitarre suonate a mano e ad arco da una magica Alessandra Novaga), sotto luci quasi perennemente rosse e con uno schermo su cui scorrono, a mo' di basso continuo, nebulose immagini perlopiù pornografiche.

Gli attori recitano alle lettera frammenti di "The atrocity...",  senza fare alcuna distinzione tra la narrazione e le note aggiunte da Ballard nell'edizione americana del '90. Queste ultime, necessarie per rendere comprensibili molti riferimenti, spesso misteriosamente seppelliti nella storia americana degli anni quaranta-sessanta e nelle vicende personali di Ballard, trasformano il libro in una parodia scientifica, una forma peraltro già evidente nel testo base per l'uso continuo, come guida concettuale, di termini anatomo-fisiologici e "neuroscientifici", come si direbbe oggi. Le vicende narrate dai frammenti titolati che compongono i vari capitoli sembrano del resto ambientate in un misterioso ambiente medico-psichiatrico nel quale le prime atrocità esposte sono i dipinti dei pazienti, e nel quale imperversano infermiere e medici, soprattutto lo psichiatra Dr.Nathan. Bisogna ricordare che Ballard è stato studente di medicina, prima di optare per la letteratura.

Nella sua scelta dei testi Isgro' predilige i principali passi legati al celebre assunto ballardiano che "la scienza è l'ultimo stadio della pornografia, un'attività analitica il cui scopo principale è quello di isolare gli oggetti o gli eventi dal loro contesto spaziale e temporale".

In questo senso l'ampio uso della pornografia si fa metafora di un modo di essere dell'uomo post-moderno, scomposto nella sua identità non solo dalla molteplicità ma anche dalla frammentazione degli elementi costitutivi del proprio corpo sessuato. I due attori sono così costretti ad un lavoro sul proprio stesso corpo, disarticolato, straniato, ridotto a marionetta meccanica, in ogni caso autonomo rispetto alla globalita' della esperienza soggettiva, che in Ballard non si identifica con quella "interiore".

Sul palcoscenico come nel testo il centro dello spettacolo è l’elencazione delle componenti del "kit del sesso" nominato Karen Novotny, costruito da Talbert, come surrogato di corpo femminile ricomponibile a piacimento per svolgere ogni sorta di immaginario atto sessuale con donne feticizzate e ricomponibili a piacimento: "1) batuffolo di pelo pubico 2) una maschera da viso di latex 3) sei bocche staccabili 4) un insieme di sorrisi 5) una coppia di seni, col capezzolo sinistro segnato da una piccola ulcera (...)" . (Sarebbe interessante oggi riscrivere l’elenco in versione femminile!)

Restano invece sullo sfondo altre ossessioni degli universi ballardiani, come quelle dei corpi frantumati negli incidenti stradali e quelli martorizzati dagli eventi bellici, la rivisitazione ossessiva dell'omicidio di J.F. Kennedy e, soprattutto, non emerge bene dalla messa in scena, il nesso profondo che questo mondo frantumato dalle distruzioni, dalle oscenità e dai processi mediatici di iconizzazione delle celebrità morte precocemente in modo violento, produce nelle menti dei malati che come un coro circondano Traven... e sulla mente di Traven stesso: quel nesso benefico postulato da Ballard tra l'immaginazione di una sessualità non convenzionale, attivata dagli eventi traumatici, dagli spazi architettonici, dagli apparati feticistici, e la "morte dell'affetto, la scomparsa della sensibilità". "Travers, per esempio, " - commenta con la solita lucidità il dr. Nathan- "ha creato tutta una serie di nuove deviazioni sessuali di carattere completamente concettuale, proprio per tentare di superare questa morte dell'affetto. Per certi versi lui è il primo dei nuovi naif, il doganiere Rousseau delle perversioni sessuali."

Se qualcosa si può rimproverare a questa temeraria e virtuosistica trasposizione teatrale è quindi la rinuncia alla dialettica tra creatività letteraria e scientifico- rimuginativa di Ballard, che dà forma al suo immaginario impedendogli, come talora avviene in
scena, di perdersi in un caos puramente enunciativo e declamativo.

 Ma si tratta forse solo della percezione soggettiva di chi scrive, che di professione fa il medico, e, come il dr. Nathan del testo, ha sempre la necessita' di essere rassicurato da modelli razionali e interpretativi.

Note per un collasso mentale
Una partitura per voci, corpi, chitarra, live electronics e altro
liberamente ispirato all'opera di J.G.Ballard
 Phoebe Zeitgeist Teatro
 Regia, drammaturgia, luci, scena Giuseppe Isgro'
 con Andrea Berrettoni (voce, corpo, organetto)
Francesca Frigoli (voce, corpo, flauto traverso)
Alessandra Novaga (chitarre


15 giugno 2014

"Un’ occhiatina a San Pietro e altre fughe" di Enzo Guidi




di Luciano Luciani

Rari, si contano sulle dita di una mano, e quindi ancora più preziosi, i libri di Enzo Guidi. Al lontano 1977 risale il celeberrimo Carconia, volume collettaneo, a cui Guidi partecipò con piglio di protagonista. É poi è necessario attendere un quarto di secolo per ritrovare una sua pubblicazione: la Breve storia di “Lucca beat”, narrazione storicamente documentata e circostanziata di una tessera, provinciale ma significativa, del vasto mosaico, ancora in gran parte da comporre, dell’insorgenza delle giovani generazioni degli anni sessanta e settanta, contro gli assetti sociali, culturali e politici di un troppo lungo dopoguerra.

Nel 2006 esce Dalmatica, romanzo che ruota attorno al tema del viaggio: nel futuro e nel passato; attraverso territori geografici poco noti e viaggio come fuga e salvezza.

Pochi libri pubblicati, ma, in compenso, tanta scrittura, rifluita, anche se solo in parte, in quelle laboriose officine della letteratura che sono state e sono ancora oggi le riviste di cultura: “La Rassegna Lucchese”, “La linea dell’occhio”, “Il Grandevetro”, “Erba d’Arno”, “L’immaginazione”: luoghi importanti di elaborazione, di esercizi di stile, di confronto tra esperienze diverse. E ora questo Occhiatina a San Pietro e altre fughe, trenta racconti, più brevi che lunghi ma non sempre, ordinati secondo il titolo in ordine alfabetico. Tutti, tranne il primo: il più strutturato e il più lungo, che nomina l’intera raccolta, quindi in posizione privilegiata, a cui evidentemente l’Autore assegna un posto di rilievo circa l’indicazione al lettore del cosa dire e del come dirlo, ovvero la sua poetica.

Titolo intriso d’ironia, Occhiatina a San Pietro, è desunto dal parlato quotidiano toscano, che ama spesso scivolare verso i diminuitivi-vezzeggiativi, e che ci appare vistosamente incongruo rispetto alla vastità e complessità della cattolica basilica romana, così carica di storia, di spiritualità, di potere.

Solo due improvvidi possono pensare di visitare San Pietro con “un’occhiatina” e tali sono davvero Ruby (Rubino) e Frankie (Francesco), due ancor giovani border line di provincia, cultori delle pubblicazioni pornografiche, del vino, della musica dura; qualche periodo di permanenza a Maggiano il primo, qualche fissa paranoica, il secondo. Insomma, due personaggi dediti alle modeste trasgressioni che la provincia italiana alla metà degli anni settanta offriva, consentiva e tollerava.

Anche in questa storia c’è un viaggio, a Roma, per verificare la veridicità di un sogno/visione di Frankie: sarà vero che “tutti quelli morti prima di noi, li tengono a Roma? Li tiene il papa nei sotterranei di San Pietro?” Questa la motivazione per la sgangherata spedizione dei nostri due comici spaventati guerrieri: un vagabondaggio in Cinquecento, mangiadischi a palla (siamo, non a caso ,nella seconda metà degli anni settanta) e tanto vino e tanta birra; un viaggio a suo modo di scoperta e di conoscenza che riserverà non poche sorprese ai nostri inetti antieroi e soprattutto si concluderà con la percezione che tutto è fuori posto e sbagliato, che tutto è peccato e che non rimanga altro da fare che arrendersi a “Loro”, un potere assoluto e totalizzante che detiene il mistero della vita e della morte. L’occhiatina a San Pietro si conclude, dunque, con una sconfitta, metafora di un fallimento più largo, generazionale ed esistenziale insieme: la società, la storia, la propria vita, soprattutto la propria vita, non si possono cambiare.

La raccolta ci fornisce anche alcune utili  informazioni intorno al suo Autore e alla sua poetica: Guidi è, e non solo anagraficamente, un figlio del secolo scorso, o meglio della sua seconda metà e, come tanti dei suoi coetanei, non ha ancora accettato e rielaborato il trauma dell’improvvisa accelerazione della Storia, del mondo, della società intorno a lui, in cui si è trovato coinvolto a partire dall’adolescenza e nutre una grande nostalgia per il “mondo di ieri”; è cresciuto a cinema (tanto cinema, ne sono intrise la sue pagine!) e libri; libri, quindi letteratura, tanta letteratura, di tutti i tipi: alta, bassa, così così, colta e popolare, raffinata e plebea. Tra le letterature alte, Guidi nutre un’ammirazione sfrenata per la tedesca, è tanatofobo, e quella della morte non è la sua unica, anche se principale, paura: a questa si aggiunge anche quella di un mondo ipertecnologicizzato, con tutte le sue ricadute tiranniche e paternalistiche; non ama la TV, (il nuovo oppio dei popoli), il calcio e tutti i relativi chiacchiericci di fondo.

Ora, mescolate tutti questi ingredienti e aggiungetene ancora un paio: una spietata sincerità nel raccontare, non solo come eravamo e come siamo diventati, ma come eravamo e come siamo davvero dentro; una capacità non comune di narrare attraverso la parola scritta, che sembra trovare quasi naturalmente (una naturalezza, però, frutto di lavoro, di pazienza, di esercizio, di fatica sulla pagina) il passo, il ritmo, la pausa giusti, con, in più, una personalissima, originale dote nel trascorrere dal comico al tragico, dall’ordinario all’insolito, dal triviale al forbito.

Il risultato finale è dato da questi trenta racconti imbevuti di un umore nero, mai fine a se stesso, ma sempre teso alla domanda, all’introspezione: sul senso dell’esistenza; sulla la disarmonia tra valori assoluti e la nostra mediocrità; sul passato, non tutto da buttare, e un presente sempre più insoddisfacente…

Le pagine più felici? Oltre al racconto iniziale, quelle relative al mondo infantile (Carne di cobra e, soprattutto, Una buca.), di cui l’Autore si rivela acuto, perspicace indagatore e conoscitore e di cui sa raccontare ossessioni e crudeltà, perplessità e paure. E poi tutti i corposi lacerti lucchesi: Lucca, la città odiosamata, ricca di storia e di storie, i suoi cinema, i suoi bar, le sue edicole… Piccola città di provincia non particolarmente propizia, anzi spesso cattiva, eppure luogo imprescindibile per trarre l’ispirazione con cui mettere in scena l’alienazione dell’uomo contemporaneo, la crisi, l’angoscia, la solitudine, l’impossibilità di ogni comunicazione. Un vero e proprio teatro dell’assurdo e questa città ne è il palcoscenico ideale, a ogni racconto corrisponde un atto, una scena, un quadro… 

Enzo Guidi, Occhiatina a San Pietro e altre fughe, illustrazioni di Antonio Possenti, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2014, pp. 176, Euro 13,00

06 giugno 2014

"The Wake” di Eugene Smith




di Gianni Quilici

Vedendo questa foto di Eugene Smith mi sono chiesto:
“Perché è una grande foto, una di quelle foto che potrebbero rientrare in una galleria antologica sulle più grandi foto del ‘900?”

Immediatamente ho pensato per la qualità espressiva del dolore umano con cui esso viene rappresentato. Dico qualità più ancora che profondità, perché colpisce la dignità, la semplicità che nasce dal rapporto fra l’uomo morto e le donne che gli fanno corona. Ed è un dolore che vive nei volti delle donne raccolte in una veglia funebre  verso l’uomo disteso, il volto statuario che conserva tuttavia un’espressione in bilico tra l’esserci-non esserci, come se forse dormisse, gli occhi chiusi, la bocca stretta, le lunghe mani incrociate.

Ed è un dolore –quello delle donne- oltre che dignitoso, differenziato. Un dolore chiuso e concentrato dentro di sé, dove spiccano tre volti: la donna con la testa poggiata sul braccio che questo dolore sembra drammaticamente guardarlo, la donna in alto fuori-dentro da questa sorta di cerchio raccolto, con lo sguardo che corre dritto sul volto dell’uomo; e infine, al centro e centrale, il biancore grazioso e  indefinibile, come se ad altro pensasse, del volto della donna più giovane.

Ma c’è, evidente, un altro elemento, che da formale diventa fortemente espressivo: il rapporto cromatico tra bianco e nero. L’atmosfera buia della stanza, i vestiti e il velo con il copricapo neri mettono in evidenza, scolpiscono i volti e, in certi casi, le mani delle donne e dell’uomo morto, tanto da risultare ad uno sguardo insistito quasi astratti.

E’ una fotografia comunque realistica, dove la realtà si sposa, in qualche misura, con la grande pittura. Ogni elemento sembra al suo posto, perfetto, come se fosse pensato, immaginato e “lavorato” e non colto in un attimo, in uno scatto.

Eugene Smith. The Wake, da Spanish Village. 1951.
    

   

"Il canto della falena: il recto e il verso dei corps morcelé" di Alex Folla

















Nel mondo meraviglioso e magico  della pittura la materia
segue sempre le oscillazioni dello spirito, così che questa
decade si sfrolla e assume l’aspetto torbido delle sostanze
impure, allorquando quello perde forza e profondità; aumenta
invece di bellezza, e brilla e si complica sapientemente nel suo
ordito, quando lo spirito s’innalza, e della vita e del mondo
abbraccia una parte più vasta, e più profondamente s’addentra
nel senso eterno e ineffabilmente lirico degli esseri e delle cose.”
(G. De Chirico, Pro technica oratio) (1) 

di Davide Pugnana
               
      Alex Folla appartiene a quella rara categoria di artisti che chiedono di essere guardati. Può sembrare un paradosso, eppure fin dagli esordi - esordi ancora vicini e pulsanti per il rapido giro di anni nei quali si è consumato il suo romanzo di formazione - l’opera di Folla recava in sé il desiderio di essere verificata nello stile e nella materia; nella tenuta delle soluzioni formali; nello splendore della composizione e nei soggetti di un’iconografia rovesciata ad abbracciare l’intera tradizione, nell’intento di rivisitare, senza vezzi letterari e accademici, sia la lezione dei maestri che il repertorio dei possibili figurativi. In questo senso, Folla è pittore che ha avuto chiara da subito la cifra della sua vocazione e non possiamo cogliere fino in fondo il nucleo concettuale e stilistico dell’ultima produzione se non sondiamo con piglio sistematico le prove d’esordio.
        
     Occorre però, fin sulla soglia, delimitare il campo. Le note che seguono sono lontane dal voler restituire un quadro complessivo della ricerca pittorica di Alex Folla. Esse non sono che glosse sparse, suscettibili di ripensamenti e di ampliamenti, depositate in margine ad una produzione in fieri i cui sviluppi son lungi dal mostrarsi docili ad un immediato addomesticamento storico-critico. Ma è pur vero che, tra le buone maniere dell’interpretazione, figura quel galateo che raccomanda di aver gettato almeno uno sguardo d’insieme sull’intera produzione dell’artista.
          
       Se sfogliamo il catalogo generale di Folla e ci soffermiamo a considerare il primo tempo della sua produzione figurativa ci vengono incontro soggetti sacri e profani: scorrono negli occhi gli eroi della mitologia antica e dell’epica biblica, prevalentemente declinate al maschile. L’impressione è simile a quella che riceveremo se percorressimo il corridoio di una galleria popolata da David e da Ares, da Dioniso e da Sansone, da Cronos e da Achille; da San Giovanni Battista e da San Bartolomeo, da San Gerolamo nello studio e dal ladrone deposto. C’è in queste tele un’ostinazione ad imparare, una versatilità nell’esercizio delle tecniche (Folla pratica anche l’incisione e l’affresco) e una maestria tale da farci dimenticare la giovane età dell’artista. Ci sorprendiamo a pensare: “Ma siamo certi che si tratti di un periodo di apprendistato?” Sembra che Folla padroneggi senza sforzo i problemi di fondo con i quali ogni giovane artista figurativo si trova a dover fare i conti: il disegno del corpo e l’anatomia; l’impostazione della figura nello spazio; la resa tattile delle trasparenze del carnato e l’uso delle velature; le sottigliezze fisiognomiche nel dettato del viso e delle mani (guardiamo al rictus del Matto, alla smorfia di Cronos, agli occhi stralunati e allo spasmo delle mani nell’Idiota); i pesi compositivi della scena rispetto al senso d’insieme e al dettaglio; e ancora: la regia narrativa dei gesti e delle pose nelle quali rifluisce tutto un sistema simbolico; la tavolozza accordata sul dosaggio dei timbri caldi coi neri e i bianchi (il leitmotiv dei bellissimi rossi dei panneggi sui quali stacca la nota dei carnati); la qualità della materia pittorica. Una tela come Isacco, ad esempio, ma potremo trasceglierne altre, è un testo pittorico esemplare dell’unità di coerenza stilistica conquistata da Folla nel giro di pochi anni.
          
       Alla luce di quanto raccolto nelle prove d’esordio non è difficile isolare gli elementi di continuità che intrecciano le conquiste espressive delle opere eseguite tra il 2006 e il 2009 e le due ultime serie, Moth e Unheimlich, realizzate a cavallo tra il 2010 e il 2013. Troviamo una mappa di varianti e costanti. Smantellato l’apparato mitologico di uomini  e di eroi, ricco di riferimenti culturali e di citazioni colte; assottigliate le modulazioni neocaravaggesche, pur tuttavia risemantizzando l’ombra, come vedremo; sfilati i drappeggi rossi, tirati a far da quinta agli scorci stupendi e alle pose sforzate del San Bartolomeo o del gruppo innervato di nerborute tensioni del Sansone, Folla scarnifica la sua iconografia riducendola a pochi oggetti concentratissimi, calati in scenari nudi di cose e ridotti a umidi grembi. Così sfrondato, il “canzoniere” figurativo di Folla si impernia sopra un unico, costante, ossessivo nucleo tematico: il nudo. Fin dagli esordi, egli ha fatto del corpo umano il centro assoluto della sua pittura. Ma Folla non l’ha esplorato solo sulle tavole del Morelli o alla scuola di nudo dell’Accademia di Belle Arti, copiando il modello dal vero. Lo ha studiato come insieme di unità grammaticali minime da ricomporre in sintassi, imparando a compitare le singole parti del corpo sulla “lingua morta” della scultura(2),  sopra quelle radici greche arcaiche che prendono avvio dalla solenne fissità dei Kouroi per sdipanarsi nel teorema visivo policleteo, vero “primario del pensiero in figura”(3) senza il quale sarebbe stata impossibile l’acquisizione di armonica scioltezza e fluidità di movimento che permea le pose dell’Apoxiomenos, dell’Apollo Sauroctono, dell’Hermes con Dioniso bambino, del Diadoumenos: testi plastici ai quali Folla dedica una bellissima serie di equivalenze pittoriche.
          
                             
       Sono qui, insomma, le molle generative della sua poetica: in questo ginnasio figurativo esperito in un torno d’anni serratissimo e rimodellato sopra un materia interamente propria. L’humus che fa da letto alla recente produzione è un impasto stratificato che accoglie e fa convivere in sé più livelli: la rilettura dei modelli che Folla ha saputo imitare non da copista o “citazionista” ma fino a dimenticarsene, ossia sciogliendoli nel suo processo creativo, “investendosi del loro stile” e “mandandoli nel sangue” come affermava Canova, piegando l’assimilato alla propria personalità. Da qui, quel suo guardare a procedimenti e soluzioni espressive tradizionali senza per questo contaminarsi coi loro cascami accademici, uscendone anzi al momento giusto, per rientrarvi d’improvviso e rinnovarli. E poi: gli studi sull’ombra e la luce; il senso architettonico della figura; la tattilità e plasticità del dettato anatomico sculturale; il trattamento degli sfondi rischiarati da una tenue luce. Non manca nulla al corredo di questo pittore poco più che trentenne.
         
      Rimane fuori un’ultima questione: lo scandalo di dipingere bene,  l’essere figurativi che trascina con sé la sistematica esclusione di un certo tipo di figurazione marchiata come “anacronistica”. Essere figurativi suonava ieri, e suona tutt’oggi, come un’infamia da nascondere. Un tema sul quale è tornato più volte, negli anni e in scritti di diversa occasione, Vittorio Sgarbi. Qui vorrei ricordare soltanto un passaggio dedicato ad Hermann Albert: “Si sosteneva che non aveva più senso, alla soglie del Duemila, fare arte come l’avevano fatta Piero della Francesca e Caravaggio, che non era più tempo di antiquate mimésis, che la mentalità moderna aveva cancellato la possibilità che si potesse dipingere o scolpire per riprodurre fedelmente la natura. Si era riusciti perfino a demonizzare il ‘mestiere’, ossia l’abilità tecnica di formazione tradizionale, facendolo passare per virtuosismo vuoto e fatuo, bassa manualità artigianale da contrapporre all’alta intellettualità volutamente ‘sgrammaticata’ dell’arte d’Avanguardia. Chi voleva essere considerato artista, chi voleva essere ritenuto al passo con i tempi, doveva non essere tecnicamente preparato, doveva non saper dipingere e scolpire.(4) La posizione di Alex Folla nel quadrante dell’arte contemporanea non è lontana da quella condizione di precarietà e di bilico, di minaccia della penombra, di assenza/presenza che ancora Sgarbi descriveva mirabilmente in un saggio dal titolo Arte segreta. Artista figurativo per intima appartenenza, coraggioso e coerente nell’unire tecnica e concetto, fedele a non tradire il suo pensiero pittorico: da un lato, Folla viene idealmente ad abitare la sommersa “città sotterranea” nei cui confini si sono dati appuntamento “orgogliosi e imperturbabili, artisti di sicuro talento”, dall’altro, sembra gli sia toccato in sorte di completare quella piramide d’iceberg alla cui sommità emersa Sgarbi collocava Balthus.(5) 
        
         È solo attraversando questo retaggio fche possiamo voltare pagina e focalizzarci sulle due ultime serie pittoriche di Folla: Moth (2010) e Unheimlich (2011-2013).


II


     Immaginate, se non li conoscete nemmeno in riproduzione, corpi macerati dall’ombra, lasciati fermentare in spazi nudi come il mosto al fondo della botte, a contatto con il legno e l’umidità. Corpi gettati in un grembo arcaico, affondati in un liquore trasparente. Corpi visitati da una luce che sembra tagliarli di sguincio, da sottinsù o lateralmente, rilevandone la crudezza della carne - un proliferare di escrescenze, pieghe, cascami, nodi, piccole strozzature, bozzoli, graffiature, disseminate su tutta la complessa macchina di ossa e muscoli che si disegna sottopelle e che possiamo frugare nelle fauci della luce come fin dentro la forma ingoiata e resa innominabile dall’ombra più cruda. Quelli di Folla sono corpi che si costruiscono e insieme si corrodono, che “mostrano, nello stesso tempo, la durezza d’una pietra e la prensilità sudaticcia e repellente di una bava, d’uno sputo uscito da un violento attacco d’etisia clorofillica”(6). Corpi-albero, pelli-cortecce crivellate di minutissime asperità che il gorgo d’ombra o il pungolo della luce lenticolarmente setacciano. C’è una pazienza imbevuta di crudeltà nel ritrarre questo campionario umano senza altra consolazione che il peso della carne. Una tattilità epidermica che abbiamo quasi l’illusione di poter toccare, passandoci sopra gli occhi come fossero mani.
         
         C’è sempre, in Folla, un cercarsi del pensiero pittorico per immagini: una radice di calibrato bilanciamento tra astrazione e figurazione. In questa senso, noi possiamo guardare alle tele degli ultimi anni in balia della sensazione di girarvi attorno, come faremo in presenza di una scultura a tutto tondo. Improvvisamente sentiamo a quale grado di profondità i modelli della statuaria greca abbiano lavorato in lui. Quel campeggiare sulla tela di due o tre figure, articolate non tanto secondo la logica sequenza dei fotogrammi, come verrebbe da dire, ma valorizzando la molteplicità dei punti di vista, illuminate per esaltarne la plasticità volumetrica, ci riporta al tema del “paragone” tra la pittura e la scultura sul quale disputavano gli artisti tra manierismo e Barocco, ponendo al centro del loro interesse il dialogo tra i due linguaggi (pensiamo al celebre Nano Morgante del Bronzino).
        
        Ma questo binomio ne trascina con sé un altro che tiene conto della compresenza di due cicli e, quindi, di due visioni speculari. Per descriverne la complementarietà e la frizione, credo possa tornare utile la metafora filologica del recto e del verso, della faccia anteriore e posteriore di un foglio o di una moneta. Ebbene, sul recto si dispongono i nudi stanti visitati dalla luce che sopporta e accetta ciò che tocca, e non teme i ventri scarniti come grembiuli con pieghe di pelle spessa, né le mani sgraziate o la conta delle ossa tra i seni; scorre la luce sulle carni disperatamente irritabili, traslucide, sensibili e le impregna, le sfiora consapevole del bestiale e del divino. Ben piantati a terra e pausati dai vuoti suggeriti dal buio, donne e uomini sono tuniche d’ombra che anelano a salire verso la vietata regione luminosa. Pure strutture di carne che rinunciano all’ingombro dell’identità biografica e, nell’assenza di nomi propri, si immolano per incarnare un’idea, un simbolo. All’opposto, sul verso troviamo gli stessi corpi, lo stesso carnaio robusto o prossimo al disfacimento trafitto da campiture bianche, simili a crisalidi di calce e gesso che scalzano o tolgono respiro al buio drammatico. Qui, sebbene i corpi trattengano nel carnato qualcosa della rugosità lignea tesa eppure stremata che li ha visti macerare nel buio immemore del loro sperdimento, l’effetto è di un’invasione di bianco che penetra in quelle stesse carni per ostruirle; o per ridurle a frammento.
         
        È in questo passaggio che si genera un rovesciamento semantico. Mentre nel recto, si snoda il mondo ctonio dove le figure si offrono nella loro calda caducità, gettate in una durata della quale noi avvertiamo la fine imminente nelle scalfitture di una pelle prossima a cedere, a disfarsi, a corrompersi; all’opposto, nel verso, l’irrompere abrasivo della materia pittorica sbarra i corpi, li scheggia, suggerisce un morso cromatico che, al lavoro erosivo della temporalità, sostituisce la conservazione atemporale del ghiaccio. È la spinta del bianco sui nudi: destrutturati da graffiature e sgocciolature, gli stessi corpi sembrano soffocare: le bocche e le gole ostruite; le gambe e le spalle (s)fasciate o disturbate dalle interferenze delle colature sulla partitura anatomica; il fragile e disperato gesto delle mani, premute a spingere come ficcate dietro uno specchio congelato. In una figurazione dove, fin dagli esordi del pittore, tutti gli elementi promettevano di comporsi in unità affiorano crepe, smottamenti, fratture, a sottendere la coscienza di squarci improvvisi che possono aprirsi anche nelle costruzioni più sapienti della natura, come nel congegno del corpo umano, creando buche di silenzi, afasie del segno. Folla sembra condurci verso un’idea di pittura che intacca se stessa, sfibrandosi dall’interno, esaurendosi, oppure costruendosi a strappi, a brani, frammentata ed errante, votata alla deriva. Se nel recto della visione le immagini rispondono ad un desiderio di risarcimento, ad una caducità monumentale, nel verso questo lavorio incessante dell’umano subisce continue trasgressioni, demolizioni di verità accettate. È vero, il recto e il verso prolungano e allargano i circuiti della visione figurativa di Folla, ma, nel contempo, sono squarci nella comunicazione. Alternanza di vuoti e di pieni. Dissoluzioni e rinascite che alterano la logica discorsiva del pensiero pittorico.
          
       Questo procedere che avanza di notte in notte e di bagliore in bagliore, questa batailleana “divinazione delle rovine stupendamente attese”(7), si rispecchia anche a livello sostanziale, ossia nei titoli dei due cicli. Folla sceglie il lemma freudiano unheimlich(8), che la lingua italiana può restituire in due modi: come “il perturbante” e come “il sinistro”. Per quanto differenti, entrambe le parole gravitano nel campo semantico del disturbo e dell’interferenza: evocano il ronzio prossimo a bucare il silenzio; la chiacchiera inquietante e straniera, che incrina e capovolge ciò che nella lingua quotidiana si configura come normale. Cogliamo questo cortocircuito spiazzante in quell’anello di congiunzione tra recto e verso che sono i disegni preparatori di Folla alla serie Unheimlich. I corpi sono qui immagini che comunicano negandosi, aprendosi(9) attraverso la ferita di una lacerazione che riunisce in sé la violenza dello strappo e il consumarsi della combustione: le teste sono esplose, ignote; le braccia e le schiene slabbrate da smagliature; sul bianco dello sfondo sembrano ossidarsi iridescenze screziate di rossi, ocre, bruni, gialli. I corpi sembrano votarsi alla distruzione.          
         
       Recto e verso vengono così a formare termini precisi di una forma capace di far convivere una strana e quasi abnorme visione che ha per supporto simbolico il richiamo al mondo degli insetti. Moth, in inglese, significa falena: una specie singolare di farfalla che vive, a differenza di altri lepidotteri, nella piega notturna della sua breve e fragile esistenza. In un ordine simbolico, e, nel caso di Folla, iconografico, la falena è l’inquieta creatura che accoglie su di sé due polarità: il presagio e l’attrazione della morte e la ricerca e il possesso della luce. Come risolve in figura questa duplice pulsionalità il pittore-entomologo? Come può la rappresentazione pittorica dar corpo a un’immagine che abbia in sé la pretesa di tenere unita la lacerazione tra vita e morte, utilizzando quel minimo corpicino, vivo un’ora, che è la falena? La memoria corre al celebre testo poetico di Miss Miller, analizzato da Jung nel Il canto della falena (10). In un’unica zampata di versi a getto magmatico, la paziente di Jung fissa l’anelito estatico dell’insetto al sole, la disperata aspirazione/tensione di un corpuscolo dotato di esili ali verso un simbolo di potenza e sovranità il cui contatto d’amore è destinato, in virtù della fatale sproporzione, a rovesciarsi nella distruzione. Il volo portato dall’inquietudine erotica della falena verso la luce che irresistibilmente la chiama è destinato a non avvenire mai. La falena spinge il suo incandescente desiderio d’amore fin dentro la morte: sembra che nel suo sacrificio voglia rischiarare, anche solo per la durata di un battito d’ali, i sogni nutriti nel buio della sua crisalide. Anche le figure-falene di Folla gettate a respirare nel buio sinistro sembrano tendere al contatto con una bava di luce che le chiama da lontano, seducente nell’invasione di carezze sui corpi caduchi. Non sanno che l’accesso all’ignoto avrà il prezzo di un supplizio bianco sulla carne: il sigillo sacrificale che le trasformerà da immagini in oggetti d’amore - in quel frammento di realtà materica, di noto che, sebbene laceri il corpo e con ciò la vita, non potranno più abbandonare.     
          
        Alex Folla, io l’ho detto da quando vidi per la prima volta una sua opera, col naso a pochi centimetri dalla tela, quel pomeriggio di due anni fa alla Gestalt di Claudio, ha trovato il noto materico incapace di barare; sbucciato fino all’osso, fino al sangue, come sempre con artisti abituati a lavorare nel sottopelle dell’esistenza col furore di schegge nella carne. Il recto e il verso della pittura di Folla, Moth e Unheimlich, antropomorfizzano due momenti della vita e del canto della falena; ma, allo stesso tempo, trattengono nelle loro maglie un segreto inno alla pittura. Proprio alla sua pittura potrebbero essere intonate le parole di Miss Miller: “dopo aver ottenuto/ di captare un tuo raggio, morirò contenta,/ poiché per una volta avrò contemplato nel suo splendore perfetto/ la sorgente della bellezza, del calore e della vita.”

  Note

(1) G. De Chirico, Pro technica oratio, in Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943, Einaudi, Torino, 1985, p. 238
(2) L’espressione non rimanda all’accezione negativa della funzione illustrativa o del “già fatto” in scultura secondo l’uso di Arturo Martini; ma, al contrario, sfruttando la felice intuizione del titolo, indica l’imprescindibile tirocinio dell’artista figurativo. Nel caso di Folla può valere l’aforisma martiniano: “La sovranità di un’arte deriva  unicamente dal completo possesso dei mezzi creativi; e per mezzi creativi non s’intenda l’abilità dell’artista o i suoi strumenti di lavoro, ma il valore intrinseco di un particolare linguaggio. Ne risulta evidente la schiavitù della scultura.” (A. Martini, La scultura lingua morta e altri scritti, a cura di Elena Pontiggia, Abscondita, Milano, 2001, p.34)
(3) Il concetto di “primario del pensiero in figura” è stato elaborato da Flavio Caroli nel corso della sua ricerca storiografica e indica quell’insieme di opere-chiave, di archetipi visivi, sulle quali si è costruito l’immaginario visivo occidentale: “Ho dedicato il lavoro di tutta la mia vita al tentativo di identificare la chiavi fondamentali, i ‘primari’, del ‘pensiero in figura’ occidentale. Il ‘pensiero in figura’ coincide - sempre - con il pensiero senza aggettivi di una determinata civiltà; ne rappresenta l’aspetto che deriva dal mondo del visibile; accompagna il pensiero filosofico-scientifico, e spesso lo anticipa.” (F.Caroli, Il volto e l’anima della natura, Mondadori, Milano, 2009,  p.3)
(4) V. Sgarbi, Hermann Albert o della classicità ritrovata, Galleria Poggiali & Forconi, p.9
(5) “Così è sorta una città sotterranea, dove si sono rifugiati, orgogliosi e imperturbabili, artisti di sicuro talento, e dove giungono, come naufraghi sopra una terra insperata, alcuni temerari che non hanno piegato le vele nella direzione del vento favorevole e hanno affrontato tempesta e bonaccia per arrivare a un luogo di cui avevano sentito parlare, ma della cui esistenza non erano neppure certi fino in fondo. Si è trattato per molti, fin dalla prima generazione di questo secolo, di scavalcare le avanguardie, di attraversarle ignorandole, di riagganciarsi all’ultimo gesto della mano con il pennello o con la pietra, di ricominciare dove il percorso si era interrotto.  Per molti è stata una testarda coerenza, una polemica ragione di vita, nell’isolamento e nel silenzio; per altri, e soprattutto ora, è una dimostrazione di riscatto. C’è un intero arcipelago, ancora in buona parte sommerso o inesplorato, di cui l’unico iceberg emerso, universale e quasi sprezzante nell’affermazione di un valore non comprabile con la moneta corrente, è Balthus. Al suo fianco e nella sua direzione o nell’opposta, ma con lo stesso metodo di paziente e pensata elaborazione dell’immagine, ci sono altri, anche grandi; e non saprei dirvi dove poterli incontrare, se non nei loro studi, in qualche rara mostra: certo non nei templi consacrati all’arte.” (V.Sgarbi, Arte segreta, in La stanza dipinta. Saggi sull’arte contemporanea, Bompiani, Milano, 2012, pp.7-8)
(6) G. Testori, Grunewald, la bestemmia e il trionfo, in Grunewald, Classici dell’Arte Rizzoli, p.6
(7) “Il genio poetico non è il dono verbale (il dono verbale è necessario, poiché si tratta di parole, ma spesso fuorvia), è la divinazione delle rovine segretamente attese, affinché tante cose rapprese si disfino, si perdano, comunichino. Nulla è più raro. Quell’istinto che indovina e lo fa a colpo sicuro esige ancora da chi lo detiene, il silenzio, la solitudine: e più ispira e tanto più crudelmente isola.” (G. Bataille, Digressione sulla poesia e Marcel Proust, in L’esperienza interiore, Edizioni Dedalo, Bari, 2002, pp.195-219)
(8) “Dirò subito che l’una o l’altra via conducono allo stesso risultato: il perturbante rientra in un genere di spavento che si riferisce a cose da lungo tempo conosciute e familiari. […] La parola tedesca unheimlich ovviamente è l’opposto di heimlich e di heimisch [casalingo, familiare, nativo], ossia l’opposto di ciò che è abituale, per cui tenderemmo a dedurne che una cosa ‘perturbante’ spaventa proprio per non essere nota e consueta. […] In generale vediamo che la parola heimlich non è priva di ambiguità, appartenendo a due ordini di idee, che, anche se non contraddittorie, sono tuttavia assai diverse: da una parte significa ciò che è familiare e piacevole e, dall’altra, ciò che è nascosto e tenuto celato.” (S.Freud, Il perturbante, in appendice a Totem e tabù, introduzione di Flavio Manieri, Newton Compton Editori, Roma 1980, pp.245-250) 
(9) Sul concetto di “immagine aperta” vedi G.Didi-Huberman, L’Immagine aperta…
(10)  La falena al sole

Aspiravo a te sin dal primo risveglio della mia coscienza di vermiciattolo,
i miei sogni ti appartenevano tutti quand’ero crisalide.
Spesso miriadi della mia specie perdono la vita
contro una debole scintilla che tu hai emanata.
ancora un’ora e la mia povera vita se ne sarà andata;
ma il mio ultimo sforzo come il mio primo desiderio non avranno
altro intento che di accostarmi alla tua gloria; allora, dopo aver attenuto
di captare un tuo raggio, morirò contenta,
poiché una volta avrò contemplato nel suo splendore perfetto
la sorgente della bellezza, del calore, della vita.

(testo di Miss Miller, in C.G.Jung, Il canto della falena, in Simboli della trasformazione. Analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia, Bollati Boringhieri, Torino, 1970, p.88)



La mostra personale di Alex Folla, Lepidoptera sarà aperta dal 18 giugno al 2 luglio, a Villa Bertelli, Forte dei Marmi, via Giuseppe Mazzini 200. Presentazione mostra e catalogo, sabato 21 giugno, ore 18.

Il sito dell’artista, con opere, disegni, testi è: www.alexfolla.altervista.org