28 febbraio 2014

"Totem e tabù, una rivoluzione" di Emilio Michelotti

1 – LA RIVOLUZIONE PSICOANALITICA

La psicoanalisi ha esercitato un grande peso sulla cultura novecentesca. Ha influito in misura notevole non solo sulla psicologia ma anche sulla letteratura, sull'arte, sulla sociologia, sull'antropologia culturale, sulle scienze dell'educazione e sulla stessa filosofia, anche se Freud non era un filosofo.

Sigmund Freud nasce a Freiberg, in Moravia, da genitori ebrei, nel 1856, che si trasferiscono a Vienna nel 1860. Si laurea in medicina e, nel 1885, conosce a Parigi i terapeuti dell'ipnosi Jean-Martin Charcot e Josef Breuer.

Quest'ultimo aveva utilizzato l'ipnosi come mezzo per richiamare alla memoria avvenimenti penosi dimenticati. Con lui, Freud mise a punto il metodo catartico, consistente in una scarica emotiva che liberasse il malato dai suoi disturbi.

Procedendo autonomamente, F. arrivò a scoprire che la causa delle psiconevrosi era da ricercarsi in un conflitto fra forze psichiche inconsce, ossia operanti al di là della sfera di consapevolezza del soggetto. Fu l'atto di nascita della psicoanalisi, che si configura come una psicologia abissale o del profondo.

Nel 1910 nasce a Norimberga la “Società internazionale di psicoanalisi”, della quale Carl Gustav Jung fu il primo presidente, anche se, ben presto, lui e Adler, marcarono un forte dissenso col fondatore.


2)-INCONSCIO E SCOMPOSIZIONE DELLA PERSONALITA'

La rivoluzione parte dunque dalla scoperta che la maggior parte della vita mentale si svolge fuori della coscienza. Il conscio è solo la sua manifestazione visibile. Freud divide l'inconscio in due zone: preconscio e rimosso, che solo appropriate tecniche d'analisi possono riportare alla luce.

Nel metodo sono comprese le associazioni libere (abbandonarsi al flusso del pensiero) e il transfert (trasferire sul medico le ambivalenze di amore e odio, attrazione e repulsione).

Paul Ricoeur intitola un suo celebre saggio “Tre filosofi del sospetto: Marx, Nietzsche e Freud”. Qual è il sospetto di Freud? Che, per dirlo in parole molto semplici, quando dico “io” non posso sapere quale aspetto della mia personalità parla. L'io è tutt'altro che una semplice unità rapportabile alla coscienza. La psiche è un'unità complessa.

I luoghi della psiche (tòpoi), sono elaborati in due tempi dall'autore: il primo distingue tre sistemi: conscio, preconscio e inconscio.
La seconda “topica” viene elaborata successivamente a “Totem e Tabù” e distingue tre istanze: l'Es, l'Io e il Super-io-

L'Es è il polo pulsionale, forza impersonale e caotica. Freud ne parla come di un calderone di eccitamenti ribollenti, che costituisce la matrice originaria della psiche. L'Es “non conosce né il bene né il male, né la moralità”, ma obbedisce “all'inesorabile principio del piacere”.
Esiste al di là delle forze spazio-temporali codificate da Kant (le pulsioni rimosse vivono infatti in una sfera senza luogo né tempo) e ignora la logica, compreso il principio di non-contraddizione.

Il Super-io è ciò che comunemente si chiama “coscienza morale”, ovvero l'insieme di quelle proibizioni che ci sono state instillate nei primi anni di vita e che ci seguono in maniera anche inconsapevole “E' il successore e rappresentante dei genitori”

L'Io è la parte organizzata della personalità, che si trova a fare i conti con tre “padroni severi”: Es, Super-io e mondo esterno. Insomma, l'Io è l'istanza equilibratrice, capace di compromessi necessari. In genere riesce a padroneggiare la situazione, fornendo parziali soddisfazioni all'Es, senza violare clamorosamente gli “imperativi categorici” del Super-io.

Mi pare importante evidenziare come, se l'Es si identifica con l'inconscio, l'Io e il Super-io non coincidono col sistema conscio-preconscio (con ciò che è raggiungibile con una semplice introspezione), ma partecipano in qualche misura del sistema inconscio.

3- DESIDERIO RIMOSSO E COMPLESSO EDIPICO

La prima fase della teoria psicoanalitica s'incentra sull'analisi dei sogni , come “via regia per la conoscenza dell'inconscio”, perché essi sono “l'appagamento (camuffato) di un desiderio (rimosso)”.

In seguito l'autore scopre al fianco della centralità della sessualità l'importanza di perversioni e sublimazioni. Amplia il concetto di sessualità fino a vedervi un'energia suscettibile di dirigersi verso le mete più diverse. Denomina tale energia libido. Inutile far notare come termini entrati nell'uso comune (senza i quali quasi non riusciremmo a comunicare parte dei nostri sentimenti) siano stati coniati da Freud e dalla psicoanalisi.

Demolendo pregiudizio dopo pregiudizio, Freud respinge l'immagine del bambino come un angioletto asessuato e definisce questo un “piccolo essere perverso e polimorfo”, ossia capace di perseguire il piacere indipendentemente da scopi riproduttivi e attivando svariati organi corporei.

Connessa alla sessualità infantile è la più nota dottrina freudiana: il complesso d'Edipo, attaccamento libidico verso il genitore di sesso opposto, ostilità e gelosia verso il genitore di ugual sesso.

4- RELIGIONE E CIVILTA': TOTEM E TABU' 

A partire dal 1911 Freud si applica a un complesso lavoro di sistemazione teorica, che egli chiama metapsicologia. Il punto di partenza è dato dalle pulsioni, viste all'inizio, in sintonia con le convinzioni scientifiche del tempo, come ho detto poc'anzi, in termini energetici. E' questa la parte più controversa del suo pensiero, rielaborata continuamente. La libido, ritenuta dapprima energia esclusivamente sessuale, era il territorio di competenza dell'Id, ossia della matrice posta all'origine della personalità dalla quale si differenziano Io e Super-ego.

Ma lo studio del Narcisismo rivelò nell'Io la sede della libido. Questa pulsione è però capace di distogliersi dall'Io, tornando alle modalità originarie. Freud arrivò a questa conclusione sulla base di esperienze cliniche, le quali rivelarono anche la connessione inestricabile di libido e pulsioni distruttive.  La coazione a ripetere e lo stesso perenne riproporsi delle pulsioni, comprovano la simultanea presenza di istinti di vita e di morte. Li chiamerà Eros e Thanatos, ritornando ai miti platonici.

Questa scoperta permise di estendere l'indagine psicoanalitica alla cultura e alla società, ponendosi in contrasto netto con Jung, accusato dal maestro di “teologismo” e di “misticismo”. La connessione fra costruttività e distruttività diventa l'elemento peculiare per la comprensione del processo di civilizzazione.

“Totem e tabù”(1913) tenta una comprensione psicoanalitica delle scoperte antropologiche più recenti, rielaborate a partire dal complesso di Edipo, dell'ambivalenza emotiva delle pulsioni infantili, dei conseguenti desideri inconsci e di repressione e rimozione della libido.

L'ipotesi è che all'origine della civiltà sia da collocare il pasto totemico,   il consumo del cadavere del padre a seguito della sua uccisione ad opera dei figli. Un padre che, nell'orda primordiale, deteneva un potere assoluto sulle donne e sui figli stessi. Il rimorso per questo delitto condusse ad espiarlo mediante l'istituzione di un culto in onore del Padre ucciso e, quindi, alla sua divinizzazione.

Ciò che caratterizza il libro in modo affascinante è il parallelismo istituito fra comportamento, costumi, credenze e forme di organizzazione di popolazioni primitive (o ritenute tali) e gli oscuri processi  che dominano l'inconscio di uomini e donne del “nostro” mondo e della “nostra” epoca.

La società civile avrebbe, quindi, un'origine psichica. Nell'obbligo di unirsi sessualmente solo tra membri di clan differenti (esogamia) e nell'ambivalenza emotiva verso il totem che consacra tale obbligo, Freud riconosce due fenomeni del tutto analoghi a quelli che caratterizzano la situazione edipica della psiche infantile. L'origine delle società totemiche e dei tabù in esse prescritti va individuata nella necessità di reprimere le medesime pulsioni inconsce che turbano anche la psiche dell'uomo contemporaneo.

Poi avanza un'ipotesi sulla sopravvivenza del totemismo nella psiche infantile, sviluppando l'idea che il totem (sovente un animale) simboleggi il padre, che il bambino teme e venera allo stesso tempo.

Un atteggiamento analogo sarebbe osservabile presso tutti i popoli nei confronti del capo o del re. Tenendo conto di questa ambivalenza fra odio e rispetto, invidia e venerazione dei sudditi (figli) verso il sovrano (padre) si può risalire alla situazione preistorica da cui hanno avuto origine le organizzazioni totemiche e quindi le prime istituzioni sociali, morali e religiose dell'umanità.

Ma come si è potuti passare effettivamente dall'orda primitiva alle organizzazioni sociali? Per rispondere ci dobbiamo spostare sulla questione relativa all'origine della religione. L'animale totemico, già identificato simbolicamente con il padre, riceve un'ulteriore caratterizzazione simbolica che finisce per trasfigurarlo come Dio, vale a dire come il Padre.

L'elemento di mediazione che consente questa–decisamente ardita -serie di passaggi (dall'orda ai rituali totemici alle religioni monoteiste) è individuato nel già ricordato pasto totemico, che rievoca l'evento originario dell'intera vicenda storica: l'uccisione del padre.

Anche il cristianesimo rivela così la sua origine arcaica, esattamente nel desiderio di riconciliazione col padre offeso. Simbolo evidente della continuità tra la vicenda del sacrificio del Figlio e il primitivo pasto totemico sarebbe il sacramento dell'eucarestia, mediante cui i fratelli, nutrendosi del corpo del dio, celebrano il rito dell'espiazione per identificazione. “Il nostro sguardo” conclude Freud “persegue attraverso il trascorrere dei tempi l'identità del banchetto totemico col sacrificio animale, col sacrificio degli dèi incarnati e con la Comunione, e riconosce in tutte queste solennità la conseguenza del crimine che ha tanto oppresso gli uomini (col senso di colpa) e del quale tuttavia essi dovettero andare così superbi. Ma il sacramento cristiano è, in fondo, una nuova eliminazione del Padre, una ripetizione dell'azione da espiare”

Il vero peccato originale da cui sarebbe sorta la storia umana consisterebbe in una primordiale vicenda di morte, in un delitto compiuto sotto l'impulso di un desiderio irrefrenabile. Nel IV e ultimo capitolo questa vicenda si presenta ancora come un'ipotesi formulata a margine delle congetture darwiniane sul mito dell'orda primitiva.

Ma i temi della morte e del dolore, della violenza e dell'aggressività da quel momento continueranno ad aleggiare nella mente di Freud per tutti gli anni successivi alla pubblicazione di quest'opera centrale.
L'idea di una pulsione di morte che vanifica costantemente lo slancio delle pulsioni vitali mette fuori gioco ogni concezione finalistica. Il proposito è ormai quello di dimostrare che l'idea positivistica di sviluppo è una pura apparenza, l'effetto superficiale di una realtà che al suo fondo tende perennemente a ripetere un identico conflitto.
Con “Al di là del principio di piacere” (1920) F. fa emergere la portata sconvolgente di questa novità: non c'è antitesi fra principio di realtà e principio di piacere. Questo è solo l'espediente a cui la psiche umana ricorre per sopportare il dolore. “Non si tratta di ciò che è più gradevole ammettere o più comodo e vantaggioso per la vita, ma di ciò che può essere più vicino alla realtà misteriosa che pur esiste fuori di noi”

Quello che a noi sembra progresso non è che la tendenza della vita a regredire verso una condizione di quiete originaria, costituita da ciò che si è soliti chiamare “morte”. “La pulsione di morte non è affatto un bisogno del cuore, per me. Essa sembra soltanto un'ipotesi irrefutabile per ragioni biologiche e psicologiche”.

La crisi della coscienza europea non è stata di certo estranea alle ultime elaborazioni teoriche di Freud: l'idea di catastrofe aleggia su questa e le successive opere, nelle quali pulsioni quali la coazione a ripetere, la preminenza della libido narcisistica, di una civiltà portatrice di disagio, della funzione distruttiva del Super-io, di un esito nichilistico della civiltà umana, agiscono da protagoniste.

Freud muore nel 1939, perfettamente in tempo per vedere avverate le sue fosche previsioni quasi profetiche, nell'irrompere della barbarie nazista, nei campi di sterminio, appena fuori tempo per assistere ai massacri di una guerra di stermino, conclusa (solo come scontro armato)  dalle bombe atomiche. Eventi proseguiti nei successivi orrori di un secolo che tutti ci auguriamo, senza molte speranze, di aver messo per sempre alle spalle.

25 febbraio 2014

“Viaggio in Garfagnana: Cardoso” di Gianni Quilici



 12.30. Sulla strada.

 Luce d’un cielo
tra celeste e azzurro
con nuvolette chiare
Luce che dà calore
verso un futuro
un futuro inquietante
Allora?
Che tuttavia ci allarghi


foto gianni quilici
ore 12.40. Ponte del Diavolo
Mi appare nella strettoia 
veloce della strada
bello e fugace oltre ogni tempo
oltre ogni possibile misura

Ore 13. Cardoso (394 m., abit. 353).
Il paese è raccolto e compatto nella struttura medievale e sale su scalini tra vicoli lastricati in porfido, vasi di fiori e portali in pietra... Non un paese idilliaco come  certi villaggi della Francia o del Trentino molto curati, anzi, a volte, fin troppo.  Ci sono case abbandonate, altre trascurate, male intonacate, muri consunti o scialbi. Ma questi sono segni d’una storia, d’una civiltà agro-pastorale che un po’ conosco, povera e autentica, che tuttavia si mescola con il tempo e con i tempi nostri.
E comunque salendo fino alla chiesa, il vicolo si fa più stretto e tortuoso. Ecco un palazzo con il bel loggiato diviso da due arcate, ecco il panorama grande con la vallata del Serchio e sullo sfondo la catena degli Appennini; ecco il fianco della chiesa che ci  porta nella piazza.
La chiesa di S. Ginese del XIII secolo, rimaneggiata in epoca barocca, ha una facciata semplice con tettoia e porta nuova. Più in alto la torre campanaria, grande e merlata, antica torre di guardia sull’intera vallata, ha l’accesso precluso.
Nella piazza il monumento ai caduti; mi colpisce una lapide dedicata a un giovane caduto in Russia. Si vede nella foto di Elio Bianchi (qui acclusa) il terribile contrasto tra la bellezza candida della sua giovinezza e la morte, come disperso, nell’immensa, tragica, gelida pianura russa. Suonano beffarde le parole di motivazione” … per il bene del prossimo”. Quale prossimo? Hitler e Mussolini?

Nel paese una piazza con un bar. Due uomini anziani vestiti di scuro  stanno entrando,  parlando a voce alta, mentre una bimba esce e se ne va saltando alternativamente sui due  piedi, come se fosse felice. 
Dal terrazzino di una casa sbucano tre cani abbaiando e correndo su e giù lungo la ringhiera. Due di questi si annoiano ben presto; uno, invece, abbaia così visceralmente mostrandomi denti affilati e occhi cattivi, che mi viene da pensare  “devi essere tanto disperato… disperato di star così rinchiuso”. Lo guardo negli occhi, prima di puntargli contro l’obbiettivo fotografico e per qualche secondo anche lui mi guarda e tace. Capisco: abbaia non contro di me, io sono un simbolo. Abbaia contro la sua illibertà, contro i suoi spazi delimitati e angusti. E per associazione penso a questa  Italia e a tanti tragici italiani.






22 febbraio 2014

"Sabato" di Ian McEwan




di Caterina Donatelli

Finito di leggerlo, attendevo uno spunto per recensirlo, cercavo una suggestione, un solco dove inserire un pensiero. Intendiamoci, il romanzo è inevitabilmente scritto bene; McEwan è un rovistatore ordinato e zelante dell’uso della scrittura e incasella tutto con una precisione che in qualche caso, diventa quasi asfittica. E’ un elaboratore lucido della consistenza umana con tutte le sue intime declinazioni e in questo romanzo, le espone servendosi della voce di un neurochirurgo, della sua famiglia e sullo sfondo, di una città: Londra.  

Un giorno, un giorno solo per raccontare la vita di  Henry Perowne, attraverso avvenimenti che portano in scena le scelte, i dubbi interiori, la fragilità e i malori della società con i continui cambiamenti che modificano il microcosmo di ogni individuo. 

Sfilano così sotto agli occhi, riflessioni sulla guerra, sulla politica, sul consumismo, sul rapporto con i media: “Fa parte dei tempi, questo imperativo a sentire come vanno le cose del mondo, a unirsi alla totalità del pubblico, a una comunità fondata sull’ansia. L’abitudine è andata aumentando in questi ultimi due anni (il romanzo si colloca temporalmente due anni dopo l’Undici Settembre); certe scene mostruose e spettacolari hanno conferito un valore di portata diversa all’informazione. La possibilità che si ripetano è come un filo che tiene legati i giorni”.

Sull’amore fedele e corposo per la moglie, avvocato e punto di riferimento della sua vita; sulla musica, con un figlio chitarrista blues e naturalmente, sulla letteratura: la figlia sta per pubblicare la prima raccolta di componimenti poetici, passione ereditata da nonno, suo suocero e poeta affermato che vive in ritiro in Francia. In mezzo una partita a squasch, dopo una settimana nel reparto di neurochirurgia di un ospedale londinese dove lavora, la visita alla madre Lily, ricoverata in una clinica con la memoria frantumata, una cena familiare da preparare.

Tornano tutti i temi cari a McEwan, con l’aggiunta di una clinicizzazione dei comportamenti attraverso la visione, raziocinante e medica del protagonista che elabora continuamente le azioni in funzione della complessità del cervello e torna l’incidente, che rompe la pianificazione del quotidiano invertendone le certezze. L’imprevisto che diventa pretesto per rovesciare l’inquadratura di un’esistenza quasi perfetta è un meccanismo che lo scrittore usa spesso nei suoi romanzi, per introdurre nella narrazione un punto di rottura, indispensabile per condurci nel lato oscuro e lì si conficca come un ago, che smuove e accede a quello che c’è sotto, oltre. 

Se in “Espiazione” la lettura è stata faticosa, qui in qualche maniera, lo è ancora di più nell’ossessiva dilatazione del tempo, nella scansione di ogni pensiero, ogni azione che si dipana nello svolgimento di un sabato di programmato riposo; mentre tu apri e chiudi il libro nei giorni, il romanzo resta quasi paralizzato su una filigrana eccessiva, seppur a volte veri spiragli di ricchezza della trama per il lettore, ed anche qui, la spinta dello scrittore è stata necessaria per arrivare in fondo.

Alla fine resta il dubbio, come spesso accade quando leggo un testo tradotto; quanto ho perso oppure, quanto si è aggiunto alla mia lettura rispetto all’originale e quanto, la traduttrice Susanna Basso, ha lavorato sulla stesura riscrivendo, in buona sostanza, il libro.

La traduzione è un tema che mi appassiona; un autore come Ian McEwan certamente misura ogni parola, ogni suono di un vocabolo per renderlo così come desidera e l’inglese ha suoni e tinte differenti dall’italiano. Quanto di quei suoni, di quei colori, vengono persi in una traduzione?


Ian McEwan. Sabato. traduzione di Susanna Basso. Einaudi, 2005





21 febbraio 2014

"Inizi di poesia" di Gianni Quilici





Mi piace giocare.
E come certi personaggi dei romanzi di Nick Horbny classificare.
L'ho fatto con amici e amiche,
l'ho fatto in solitario.

Classificare non solo per giocare,
ma per selezionare,
per fare i conti
con i nostri gusti.

Classificare per non consumare,
per sedimentare una memoria labile,
se non coltivata.

Ecco “ Inizi di poesia"
non però quelli che necessariamente
 amo di più,
gli inizi di poesia secondo 
uno stile o un sentimento,
una tematica o una qualità intrinseca.

Anche per esprimere (io) una soggettività,
per aprire possibili scambi
per continuare a giocare, selezionare, memorizzare. 







 Poesia come nitidezza
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna.
                        Giacomo Leopardi

Poesia come narratività
Era di mezzo luglio. un bellissimo giorno.
Io solo, per le crepe del ghiareto salivo,
in cerca delle svolte nell'ombra, lentamente.
                                    Antonio Machado
trad. Oreste Macrì

Poesia come interrogativo
Deve il mattino sempre ritornare?
La potenza terrestre avrà mai fine?
Consuma un vano affaccendarsi il volo
celeste della notte. E mai l'offerta
segreta dell'amore
arderà in eterno?
                                   Novalis
trad. Giovanna Bemporad


Poesia come nostalgia
Sì! ora è deciso. Irrevocabilmente
ho abbandonato i miei campi nativi.
Sopra di me con il fogliame alato
più non stormiranno i pioppi.
                                             Sergèj Esènin
trad: Angelo Maria Ripellino 

Poesia come gioco apparente
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.
                       Aldo Palazzeschi


La poesia come epigramma
Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini:
ora un po’ esistete perché un po’ esiste Pasolini.
                                         Pier Paolo Pasolini


La poesia come erranza
Andavo i pugni stretti nella tasche sfondate,
Ed anche il mio pastrano diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa, ed ero il tuo fido;
quanti splendidi amori ho mai sognato allora!
                                                     Arthur Rimbaud
Trad. Ivos Margoni

Poesia come distanza
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.   
                      Eugenio Montale

Poesia come visione musicale
La nebbia a gl’irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;
                            Giosue Carducci

Poesia come essenzialità       
M’illumino
D’immenso
              Giuseppe Ungaretti

Poesia come perdita
Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne son certo:
non ci sono mai stato
              Giorgio Caproni

Poesia come dialogo apparente
Io non sono Nessuno! Tu chi sei?
Nessuno –neanche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Spargeranno la voce!
                              Emily Dickinson

Poesia  come desolazione
Aprile è il più crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.
                                   Thomas Stearns Eliot
Trad. Mario Praz   

Poesia come aforisma
Felice chi è diverso
Essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
Essendo egli comune.
                     Sandro Penna

Poesia come lugubre, notturno mistero
Un tempo –era una lugubre mezzanotte – studiavo
Stanco e triste, bizzarri codici dimenticati,
e quasi m’assopivo quando, improvviso, un colpo
udii, come un leggero bussare alla mia porta.
“Qualche visitatore che bussa alla mia porta, -
                           -mi dissi,- e nulla più”
                                          Edgar Allan Poe
Trad. Franco De Poli

Poesia come fugacità
Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol essere lieto sia
Di doman non c’è certezza
                              Lorenzo dei Medici

Poesia come maledizione
S’i fosse foco, ardere’ il mondo;
S’i’ fosse vento lo tempesterei
                                  Cecco Angiolieri

Poesia come lapidaria disillusione
Non vi fate sedurre:
non esiste ritorno.
Il giorno sta alle porte,
già è qui vento di notte.
Altro mattino non verrà.
                     Bertolt Brecht
Trad. di Franco Fortini

Poesia come erotismo
Vieni, entra e coglimi, saggiami e provami...
comprimimi discioglimi tormentami...
infiammami programmami rinnovami.
Accelera... rallenta...disorientami.
                                                Patrizia Valduga         


Poesia come dichiarazione amorosa
Maravigliosamente
un amor mi distringe
e sovenmi ad ogn’ura
                        Jacopo da Lentini

Poesia come denuncia civile
La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è diventato quotidiano. L’eroe
resta lontano dai combattimenti. Il debole
è trasferito sulla linea di fuoco.
                                   Ingeborg Bachmann
Traduz. M. T. Mandalari

Poesia come eros effimero
Ero per strada, in mezzo al clamore.
Esile e alta, in lutto, maestà di dolore,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l’orlo della sua veste sollevò con la mano.
                                    Charles Baudelaire
Trad. Giovanni Raboni


18 febbraio 2014

"Antologie letterarie vecchie e nuove". Una discussione su Face Book




Scartabellare per sollazzo, nel crepuscolo del meriggio domenicale, le vecchie antologie di storia della letteratura italiana, comparandole di poi con quelle attuali, non solo getta in un'impagabile flanerie giocata tra incontri e scoperte; ma restituisce la misura di quanto abbiamo perduto nelle "riduzioni" moderne.

 E' vero, forse i manuali di oggi (penso all'insuperato Luperini-Cataldi) hanno guadagnato in bellezza grafica (il nitore e la varietà dei caratteri tipografici e dell'impaginazione; gli specchietti intertestuali che ti suggeriscono i nessi con la filosofia e le arti sorelle; le "sintesi" a piè di pagina di quanto enucleato nel capitolo); in chiarezza comunicativa (le mappe concettuali sciorinate già bell'e pronte); in analisi testuali (nessuna antologia precedente si soffermava a mostrarti viti e bulloni, cerniere rotanti e addentellati, piedritti e giunture, dei testi antologizzati).

 E pensando al buon tempo antico tutti abbiamo sulle labbra un nome: il De Sanctis, il capolavoro manualistico per eccellenza, quel volume che in nemmeno 500 pagine ha 'svecchiato' l'imponente enciclopedismo erudito del Tiraboschi, consegnandoci il più bel romanzo mai scritto dei fatti letterari italiani. Eppure nella scia del Tiraboschi le ottime filiazioni non mancavano. 

A questo proposito cade in taglio la "Letteratura italiana" del D'Ancona-Bacci che un amico bibliotecario mi ha regalato, salvando dall'oblio del macero: sei volumi plasticamente rilegati in pelle nera, pubblicati in prima battuta nel 1892 e ristampati, con aggiunte, nel 1920. 

Mi chiedo, quando abbiamo deciso di espungere dal capitolo sulla lirica siculo-toscana e stilnovista le meste elegie dall'esilio di Gianni Alfani ("Lei pingi come gli occhi mia son morti/ per li gran colpi e forti/che ricevette tanto/ da' suoi nel mio partir, ch'or piango in canto") ? Quando quel gran pianto amoroso di Dino Frescobaldi ("Ché i miei dolenti spiriti,c he vanno/pietà caendo, che per loro è morta/ fuor della labbia sbigottita e smorta,/ partirsi vinti, e ritornar non sanno.") e le sensuali allitterazioni di Ciacco dell'Anguillaia ("Più rende aulente aulore/che non fa una fera,/ch'a nome la pantera")? Perché abbiamo deciso che, in zona fine Trecento e Quattrocento, dovessero esser tolte le pagine degli artisti? Giunto al secondo volume del D'Ancona-Bacci trovo Cennino Cennini con un brano in cui l'intonaco, le sinopie e i colori son vivi come i personaggi di una novella; questo incipiti meraviglioso dai "Commentari" del Ghiberti: "Ancora ho veduto in una temperata luce cose scolpite molto perfette e fatte con grandissima arte e diligenzia"; e alcune riflessioni di Leon Battista Alberti sull'educazione intellettuali dei fanciulli ("E chi non sa la prima cosa utile ne' fanciulli debbano essere le lettere?"). Risalendo il fiume chi si ricorda di aver visto le descrizioni delle feste fiorentine di Vespasiano da Bisticci, i sonetti di Vittoria Colonna, il ritratto burlesco che Francesco Berni fa della sua donna; la prosa di diamante di Daniello Bartoli sulla navigazione dei portoghesi nelle Indie o quella sua pagina sulle chiocciole che sembra già prefigurare Francis Ponge! Nulla sopravvive nella rigida canonizzazione delle letterature del nostro tempo. Ma, amici, non erano forse letteratura anche gli slarghi descrittivi sul Teatro Mediceo di Filippo Baldinucci e sulle palme di Lorenzo Magalotti? Ditemi, vi prego, non c'era un grado di letterarietà (come si usa dire oggi al posto di "poesia e non poesia") nell'evocazione polifonica che Ludovico Antonio Muratori dedicava alle feste e ai giochi italiani: in quei variopinti elenchi di "cantambanchi, buffoni, ballerini da corda, musici, sonatori, giocatori, istrioni ed altra simil gente, che coi loro giuochi e canzoni di e notte divertivano grandi e piccioli"? E che dire del monologo gridato "Se fossi Re!" di Anton Giulio Barrilli? E' un vero peccato che gli studenti di oggi non serbino memoria di questi autori. Perché non ristampate allora il D'Ancona- Bacci?

Caro Davide, ti sei dato la risposta da solo quando parli di nitore grafico, di intertestualita' e immediatezza di immagini dei nuovi testi. I ragazzi di oggi sono veloci e sbrigativi, hanno bisogno di sintesi e specchietti già pronti per recepire i concetti più essenziali e non amano soffermarsi sui particolari o sui cosiddetti "minori".
Certo, c'era tanta letteratura anche in loro ma si fa fatica a far digerire il grande Leopardi, ritenuto dagli studenti un depresso che non si sapeva godere la vita, figurati cosa succederebbe se gli si presentasse un "minore" o una letteratura approfondita e degna di questo nome. ...
Io insegno fa 32 anni ed ho visto assottigliarsi i contenuti sui testi anno dopo anno. Ora quelli che vanno per la maggiore sono quelli che attualizzano i contenuti e riportano i giovani al loro mondo e ai loro problemi che non sono certo la conoscenza letteraria ne' la voglia di approfondimento. Purtroppo! !!!

Io da parte mia ho sempre usato le antologie come repertorio di testi. I collegamenti gli spunti critici , persino le vicende biografiche erano opera mia , spesso distribuita in fotocopie .  Certo questo comportava un mio duro lavoro di collazione di testi , ma mi dava la libertà di comunicare i miei entusiasmi insieme alle conoscenze . Nessuna antologia mi ha mai soddisfatto .

E' un gran peccato e non lo dico per pedante necrofilia o per gusto antiquario. Lo dico perché queste storie letterarie di primo Novecento, figlie della cattedrale enciclopedica del Tiraboschi, erano (sono) in sé piccoli e preziosi scrigni portatili: apri a caso un volume del D'Ancona-Bacci e in qualsiasi punto cadi scopri una bella pagina; e la scopri soprattutto nei "minori", o meglio quelli che io chiamo gli "esclusi" dalla cosiddetta formazione del canone manualistico: un'operazione pianificata a tavolino, con tutte le epurazioni che conosciamo. Paradossalmente, una ristampa oggi dei sei volumi del D'Ancona-Bacci (come la recente "Letteratura dell'Italia unita" di Gianfranco Contini) credo farebbe un gran bene; magari non come lettura che minacci di ingobbire i quattordici o quindici anni; ma ritrovata a trenta o quaranta sono certo sarebbe fonte di sorprese, soprattutto se i volumi sono fruiti nella forma dello "zapping".

Zapping letterario. ... bellissimo! !!!! Hai ragione Davide, tu sei un buongustaio della cultura!

Quelle antologie certo che mi sarebbero piaciute così come mi piace il De Sanctis 
.
Capisco Davide, capisco Salvina e Elvira (o credo di capire). Perché amo i libri e la letteratura, perché non vorrei perdere niente di ciò che davvero comunica, perché so per esperienza che un insegnante, in qualsiasi classe di età si trovi a lavorare, deve appassionare, coinvolgere, affinare, far sentire, far ragionare, far vedere.

 Per questo la mia ipotetica antologia letteraria per la scuola sarebbe un sogno. Il sogno di intrecciare la bellezza, la profondità, il linguaggio, la storia della letteratura e affini all'adolescente (dalle medie inferiori alle superiori) per quello che è, per quello che potrebbe essere, partendo dalla constatazione che siamo in un "società liquida", di pensieri brevi, di poca memoria, banalmente visiva... non per adattarsi ad essa, ma senza "saltarla".

Amico mio grazie per essere intervenuto con queste tue parole che mi spronano a fermarmi e a meditare, ad allargare la questione anche ai livelli contestuali, extratestuali e antropologici: c'è tutta una nuova modalità di ricezione giovanile dei testi dei testi letterari che ha mutato statuto, tempo, che si adatta ad una memoria abbreviata e sembra confliggere con una sedimentazione di lunga durata quale è, o voleva essere, quella dello studio letterario; studio che si misura e a sua volta si conforma con una "parola" speciale, fabbricata per resistere al tempo e persistere nella memoria. So bene che le modellizzazioni hanno il limite di sfociare in vagheggiamenti senza costrutto, me se posso indugiarvi un momento vorrei aggiungere un pensiero. È vero che la perfetta antologia di storia letteraria non esiste e che la carne viva e pulsante delle lezioni è indomabile a qualsiasi gabbia libresca. Guai a subordinare il taglio e l'acutezza derivati da una vita di esperienza e di "collazioni" testuali alle aride linee manualistiche. 

Ho avuto una professoressa di letteratura francese che spiegava i romanzi di Balzac e Flaubert con le pagine di Marx sul denaro come generatore di senso, senza essere marxista, e con Freud e Levi-Strauss. So che Elvira faceva leggere ai suoi studenti il "Gattopardo" colmando così un'assenza del manuale; mentre altri si spingevano ad introdurre Dante con quel gioiello che è "Biondo era e bello" di Tobino. Tornando alla storia letteraria come strumento necessario, come pietra angolare di conoscenza di quanto prodotto da una civiltà, credo sia possibile un compromesso tra enciclopedismo e narrazione storica: un testo che,per intenderci, metta assieme la lenticolarità documentaria del Tiraboschi/D'Ancona-Bacci e la capacità di vigorose sintesi plastiche e di ritrattistica, di narrazione tutta "cose" e di stile del De Sanctis. Un tale anello di congiunzione è certo utopistico e fa la parte della cavalcata donchisciottesca; così come volutamente paradossale è il mio sproporzionato elogio anticrisi di una antologia del 1900. Ma la discussione ha preso proprio la piega e la profondità che avrei voluto, per i tanti temi emersi.

Ho provato( sono in pensione solo da due anni) moltissime antologie nel triennio, e in ciascuna c'era qualcosa di buono: ma mai mi sono sentita di dire: studiate da pag. tale a pag. tal'altra. Secondo me il centro è l'insegnante : il libro di testo fornisce testi (che a volte vanno integrati, comunque), e suggerimenti, ma se non c'è un input personale e non si trasmettono direttamente le proprie conoscenze e le proprie riflessioni, filtrando magari testi critici difficili, ma fondamentali, nessuna antologia è quella “giusta”.


13 febbraio 2014

"Venice, you and me..." di Eva Scatena



Venezia. Per la seconda volta mi torna in mente pensandoci. Dobbiamo venirci  più spesso - sorrido. Un angolo di magia e un angolo di fogna pieno di giappo con la nikon - adesso è digitale ma sempre Nikon - al collo. E gli americani obesi con il bollino msc sulla camicia a fiori, i russi che parlano a voce troppo alta non lo capiscono che questo posto ha un tempo tutto suo, un ritmo tutto suo, fatto di silenzio e cantilena.  E sempre più qui è una fogna di turistame, di gente che pare autistica, non ha più il senso dello spazio e del corpo e si ferma in mezzo a far la foto e chi è intorno non esiste.
Ma noi ci arriveremo un giorno, turistame o non turistame. In questa fogna miliardaria fatta di qualcosa che o lo senti o non lo senti, c’è poco da far foto, poco da comprar mascherine, questo è un mondo e c’è da stare bene attenti alle cose piccole per capirlo fuori dalle rotte  delle guide. 
Un mondo che fa anche incazzare per carità, che qui non si sbrigano mai e c’è sempre da aspettare, neanche in Africa, ma qui ci si muove a piedi, qui ci si saluta, qui il tempo è dilatato e siamo noi a sbagliare, noi che sotto i piedi abbiamo terra e non acqua e che corriamo per andare dove?
E guarda quel gondoliere come voga, guarda il remo, guarda che sembra stia dipingendo e ha un metro per parte di distanza dal muro, questo è equilibrismo a remi, questa è arte, riesci a vederlo? Chissà se la gente lo capisce quanto è difficile portare una barca grande come quella gondola mentre si bacia o fa foto sotto a Rialto.
Ci arriveremo un giorno qui, poco importa se è una follia, se questo è un punto morto. E vieni che ti faccio vedere questo pezzo di fine  di mondo che lo so che non ci sei mai stato  per davvero. Guarda solo la luce delle poche finestre accese e  senti il vento che porta l’odore del mare, in questo pezzo di mondo che sembra fatto solo dei fili per la biancheria e del rumore delle onde che fa batter le barche sull’acqua, di questa marea che adesso è così alta che quasi la tocchi con i piedi. Un limbo, un passaggio che non sai più dove sei questa notte. E non c’è un altrove che sia tanto casa come qui, stasera, con questo bicchiere di vino in una mano e questa polpetta nell’altra.
Stasera faremo l'amore guardando la Laguna, con l'acqua nelle orecchie e l'odore di legno ammuffito nel naso: non ci resta che riconoscerci  col tatto.
Che bella esperienza!
Niente foto please.
Solo sensazioni.
11 febbraio 2014 alle ore 17.40

10 febbraio 2014

"Celle Puccini. Viaggio in Mediavalle" di Gianni Quilici



12.10. Sono incerto. Per partire ho bisogno di motivarmi: di lavorare sull’immaginazione. Avvio la macchina. Sul viottolo peri disadorni e buche di acqua sporca.

12.20 Nuvole bianche e nere attorcigliate lassù alle Pizzorne. A quest’ora la domenica  c’è per strada un’aria sonnolenta che mi piace molto: poche macchine, niente camion. Di colpo esce la luce e si diffonde intorno. Sensazione velocissima d’un miracolo!

foto gianni quilici
12.30 Diecimo. Mi colpisce sempre, prendendo la strada per Pescaglia, la bellezza marmorea del campanile merlato, isolato dal paese, che si staglia alto (36 metri), contro i colori della montagna, vagamente malinconici, di un marroncino grigiognolo. A vederlo da vicino il campanile ha la bellezza, anche, dei dettagli: le bifore, le trifore, le quadrifore, le cornici marcapiano nell’insieme d’un prato verde e d’una bella casa abbandonata. La facciata della pieve romanica di Santa Maria Assunta della fine del XII-XIII secolo è disegnata con un’armonia e semplicità esemplari. Peccato che non ci sia una vera piazza, che dia unitarietà e socialità!
Il paese è deludente. Una strada stretta e asfaltata, che lo percorre in tutta la sua lunghezza con parcheggi-macchine, che si susseguono quasi ininterrottamente. C’è soltanto nel centro, affogata, la torre di Castruccio (neppure segnalata) in una piazzetta con qualche panchina.

foto gianni quilici
Ore 13. Celle Puccini ( 371 metri, 45 abitanti). La strada sale stretta con bei tornanti. Uno spiazzo della strada  l’unico parcheggio. Poggi di olivi e di viti e poi inizia la viuzza di sassi stretta tra case e qualche bel palazzo che arriva alla casa della famiglia di Giacomo Puccini (oggi museo). Mi piace immaginare Puccini che viene quassù, tra contadini e pastori, artista di fama e borghese di classe… Sul museo, chiuso, una lapide. Leggo: “A ricordare che in questa casa retaggio dei suoi padri frequentemente dimorò Giacomo Puccini celebrato artefice di musica immortale il comune fascista di Pescaglia per desiderio del popolo decretò e pose. XXVI ottobre MCMXXIV “. Vuota retorica populista dietro cui si cela violenza e ignoranza.
Qui il paese finisce, iniziano i campi. Mi si affianca un uomo di mezza età, capelli brizzolati, pullover celeste. “Se vuole” mi dice “c’è un viottolo che porta ad uno spiazzo qui vicino, da cui si vedono la vallata e i paesi vicini”. Vado. A una prima vista niente di esaltante, però individuare dei paesi da lontano dà il piacere di una ricognizione geografica.  Si parla del paese. “Si figuri” mi dice “c’era addirittura l’idea di fare una specie di anfiteatro davanti al museo di Puccini, abbattendo il muro di fronte. Se ne parlava tempo fa, ora sembra ritornata in auge. Ora, a parte che mancano i soldi, ma poi che senso avrebbe abbattere quei muri, che hanno una storia. Per fare cosa? Un anfiteatro!”

foto gianni quilici
Ore 14.10 Gello (481 metri, 132 abitanti) è poco più avanti. Da lontano  si vede il campanile alto e svettante, parente povero di quello di Diecimo: merlato e con bifore, ma senza la stessa lucentezza e ricchezza.  Una strada asfaltata con platani nudi, un ruscello che scende vertiginosamente scrosciando  verso la valle. All’ingresso del paese,  la strada si fa più stretta e sassosa. Qualche bel palazzo, qualche scalinata che sale, panni bianchi e arancioni stesi alla luce del vento, un ragazzo che ci saluta, un gatto che ti studia allarmato pronto a scappare.

Ore 14.50 La strada scende tortuosa verso la valle della Pedogna.  Cerco una sintesi, mentre guido veloce. Penso che per capire, anche semplicemente paesi piccoli come quelli, bisogna viverci. Posso dire soltanto che ho visto pochissima gente. Faccio il conto: 3 a Diecimo, 6 a Celle, 2 a Gello... a parte qualcuno in macchina.      

     

"La banda Sacco" di Andrea Camilleri



di  Camilla Palandri

Una storia vera tanto incredibile da confermare come talvolta la realtà superi la fantasia.
Siamo nella Sicilia degli anni Venti a Raffadali ,paese rurale in provincia di Agrigento .
I Sacco sono una famiglia di contadini che ha costruito la propria agiatezza sul lavoro onesto . “E’ gente conosciuta per l’onestà, la serietà, il rispetto assoluto della parola data.”
“Ma c’era la mafia”;

“Al principio degli anni venti del Novecento Raffadali è completamente cummanata dalla mafia che si è in tutto e per tutto sostituita allo Stato;”
Mafia che interviene in tutte le questioni che riguardano la vita dei privati cittadini, dalle “sciarratine familiari” ai furti di bestiame e denaro, ai matrimoni , all’acquisto di terreni o all’apertura di negozi;
“Il capomafia ‘nzumma si portava appresso diverse facci: ora s’ammostrava un pater familias bono e accomodante, ora un mediatore accorto e capaci, ora un judice severo, cchiù spisso un boia feroci. Ma resta sempre e comunqui un esattore spietato;”
La vita dei Sacco inizia a cambiare da quando Luigi, il padre, si rifiuta di pagare il “pizzo”, osando così ribellarsi alla mafia locale. Il suo atto di coraggio segnerà l’inizio di una lunga serie di sfortunate vicissitudini per la sua famiglia.
Luigi Sacco non si limita ad opporsi alla mafia, ma segnala anche l’abuso rivolgendosi al maresciallo dei carabinieri. Il militare “lo talia strammato “perché nessuno fino ad allora aveva mai osato presentare denuncia ed il suo atteggiamento, perplesso e impacciato , rivela tutta l’impotenza delle forze dell’ordine che non riescono a garantire la tranquillità dei cittadini facendo rispettare le leggi, ma si adeguano ai soprusi.
Luigi fa la denuncia una prima volta ed altre ancora, perché non si arrende alla prepotenza e pagherà il suo ostinato rifiuto di sottomettersi con la vita. Verrà infatti ucciso in un agguato mentre sta andando a cavallo ad Aragona a trovare il figlio Vanni incarcerato e condannato per “rapina a mano armata”grazie ad una falsa testimonianza.
La mafia in questa occasione abbandona il suo “codice d’onore”che impone il rispetto di anziani, donne e bambini.
Ai figli che vogliono sapere com’è morto il padre , il medico risponderà “per cause naturali”.
Da questo momento è un susseguirsi di eventi incalzanti che vedono coinvolti i quattro fratelli Sacco, Salvatore, Girolamo, Giovanni e Alfonso costretti , loro malgrado, a difendersi da soli e da tutti.
Dalla mafia e dalle forze dell’ordine, dai paesani complici e dai traditori, tra tentativi di omicidio, accuse infondate e false testimonianze.
I Sacco dopo il ritiro del regolare porto d’armi da parte dei carabinieri con un atto coercitivo,non potendo più provvedere alla propria incolumità, sono costretti ad abbandonare le proprietà , le famiglie e il lavoro per darsi alla latitanza sulle montagne come dei veri banditi.
Il peggio arriverà quando la mafia comincerà a servirsi di un'arma molto più potente : la legge. Sarà infatti un avvocato opportunista e senza scrupoli, punto di riferimento dei mafiosi del posto, a imbrogliare le carte, trasformando i persecutori in perseguitati e viceversa.
Il piano perverso riesce in pieno.
Il regime fascista ed il “prefetto di ferro” Cesare Mori , che era stato mandato da Mussolini proprio per sradicare la mafia per questioni di potere politico, completeranno l’opera.
Perché i Sacco, oltre ad opporsi alla mafia, hanno un altro grosso difetto: sono socialisti da sempre, quindi vanno presi .
Così nasce “la banda Sacco”.
Da persone integerrime i quattro fratelli vengono trasformati ,attraverso un’abile campagna di diffamazione , in un gruppo di pericolosi briganti ai quali vengono ascritti reati ed omicidi . Costretti a fuggire continuamente, inseguiti da mafiosi e carabinieri, imputati di tutto l'imputabile anche senza prove, si fa il deserto intorno a loro, tutti i parenti e gli amici vengono arrestati, persino l'anziana madre .
Poi è il loro turno: braccati dei carabinieri vengono feriti, arrestati , accusati di quattro omicidi e condannati all’ergastolo.
I Sacco girano tante carceri e in alcune fanno degli incontri importanti come Umberto Terracini e Antonio Gramsci. Anche dopo la caduta del fascismo non avranno la revisione del processo e passeranno decenni prima che, su sollecitazione di Terracini stesso, i Sacco ottengano la grazia dal presidente Segni nel 1962.

Come un cantastorie Andrea Camilleri narra una complessa storia del Novecento. Le vicende sono ricostruite con cura e dovizia di particolari attraverso l’analisi di documenti ufficiali e atti giudiziari forniti all’autore da uno dei figli di Girolamo Sacco.
Quella dei fratelli Sacco è una storia tragica fatta di prevaricazioni, abusi e ingiustizie.
Una storia che lascia un profondo senso di amarezza per lo strapotere della mafia garantito dall’omertà della popolazione da un lato e dalla connivenza delle istituzioni dall’altro; mafia che non solo uccide, ma sconvolge per sempre la vita delle persone che non si piegano ai suoi soprusi.

Andrea Camilleri. La banda Sacco. Sellerio editore Palermo. Euro 13, 00