29 aprile 2013

“Documenti e Studi”, rivista dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Lucca.



di Luciano Luciani

Leggi razziali, Deportazioni e Resistenze in Lucchesia; Paesaggi di guerra; Antifascismi e Resistenze; I conti con il passato: questi gli argomenti che costituiscono la struttura del numero 34 di “Documenti e Studi”, semestrale dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca.

La prima sezione (Leggi razziali, Deportazioni e Resistenze in Lucchesia) comprende interventi di Silvia Q. Angelini, Gli ebrei in provincia di Lucca tra deportazione e salvezza 1943-1944 e Nicola del Chiaro, Nessuno al sicuro. Le conseguenze delle leggi razziali nelle carte dell’Archivio storico del Comune di Lucca (1938-1944), mentre, per gentile concessione dello studioso tedesco K. Voigt, sono riproposte le parole da lui pronunciate a Lucca il 4 aprile 2012, quando fu presentato il libro di L. Greve, Un amico a Lucca: il racconto della vicenda vissuta dall’Autore, ebreo berlinese appena ventenne, che, esule in Italia durante la Seconda guerra mondiale, fu nascosto a Lucca e salvato grazie alla rete degli Oblati del Volto Santo di Arturo Paoli e all’ebreo pisano Giorgio Nissim.

Nella sezione Paesaggi di guerra compare un’altra vicenda, ancora in gran parte sconosciuta, di accoglienza e solidarietà nei confronti di cittadini italiani di religione ebraica perseguitati per la loro fede nei durissimi anni ’43-’44 in Garfagnana: la racconta Feliciano Bechelli in Il paese di Sillico e il suo priore negli anni della guerra, una storia esemplare di “banalità del bene” praticato, senza eroismi e, fino a oggi, senza memoria, da una piccola comunità di montagna e dal suo prete. Accanto al saggio di Bechelli, Lorenzo Maffei, con Il rastrellamento di Montefegatesi. Le sorelle Blakenburg e il partigiano Barba, torna a esaminare un evento noto, il rastrellamento tedesco di Montefegatesi del 14 luglio ’44, cercando, nelle rilettura delle carte processuali e d’archivio, di illuminare di nuova luce il ruolo giocato in quella occasione da alcuni personaggi, uomini e donne, civili e partigiani, ancora immersi in una ambigua zona d’ombra.

In Antifascismi e Resistenze, Alessandra Celi con Antonio Fellini, una storia anarchica, saggia la forza di penetrazione nelle istituzioni e nella società del fascismo versiliese nella prima metà degli anni venti; in Manara Valgimigli, un socialista fuori dagli schemi, Luciano Luciani illustra i caratteri del socialismo risorgimentale che alimenta la radicata avversione al fascismo dell’illustre letterato, filologo ed educatore; Roberto Pizzi in Il fascismo e la massoneria analizza il complesso rapporto tra il fascismo-movimento prima, il fascismo-regime poi e le diverse articolazioni dell’associazione segreta.

Per I conti con il passato si segnalano: Francesca Gori, Storia,memoria, giustizia, politica internazionale: il caso della Commissione storica italo-tedesca; l’intervento pronunciato da Stefano Bucciarelli, presidente dell’Istituto, al Consiglio provinciale riunito in seduta congiunta col Consiglio comunale di Lucca in occasione del Giorno del Ricordo, quindi La sentenza di Stoccarda sulla strage di Sant’Anna di Stazzema  di Paolo Pezzino: una serie di considerazioni relative alla motivazione con cui la Procura di Stato di Stoccarda nel settembre 2012 ha archiviato il procedimento contro 17 appartenenti alle Waffen-SS, indagati per quella tragica pagina di storia.
Un nutrito gruppo di recensioni chiude l’interessante fascicolo.

“Documenti e Studi”,  rivista semestrale dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in Provincia di Lucca.  n. 34


21 aprile 2013

"Zorro" di Margaret Mazzantini


di Gianni Quilici
a volte una recensione
può essere sintetizzata,
in quattro righe.

Quando leggo spesso sottolineo.
Desiderio di trattenere. Di riempirmi
ed in fondo anche di trasfigurarmi.
Zorro l'ho abbastanza sottolineato.
Ma non sono stato conquistato dall'insieme.
Solo i giri di frase, la forza di similitudini,
la scrittura insomma, mi hanno interessato.
Ma non mi ha convinto la struttura,
che mi è sembrata abile,
ma artificiale.
L'abilità nel sublimare una vicenda,
dove all'io narrante, Zorro,
che ha scelto per disperazione la deriva sociale,
si sostituisce la scrittrice.
Abilità narrativa e buone intenzioni... false.
marzo 2005

da Zorro

"Le azzurrone sono tutte suorine giovani,

svolazzanti, straniere.
 Io poi c'ho un debole per la donna poco lavorata,
e un paio di queste azzurrone,
 almeno una, Bernadette,
scusate la bestemmia,
 me la slurperei da cima a fondo,
dalla scuffia al sandalo francescano".
                             Margaret Mazzantini

Margaret Mazzantini. Zorro. Mondadori

20 aprile 2013

"Lorenzo Lotto" di Anna Banti



di Davide Pugnana

Fingiamo, per un momento, che intorno alla vita e all’arte di Lorenzo Lotto non sia stato scritto niente. Bene. In quest’atmosfera di volontaria sospensione, lasciamo che il senso di novità della lettura ci investa in tutta la sua forza e purezza, come accade per la prima volta ai lettori del 1953: anno in cui si ebbe finalmente cognizione della personalità e dell’opera di Lorenzo Lotto. Il primo merito di Anna Banti fu quello di aver portato Lotto fuori dalle mura inaccessibili della cerchia specialistica, ripulito di tutti in luoghi comuni depositati sulla sua figura da secoli di avversità e di oscuramento. L’idea di tornare ad immergere questo pittore veneziano del Cinquecento in una fittizia “sfortuna” critica diventa, per noi lettori di oggi, fortificati da una storiografia artistica munita di raffinati strumenti, più che un gioco di straniamento quasi la necessaria disposizione mentale per cogliere, in profondità, quell’effetto di riscoperta e di battesimo che rendono il saggio di Anna Banti tra i contributi più belli mai scritti su Lorenzo Lotto.

Siamo, quindi, nel 1953. A questa data, nell’immaginario collettivo italiano, Lotto figura quale malinconico e bizzarro pittore veneziano del XVI secolo, che, inquieto e ramingo per un dramma a metà interiore per l’altra storico-sociale, vive e lavora ritirato in varie provincie: dalla prova giovanile a Recanati alle Marche e a Treviso; a Bergamo, toccando Roma per un momento poi Jesi, Venezia per un periodo e, infine, Ancona. Da quest’angolazione periferica, Lotto pareva guardare quel fermento di maestri la cui dirompente “maniera moderna”, per usare un’espressione del Vasari, sentiva irraggiungibile e quasi temeva. Ma era, soprattutto, un’ombra d’infinita lunghezza quella che tallonava il pittore in ogni sua fuga: il fantasma psichico che non gli concedeva tregua, che lo visitava ogni notte, tenendolo come animale braccato: Tiziano. Venezia, al tempo di Lotto, era sotto l’egemonia del genio di Tiziano. Tutte le committenze più illustri si raccoglievano nelle sue mani. È vero, Lotto si è trovato a cadere in un secolo di vasi di ferro e a lui la storiografia – eccezion fatta per alcuni nomi -  fino al Novecento ha guardato come ad un fragile vaso di terracotta. Da qui muove la monografia di Anna Banti: riportando alla sua giusta luce storica, e dandole stabile quanto sfaccettato baricentro, questa dimensione di subordinazione e quasi rassegnazione, che riduceva Lotto a vittima funestata da destino avverso, incrudito da una natura aggrondata e malinconica da ‘nato sotto Saturno’: quello, insomma, di un pittore dall’operato eccentrico rispetto alle grandi fucine artistiche dell’epoca - Firenze, Roma, Venezia.   

Non era la prima volta che la penna della Banti dava corpo biografico-critico a vite di artisti dimenticati, obliati, segnati da nascita e destino saturnini, oppure tenuti fuori dal canone degli spiriti maggiori. Nel 1947, sei anni prima del saggio dedicato a Lorenzo Lotto, la scrittrice aveva già pubblicato il capolavoro per il quale è conosciuta: Artemisia, romanzo-saggio incentrato sulla biografia e l’opera di Artemisia Gentileschi, la pittrice che, proprio in questi ultimi anni, con sistematico rigore alcune mostre (ricordiamo, soprattutto, quelle di Milano e Parigi nel 2012 e quella pisana, a Palazzo Blu, tutt’ora in corso) vanno riscoprendo e valorizzando in tutta la sua complessa fisionomia umana e di poetica. Come per Artemisia così per Lotto: l’intento di fondo della ricerca di Anna Banti ha la stessa radice morale, ossia dare un contributo organico capace di sollevare la figura dell’artista dall’intermittenza delle “mezze parole”. Ossia: meglio sarebbe per un artista di genio l’essere dimenticato che inserito con reticenza, dalla storia e dalla critica, in una classifica di ‘primi’ e ‘ultimi’, di ‘maggiori’ e ‘minori’. L’immaginazione e la lingua pittorica di un artista del calibro di Lotto mal sopportano le “mezze parole”, i tentennamenti e il disorientamento degli studiosi, incerti se misurarne la tenuta avvicinandolo al fuoco di Tiziano o a quello di Raffaello e Michelangelo. Quando la Banti decise di scrivere su Lotto si trovò, prima di tutto, a dover fare i conti con questo clima di sospensione. Le sue armi in campo furono il talento narrativo, accordato su una prosa tersa, intessuta di sofisticata bellezza e cadenzata musicalità, intrecciato ad acume filologico certamente perfezionato e alimentato dal quotidiano confronto con Roberto Longhi. Il risultato è un saggio monografico contraddistinto da un serrato respiro esegetico; costruito unitariamente su una trama di fatti biografici e di analisi dei testi pittorici senza crepe né smagliature erudite, sempre tenuta sul filo di pagine improntate a un puro esercizio di scavo dell’occhio, portato ora sulle pale d’altare ora sui ritratti, e trasformato, infine, in cristallina pagina scritta. Ed è in questa culla di decifrazione visiva che rivive, oggi e tanto più ai lettori del 1953, l’intera produzione di Lorenzo Lotto.

Se nessun libro dedicato alle arti visive può esser letto senza l’equivalente di un catalogo delle opere, tenuto aperto di lato, sorta di sponda figurativa utile per un’immediata verifica di quanto gli occhiali dello studioso ci vanno ricostruendo, la monografia di Anna Banti fa di quest’assenza (il libro è privo di immagini) un punto di forza. Il suo testo si regge da sé; i dipinti di Lotto sono come assimilati e ricreati in virtù di una scrittura potentemente evocativa, mimetica, lirica, a tratti persino visionaria, tipica della linea degli scrittori d’arte italiani, a partire proprio da Roberto Longhi. In forza di questo, ai dipinti il lettore può andare in un secondo tempo, a libro chiuso, con l’occhio educato a cogliere gli elementi portanti della “lingua” espressiva lottiana, e quasi fatto esperto nel riconoscere le composizioni, i guizzi di tocco, il campionario di santi, adolescenti, angeli, sposi e brani di paesaggio, come cose familiari viste da sempre.
 
In questo attraversamento, il lettore è guidato lungo una linea di ricostruzione biografica imbastita su un asse cronologico lineare, scandito per “periodi” creativi, dove le date rispecchiano geografie mutevoli, provincie, città, casate, committenze; e su questo tronco principale spiccano affondi analitici, resi in forma di ekphrasis:  vertiginose digressioni filologico-descrittive nelle quali la percezione di sguardo raggiunge strati profondi  e inediti dell’opera.   

Questo saggio ci restituisce un ritratto in piedi di Lorenzo Lotto: conosciamo le pieghe nascoste della sua vita, dagli esordi alla vecchiaia; e, in esse, saggiamo i moventi del suo ritiro ai margini della provincia e la radice del suo “esilio volontario”, ben oltre lo spaventato appartarsi dai grandi maestri; dall’interno del suo processo creativo, ripercorriamo le tappe evolutive della sua lingua pittorica, opera dopo opera, secondo una biforcazione di “generi” che la Banti articola in pale d’altare e in ritrattistica.  Ma, al contempo, su un versante non meno importante, impariamo un metodo di lettura delle opere: quel modo di saper ricreare, quasi trasformare, linee, colori, spazi prospettici, in testo verbale.

Due esempi possono chiarire alcuni meccanismi portanti del ‘metodo’ di Anna Banti. Il suo approccio visivo alle opere di Lotto segue spesso un percorso narrativo nel quale l’occhio procede dall’esterno all’interno, dal margine dove, generalmente, l’osservatore non indugia: dalla parte alta della tela lo sguardo procede, palmo a palmo, in un progressivo avvicinamento al centro, dove è collocato il fuoco compositivo della scena. In questa ottica dell’opera, fatta racconto dell’immagine, i primi elementi ad essere registrati sono gli sfondi, i dati paesistici, tutto quanto il pittore scrive sull’orizzonte lontano che traspare dietro le sue scene: il paese. Il paese profondo, “ricchissimo di rocce, di alberi, di valli, di forre […] con fronde giganti e minute, rovinosi palinsesti  di rupi desertiche, un arido torrente sassoso, ogni cosa imbalsamata di eloquente silenzio”, del San Gerolamo penitente; oppure quello che si apre oltre la loggia dell’Annunciazione, dove “fiammeggia la luce adriatica di un parco che adriatico non è, ma piuttosto romano: col suo pino a ombrello, il suo cipresso non troppo acuto, la sua pergola: la stessa che gioca e scintilla in modo diverso sui ogni tondino vitreo della finestrella: un ricordo nordico”; o, ancora, un brano di natura percorso di “correnti luminose, leggero, alitante di contrasti delicati, di consonanze rapide” o “avvampato da un brivido di tramonto” che la sintassi della pennellate rapida e larga rende ora più corsivo ora più pausato.

Un ultimo appunto significativo riguarda quella dote che Italo Calvino definiva “esattezza” e che tanto più sentiva imprescindibile nell’uso del linguaggio critico. Accanto a questa capacità di registrazione lirica del paesaggio lottesco, Anna Banti ci consegna pagine caratterizzate da un registro di scrittura di così esatta intonazione lessicale da toccare gradi altissimi di trascrizione verbale del dato pittorico. Il caso più esemplare del saggio è la nominazione lenticolare, aderente, quasi scientifica, dei dettagli della Pala di Santo Spirito.

Vale la pena isolare la citazione; leggerla come un campione testuale assoluto e paradigmatico della scrittura d’arte di Anna Banti. Poi dobbiamo alzarci e metterci davanti al quadro per diversi minuti. Poi tornare a sedersi e questa volta ad occhi chiusi farci leggere nuovamente la pagina: “Come si dipingerà, fra un secolo, un foglio di musica scartocciato e mantenuto fermo sotto una luce e un vento di temporale; o lo sciorinarsi pericolante di un inquarto affidato a un sostegno troppo fragile; la innumerevole disparità nei pèneri battuti dalla stesse luce; l’incider dell’ombra di un gomito su un’anca, di una canna sul terreno; un sole di maggio frizzante in rosa e perla sulle carni a boccio di un fantolino: ecco indicazioni da raccogliersi a una prima occhiata sulla Pala di Santo Spirito.”

Anna Banti, Lorenzo Lotto, Skira, 2011, euro 9,00 

16 aprile 2013

“Addio a Roma” di Sandra Petrignani




di Gianni Quilici

“Addio a Roma” di Sandra Petrignani mi interessava leggerlo innanzitutto per una ragione voyeuristica. Mi attira, infatti, incunearmi nella vita quotidiana di chi mi ha intrigato intellettualmente e-o creativamente.

Perché in un artista ci sono, quasi sempre, due volti: quello apparentemente reale della vita quotidiana, che sarà magari banale, ripetitivo, coatto, privo di qualsiasi fascino, se visto esteriormente; l’altro, quello sotterraneo e invisibile, della creazione, che rende espressive anche condizioni esistenziali come la noia e la nausea, un mattino o un incontro, un pensiero o l’immaginazione.

Le rende talmente espressive che può scattare il desiderio di vivere (anche noi) quella vita, anche quando questa si colloca su una frontiera limite: di ansia e di angoscia. Nasce da questa partecipazione il desiderio di conoscere chi ci sia dietro a quelle rappresentazioni: quale volto, quali stili di vita, quali amori.

Così ho letto con piacere, a prescindere da ogni giudizio valoriale, “Addio a Roma”, perché in questo libro c’è l’addio alla Roma dagli anni ’50 fino, più o meno, alla morte, nel 1975, di Pier Paolo Pasolini. E’, quindi, la Roma di Moravia e della Morante, di Pasolini e di Laura Betti, di Fellini e di Ennio Flaiano, di Arbasino e di Carlo Emilio Gadda, di Guttuso e di Palma Bucarelli, presente nella copertina con una bellissima foto. La Roma dei caffè letterari e dei pettegolezzi, delle grandi  mostre e delle dispute letterarie e artistiche, della dolce vita, degli amori e degli addii.

Sandra Petrignani ha, poi, il merito di ricostruire questo periodo con un lavoro di ricerca ammirevole, mescolando dichiarazioni e fatti storici con aneddoti raccolti di prima mano oppure inventati. 

E questo lo fa raccontando con una prosa fluida, che contiene amore verso la propria materia, privandola tuttavia di quella nostalgia, che deformando il passato, cerca di mitizzarlo, in realtà togliendo quella verità, che finisce per intristire. 

E lo fa, inoltre, creando un personaggio, Nina, che diventa il filo narrativo, la cui storia attraversa l’intero periodo, una sorta di mini-romanzo di formazione, all’interno della cronaca, con momenti di vera poesia. Un esempio? L’episodio in cui le viene sfilata di mano da un bullo di quartiere e buttata nel Tevere la rivista con le poesie di Dylan Thomas, che tanto l’avevano emozionata insieme alla musicalità della sua voce, ascoltata per caso alla radio.

E lo fa, infine, consegnandoci alcuni ritratti acuti e vivi di personaggi importanti nella storia della cultura italiana, ma meno noti, come  Roberto Bazlan e  Giorgio Manganelli,  Cristina Campo e Elémire Zolla,  Ernst Bernhard e Juan Rodolfo Wilcock. 

Sandra Petrignani. Addio a Roma. Neri Pozza. Pag. 356. Euro 16.50    

"Street artist " di Isabella Eugenia Monti




foto e commento di Isabella Eugenia Monti

Esiste nella nostra vita un desiderio estremo
di lasciare una traccia del nostro operato...
che sia scrittura o pittura..scultura o musica..
o semplicemente un pensiero..
ma di evidente forza e di insostituibile unicità
che ci identifichi e ci rassicuri della nostra esistenza...
tale da sopravvivere oltre ogni illusione...
casomai si confondesse la realtà e il sogno..
io sceglierei sempre il sogno...

09 aprile 2013

"Nostalgia" di Eshkol Nevo

di Mirta Vignatti

Anni prima degli ottimi esiti raggiunti con “La simmetria dei desideri” (Neri Pozza 2010), Nevo esordiva con questo romanzo di stupefacente maturità, dall'impianto narrativo accattivante e ricco di personaggi colti nel loro male di vivere, nelle loro crisi, nelle loro inadeguatezze e corto circuiti interpersonali, a tutto tondo inseriti nella cronaca e nella storia contemporanea dello stato di Israele.  I frammenti di vita di questi personaggi, montati e giustapposti con consumata perizia, finiscono per tratteggiare un'allegoria della società israeliana moderna, vista con occhio critico e aperto a soluzioni possibiliste nei confronti della questione palestinese.
 Un libro ricco di poesia e profondità di analisi psicologica, di partecipazione e di scanzonatezza, da leggere tutto d'un fiato. Piccoli Grossman crescono, verrebbe da dire, se non fosse che l'autore -ancorché giovane- mostrava già di saper giganteggiare fin da questi esordi e di saper andare lontano con le proprie gambe. 
Ottima la traduzione dall'ebraico di Elena Loewenthal. Non perdetelo, è una lettura che vi regalerà spunti di riflessione, gioia e struggimento.
Eshkol Nevo, “Nostalgia”, Mondadori 2006
 

07 aprile 2013

"Elizabeth Costello" di J. M. Coetzee





di Gianni Quilici

E' un libro singolare,
 perché fa sembrare reale un personaggio immaginario,
appunto Elisabeth Costello;
perché racconta attraverso le idee e lo scontro su di esse;
perché rivela un personaggio leggero, in quanto privo di narcisismo;
e complesso, perché radicale nella sua determinazione
a voler dare  un senso moralmente alto della realtà.

J. M. Coetzee. Elizabeth Costello. Einaudi.

02 aprile 2013

"La traduzione" di Luciano Luciani


Bella e infedele


Mi fece sorridere negli anni del liceo, il professore, che, alle reiterate richieste di noi studenti intorno alla spinosa questione di criteri certi per tradurre dalla lingua di Cicerone in quella del Manzoni, rispose con un quesito, ponendoci di fronte a un dilemma di non poca lena: “come la volete la fidanzata, brutta e fedele, oppure infedele ma bella?

È molto probabile che nel corso degli anni della scuola superiore la strategia traduttiva, mia e dei miei compagni di classe, non sia andata oltre una fidanzata e infedele e brutta: però, quella figurazione riuscì, con la nettezza propria delle immagini tratte dalla vita vissuta, a renderci, sinteticamente, tutte le fatiche della traduzione, una vera e propria scienza interdisciplinare che si muove tra la storia e la filologia, le letterature comparate e la filosofia, la linguistica e la lessicologia…

Operazione complessa e delicata, la traduzione! Perché, se è ormai acquisito che una lingua corrisponde alla visione del mondo di chi la parla, è altrettanto vero che, come afferma Pasolini, “la lingua è scura / non limpida” e questo ben lo sanno i professionisti della traduzione, i traduttori sempre alle prese col dilemma così plasticamente espresso dal mio docente liceale.

Tradurre un testo parola per parola o intenderne il senso? Limitarsi a volgere da una lingua all’altra ciò che l’Autore ha scritto o rendere quanto il traduttore, in scienza e coscienza, pensa che l’Autore abbia inteso esprimere?

Operare letteralmente e lasciare al Lettore il compito di individuare il senso e il significato complessivi di un testo, o interpretarlo, il testo, e fornire al Lettore un elaborato più comprensibile, ma sicuramente meno fedele all’originale?

Favorevole alla seconda opzione Voltaire che, con la nettezza che gli era propria, nelle Lettere filosofiche scriveva: “Guai a quelli che fanno traduzioni letterali e traducendo ogni parola snervano il significato. È  ben questo il caso di dire che la lettera uccide e lo spirito vivifica”.

Certo, ci perdonino i filologi, le traduzioni più belle sono quelle analogiche, emotive, istintive: penso, per capirci, alla traduzione, bella e infedele tanto per rimanere alla metafora iniziale, dell’Orestea di Eschilo realizzata da Pasolini per Gassman nel 1960; oppure, sempre in quegli anni sessanta, alle Troiane di Euripide rilette e tradotte a opera di Sartre, l’una e l’altra dense di appassionati sensi civili. Ma anche qui, attenzione: la storia dell’Ottocento e del Novecento ci presenta non pochi casi di guerre scoppiate per le differenti interpretazioni nelle diverse lingue di fragili trattati politici e diplomatici.

Non sono pochi, poi, gli studiosi e i letterati che sono arrivati a sostenere l’assoluta specificità di ogni lingua e quindi la loro sostanziale intraducibilità: su questa lunghezza d’onda troviamo fin dal XIX secolo uno scrittore come George Borrow (1803 - 1881), secondo il quale “la traduzione è nel migliore dei casi una eco” e, un secolo più tardi, Virginia Woolf (1882 – 1941): “l’umorismo è la prima qualità che va persa in una lingua straniera”. Intraducibili dunque le lingue? No, ma onore al merito alle abilità e alle competenze di quei veri e propri ‘autori invisibili’ che sono i traduttori trascurati dai recensori, maltrattati dagli editori, ignorati dal pubblico. È grazie alle loro fatiche, né piccole né poche e spesso malpagate, che è possibile mantenere il necessario rapporto di osmosi tra le letterature di tutto il mondo, permettendo così a noi lettori di godere delle invenzioni romanzesche e dei corti circuiti poetici degli artisti della parola di ogni area e lingua del pianeta.