30 aprile 2011

"Di nuovo aprile, ancora 25 aprile…" di Luciano Luciani

Sono trascorsi quasi settant’anni anni dagli avvenimenti in cui affondano le radici, a tutt’oggi ben salde e profonde, della nostra libertà e delle nostre garanzie democratiche.

E come ogni anno, a questa data, noi torniamo a fare memoria delle vicende che portarono alla liberazione del nostro Paese e delle donne, degli uomini, dei giovani di allora che furono attori e protagonisti di quegli eventi, battendosi, con coraggio e intelligenza, umanità e dedizione, per la causa della libertà e della democrazia. Ma nel nostro ricordo e nella nostra riflessione non possiamo e non vogliamo smemorare anche altre donne e altri uomini: per esempio, quelli dell’antifascismo minoritario ed eroico che, negli anni precedenti alla lotta di Liberazione, “non mollarono” e seppero porsi come fondamentale punto di riferimento umano, morale e politico per gli italiani che, anni più tardi, in armi, avrebbero preso il loro posto nelle campagne e nelle città, nelle fabbriche e in montagna, nel sud come nel nord del nostro Paese. Dico Giacomo Matteotti e Giovanni Amendola, Piero Gobetti e don Minzoni, i fratelli Rosselli e Antonio Gramsci, i padri, gli ispiratori dell’Italia libera, democratica e civile che sarebbe venuta.

E non vanno neppure dimenticati tutti gli italiani che, una generazione dopo l’altra, dal 1945 a oggi, si sono impegnati, nei partiti come nelle istituzioni, nei sindacati come nell’associazionismo, per affermare e consolidare i valori nati dalla Resistenza e dalla lotta di Liberazione.

Li vogliamo richiamare tutti alla nostra memoria e tutti comprendere in un unico abbraccio, donne e uomini giovani di allora e giovani di oggi, partigiani e cittadini ‘semplici’, che, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, per oltre sessant’anni si sono assunti il duro compito di far crescere la libertà, la democrazia, la giustizia sociale, le fondamentali virtù civiche della partecipazione, della solidarietà, della condivisione, dell’accoglienza.


Dalla Resistenza e dalla lotta di Liberazione è nata l’Italia migliore di un secolo e mezzo di storia nazionale.

A essa, noi che apparteniamo alla generazione dei ‘figli’ dei partigiani, abbiamo sempre guardato con gratitudine e orgoglio: per questo vogliamo riproporne l’esempio ai giovani e giovanissimi di oggi che percepiamo disorientati e, per propria e altrui responsabilità, ridotti al ruolo di spettatori muti e turbati di fronte alle fatiche e alle difficoltà del presente. A loro, alle attuali giovani generazioni, vogliamo dire che c’è stata, c’è un ‘Italia di cui andare fieri: quella che scelse la via della lotta mettendo a rischio la propria esistenza per la libertà di tutti, respingendo ogni meschinità, sotterfugio, ogni facile opportunismo costruendo così un movimento che si rivelò inarrestabile, invincibile perché seppe essere popolare, nazionale, democratico.

Perché, come ebbe a dire Arrigo Boldrini, prestigiosa e indimenticabile figura di combattente per la libertà “ Noi partigiani abbiamo combattuto per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro”. Un’affermazione, questa, che nella sua straordinaria semplicità e limpidezza, non solo ribadisce con serena tranquillità la superiorità morale dei partigiani sui loro avversari, ma spiega anche come mai, quel movimento, che nasceva dallo sfacelo e dalle macerie dell’8 settembre e dalla crisi del vecchio Stato, seppe porsi come pietra angolare del rinnovamento democratico della società italiana: un semenzaio di valori che ha alimentato per decenni il nostro vivere comune e che ha permesso al nostro Paese di tornare a essere stimato e rispettato nel mondo. Più che in altri momenti simili, questo 25 aprile si presenta come un’occasione privilegiata per una memoria non rituale perché si colloca all’interno di una lunga fase di acuta crisi morale, istituzionale e politica che sta attraversando il nostro Paese. Un momento grave, che riassume in sé i numerosi e complessi nodi irrisolti, i tanti problemi accantonati di almeno venti anni di vita pubblica: da quando cioè l’esaurirsi della contrapposizioni tra le grandi potenze, la cosiddetta ‘guerra fredda’, avrebbe potuto rappresentare una straordinaria opportunità per la crescita sociale e civile dell’Italia se altre fossero state le scelte compiute. Per esempio, quelle relative alla piena e ampia attuazione della nostra Carta Costituzionale soprattutto per i contenuti a più marcato carattere sociale che rappresentano, ancora oggi, il lascito più positivo, ricco e aperto al futuro della lotta di liberazione nazionale. Purtroppo, tale opportunità è stata vanificata. E oggi l’intreccio velenoso tra un’economia di mercato con poche o punte regole e una concezione del potere politico usato per fini personali o di gruppi particolari determina una progressiva demolizione dei principi ispiratori della nostra Costituzione e concentra il potere nelle mani del governo, svalutando pesantemente il ruolo delle istituzioni di garanzia.


I recenti interventi governativi in materia di informazione, giustizia, scuole, Università, pubblica amministrazione, immigrazione confermano il tentativo di svilire la nostra Carta fondamentale come garanzia degli interessi generali e dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Una politica ampiamente supportata da uno spregiudicato utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa e che sembra palesare nuove, inquietanti, forme di assolutismo politico: sul nostro futuro pare farsi strada un regime oligarchico contrassegnato da una forte impronta populista assolutamente estraneo al modello politico di democrazia partecipativa affermato dalla nostra Costituzione. Intanto, parallelamente, sul piano culturale ha già percorso molta strada a livello di senso comune diffuso un’ideologia revisionista e parafascista da tempo impegnata a rovesciare il senso della storia dell’intero secolo scorso.

Siamo in una situazione di palese allarme democratico: oggi, dunque, è assolutamente necessario richiamare l’attenzione di tutte le forze più consapevoli del nostro Paese sulle gravi manifestazioni di involuzione e decadimento politico in corso d’opera e attivare gli adeguati antidoti e contravveleni democratici per garantire al nostro Paese un reale progresso civile, in primis la realizzazione di una piena democrazia, l’unico modo per affrontare le sfide del presente lungo le linee indicate dai nostri padri costituenti. È poi necessario un impegno forte, deciso, costante e sistematico per la difesa di una memoria sensata. Consapevoli che, come afferma uno scrittore caro alla mia generazione, Stefano Benni, cresciuto come me a ‘pane e Resistenza’, “la memoria non è fatta solo di giuramenti, parole e lapidi; è fatta di gesti che si ripetono ogni mattino del mondo. E il mondo che vogliamo noi va salvato ogni giorno, nutrito, tenuto vivo. Basta mollare un attimo e tutto va in rovina”.





"La morte in banca" di Giuseppe Pontiggia

di Gianni Quilici

Leggo "La morte in banca". Mi suscita simpatia. Perché privo di narcisismo, nonostante l'evidente autobiografismo.
Rappresenta bene - ossia in termini dialettici - il lavoro in banca, cioè, in questo caso, la morte in banca e raggiunge la più completa desolazione, senza alcuna accentuazione grottezza, né espressionistica.

Si respira forse un'aria più ottocentesca (Una vita di Italo Svevo) che tardo-novecentesca. L'assoluta mancanza del sesso ne è la spia più evidente.

Un romanzo, il primo di Giuseppe Pontiggia, da leggere in sè e forse anche come una "fase" dell'uomo e del romanziere Pontiggia.

Giuseppe Pontiggia. La morte in banca. Mondadori

29 aprile 2011

“La scoperta del mondo”: di Luciana Castellina

di Gianni Quilici

Il fascino emanato da sempre da Luciana Castellina sorge da una serie di elementi: la sua bellezza e libertà, la sua autorevolezza politica e la vastità della sua cultura, la sua vita avventurosa di giornalista e di politica militante, scolpita da svolte coraggiose e controcorrente. La sua storia è stata soprattutto segnata da due esperienze: quella più che ventennale con il Pci, da cui venne radiata nel 1969, e quella successiva del Manifesto sia come quotidiano che come gruppo politico.

Ecco, a 82 anni Luciana Castellina fa uscire questo libro autobiografico con un titolo indovinatissimo, “La scoperta del mondo”, ed una foto, di lei adolescente, bellissima.

Il libro nasce dalla scoperta, da parte dell'autrice, di un diario che la stessa tenne tra i 14 e i 18 anni. Inizia quasi simbolicamente il 25 luglio 1943, quando viene interrotta la partita di tennis che l'adolescente Luciana sta giocando a Riccione nientepopodimeno che con Anna Maria Mussolini, sua compagna di scuola, perché il padre, il duce, è stato appena arrestato a Roma e lei deve scappare; e termina, nel 1947, al momento in cui la Castellina si iscrive al PCI.

Da cosa nasce il grande interesse di questo diario?

Da un processo di conoscenza e di “presa” del mondo da parte di una adolescente borghese, in un periodo storico forse il più tumultuoso della nostra storia contemporanea, con la guerra e la resistenza, la repubblica e il processo costituente. Il diario (in corsivo) è soltanto una piccola parte del libro, ma illuminante, della ragazza adolescente, che la Castellina di oggi contestualizza.

Nell'adolescente Luciana ci sono tutte le ingenuità di chi aveva conosciuto soltanto il regime fascista, ma emergono da subito due elementi che faranno parte del suo percorso: il desiderio di capire; la ricerca di grandi ideali in cui spendersi, ideali di giustizia, di verità e di bellezza.

Luciana Castellina scopre la politica insieme e attraverso l'arte figurativa e il cinema. La prima ispirazione sarà diventare una pittrice, frequenta, infatti, le prime mostre romane, tiene una conferenza di scuola sul cubismo; si entusiasma poi alla visione di “Roma città aperta”, di “Casablanca”, di “Paisà”; scopre la poesia, sprofondando in Rilke, di cui però critica il panteismo, in nome di una visione laica e illuminista; incontra alcuni dei protagonisti del dopoguerra: da Citto Maselli a Sandro Curzi, da Carlo Aymonino allo stesso Enrico Berlinguer. L'insieme di tutto questo fermento le fa scrivere: “Sono felice di vivere, di discutere, della natura, di scoprire la particolarità del mio animo e di quello degli altri, di vedere il mondo, di esprimere quello che provo, di dipingere. Sono felice di tutto. Il mondo è mio e lo voglio tutto”.

Fondamentale tuttavia rimane il rapporto con il Pci, a cui si avvicina con curiosità e preconcetti e da cui sarà conquistata. Sono le parti più belle del libro: dai cortei alle assemblee all'Università, dalla comprensione che il mondo è in grande trasformazione alla frustrazione di sentirsi distante anni luce dagli altri compagni per cultura e rapidità di intelletto, dalla conoscenza delle periferie romane al senso di colpa per i suoi privilegi. Ma è il 1947 l'anno della svolta. E' nel 1947 che la Castellina riesce a partire per Parigi, pur non avendone i requisiti, grazie a uno scambio di studenti tra l’università della capitale francese e quella di Roma, ed è lì che incontra l'intellettualità francese di sinistra; è l'anno in cui partecipa al Festival Mondiale della gioventù a Praga, con l'intermezzo di un giro in autostop con tre delegati inglesi, per cui viene ammonita da Giuliano Paietta; è l'anno in cui parte volontaria da Praga, viaggiando per l'Europa distrutta, per arruolarsi per la costruzione di una ferrovia nella Iugolavia di Tito. Questa esperienza faticosa, ma “stracolma di emozioni, carica di scoperte” non interesserà veramente a nessuno, ne' in famiglia, ne' tra i coetani.

Così, dopo che il giorno precedente “un certo Almirante ha preteso di tenere un comizio a nome di un ricostituito Partito Fascista”, rompe gli indugi e, non ancora diciottenne, si iscrive al PCI. E' il 12 ottobre 1947.

Con La Scoperta del mondo Luciana Castellina offre una rappresentazione di un processo di maturazione di un'adolescente che vuole capire e agire nel suo tempo con tutta se stessa, critica e autocritica, aperta alle sofferenze e alle luci del mondo. Viene da pensare ad un altro regalo che la Castellina può offrirci: l'esperienza successiva nel Pci e come inviata giornalista a tutto campo fino a quella straordinaria scommessa che inizierà con il manifesto, che, hanno raccontato, ma solo parzialmente, nei loro (bei) libri, anche Pietro Ingrao e Rossana Rossanda.


Luciana Castellina. La scoperta del mondo. Nottetempo. Euro 16,50.

da Arcipelago, rivista dell'Arci di Lucca




19 aprile 2011

" Il martirio di Lidice " di Luciano Luciani

Per non dimenticare


Lidice è un piccolo borgo della Boemia a nord ovest di Praga. Sorto nel 1309, per secoli era riuscito a mantenere la sua pianta originaria: le case assiepate intorno alla rustica piazzetta, le stradine anguste e tortuose, la piccola chiesa con il suo campanile secolare. Un’architettura medievale, semplice, severa, addirittura un po’ rude. Qui, secondo modi di vita tanto patriarcali quanto sereni, una dopo l’altra, generazioni di contadini e minatori erano riusciti a condurre un’esistenza sempre uguale, povera ma sicura, sotto le patriarcali, ma bonarie, tutele del quartiermastro e del curato. Una condizione di vita sempre uguale a se stessa e che non sembrava conoscere particolari asprezze neppure negli anni bui del secondo conflitto mondiale e del Protettorato brutalmente imposto dalla Germania nazista ai vicini ceki fin dal 1939.

La bufera arrivò inopinata, repentina. Era il giugno del 1942 e la Gestapo e le Ss dell’intero Protettorato erano in stato d’allarme alla ricerca affannosa degli attentatori del gerarca Reinhardt Heydrich, già capo della Gestapo e della polizia criminale tedesca e dal 1941 ‘protettore del Reich’ in Boemia e Moravia. Un nazista fanatico, un macellaio che a proposito dei popoli da poco sottomessi al nazismo era solito esprimersi così. “Nella regione del basso Danubio bisogna eliminare ciò che non è puro dal punto di vista della razza: fra due o tre anni tratteremo i Ceki col metodo della più aspra e della più aperta brutalità”.

Le forze di sicurezza naziste si convinsero che gli abitanti di Lidice avessero aiutato la fuga dei suoi giustizieri; non esistevano prove, ma le Ss le inventarono, le resero legittime con uno sfoggio insolito di carte intestate, timbri, firme e controfirme decretando la cancellazione per ignominia del villaggio dal novero dei comuni cecoslovacchi. L’ordine di radere al suolo Lidice e di sterminare i suoi abitanti fu dato personalmente da Hitler.

Ebbe inizio così il martirio della piccola cittadina boema.

Le Ss circondarono il villaggio, caricarono le donne sbigottite sugli autocarri, separarono i bambini in lacrime dalle madri rinchiudendoli in tetri furgoni; poi, riunirono tutta la popolazione maschile a ridosso del muro di una fattoria, chiamarono il curato e, promettendogli la grazia, lo invitarono a condannare dinanzi a quella moltitudine sgomenta l’attentato ad Heydrich. Don Josef Stemberka, figura nobilissima di sacerdote, dopo aver sorriso mestamente, disse: “Non è possibile; ho vissuto trentacinque anni coi miei parrocchiani, morirò con loro”.

Qualche minuto più tardi iniziò la strage che si protrasse per dieci ore, dalle 7 del mattino alle 17 del pomeriggio: centoventidue uomini con più di 16 anni furono fucilati a gruppi di dieci. Gli ultimi condannati a morte furono costretti a calpestare i corpi di quelli appena caduti, taluni scossi ancora dagli ultimi sussulti dell’agonia.

Le donne vennero internate e soltanto pochissime, a liberazione avvenuta, poterono rientrare in patria. I ragazzi, invece, furono avviati a speciali centri di “rieducazione” per il recupero degli elementi “degni” di essere germanizzati. Di essi 16 vennero affidati a famiglie tedesche perché si attuasse il previsto processo di ‘rigenerazione’ razziale, mentre i rimanenti perirono tutti miseramente nelle camere a gas!

I ragazzi di Lidice erano in tutto 98. Dopo l’eccidio e la distruzione del loro paese, strappati alle loro madri, 7 bambini al di sotto dell’anno di età furono mandati a un asilo tedesco, dove uno di essi morì. Gli altri 91 furono avviati verso un campo di concentramento presso Lòdz. 9 di loro furono affidati a famiglie tedesche perché giudicati germanizzabili. I rimanenti scomparvero nel campo di sterminio di Chelmno, uccisi su decisione di Adolph Eichmann.

Lidice fu rasa al suolo dai cannoni e dai panzer, dopo un saccheggio al quale non sfuggirono neanche i morti del piccolo cimitero ove furono scoperchiate le bare nella speranza di trovare fra i poveri resti oggetti di valore e denti d’oro.

Alla notizia dell’eccidio, espressioni di sdegno si levarono in tutte le nazioni del mondo; gli Stati Uniti fecero addirittura stampare dei manifesti di protesta che vennero affissi in tutti gli Stati dell’Unione. Intanto in Uruguay, Brasile, Inghilterra, Cuba, Panama si formarono comitati che raccolsero fondi coi quali, furono elevati semplici monumenti marmorei ai martiri del borgo cecoslovacco.

Oggi, a distanza di settant’anni, Lidice è risorta e nella cappella del cimitero ove riposano i suoi martiri, battono i rintocchi giornalieri di una campana acquistata col ricavato d’una sottoscrizione effettuata in India, mentre, poco distante, sorge profumato un fitto roseto della bontà formato con piante inviate da tutti i continenti.

Continuamente giungono nel borgo pellegrinaggi provenienti da Lèzakj, Telavag, Oradour, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, le città–martiri della Francia, della Norvegia, dall’Italia… Per non dimenticare, perché “quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”.





06 aprile 2011

"Lucchese anni Trenta" di Luciano Luciani

La ‘semina’ sportiva e umana

di uno straordinario allenatore,

Ernest Erbstein.







Se la Storia

Se la Storia, quella grande, quella con la S maiuscola quasi sempre ti delude, le storie degli uomini in carne e ossa, invece, spesso ti sorprendono. E se gratti appena appena i decori patinati della retorica, oppure la ruggine che si stratifica sulle vicende umane, allora, può capitare di imbatterti in piccoli tesori: vite generose rimaste in ombra, esperienze di alto significato morale e civile poco note perché i loro protagonisti furono figure minori o addirittura minime. Gente che non vinse mai, ma neppure fu mai vinta. E il loro agire ha lasciato tracce difficilmente cancellabili dalla memoria collettiva, contrassegnate come sono dal gusto per l’avventura intellettuale e politica, dall’attrazione per l’eresia, dalla ricerca, faticosa e contraddittoria, di strade nuove.

Memorie importanti per noi, assolutamente necessarie se davvero intendiamo costruire un futuro migliore dell’attuale presente.

Dove meno te l’aspetti

Spesso queste storie hanno origine là dove meno te l’aspetti.

Per esempio su un campo di calcio, proprio quei rettangoli verdi intorno a cui, da qualche anno e anche nella nostra città, sembrano concentrarsi tutte le stupidità e le violenze, le intolleranze e i micro fascismi di cui appaiono capaci non pochi abitatori del nuovo millennio.

Lucca, campionato di calcio 1936/37. Prima storia: l’allenatore errante

Ora il nostro sguardo deve volgersi all’indietro. Alla Lucca dei nonni, al suo stadio inaugurato da poco più di un anno, il Porta Elisa, al campionato di calcio 1936/37, il primo che la Lucchese gioca nella massima serie. Formazione tipo: Olivieri, Perduca, Pescini, Scher, Callegari, Neri, Coppa, Marchini, Michelini, Andreoli, Gringa. L’allenatore che ha compiuto il miracolo di portare una piccola squadra di provincia a competere con le grandi si chiama Ernest Erbstein: tra i migliori tecnici europei del suo tempo è di origine ungherese ed ebreo. Nelle foto di rito appare sempre dignitosissimo: cravatta, doppiopetto e un’aria del tipo ‘ma cosa ci faccio io, qui?’

Scrive di lui il giornalista Massimo Novelli:

“Era un uomo calcisticamente preparatissimo, con una profonda cultura e una grossa intelligenza calcistica che lo portava a studiare e ad attuare innovazioni tecniche e sistemi di preparazione a quei tempi sconosciuti in Italia”.

Nel ’38 si trasferisce a Torino e per via delle leggi razziali è costretto a cambiare cognome in Egri. Ma in Italia non è più vita e il tecnico e la sua famiglia, tra cui la figlia Susanna poi grande danzatrice e coreografa, se ne vanno, raminghi e semiclandestini in un’Europa ormai a ferro e fuoco, scansando fortunosamente persecuzioni e deportazioni. Nell’immediato dopoguerra lo ritroviamo ancora a Torino alla guida della squadra granata, quella dei cinque scudetti consecutivi: il ‘Grande Torino’, consegnato alla leggenda calcistica e non solo dal tragico incidente della primavera 1949 nel cielo sopra Superga. Con i suoi giocatori muore anche Ernest Erbstein, ‘l’allenatore errante’, l’interprete brillante ed efficace del calcio più moderno sino ad allora mai praticato sui campi di calcio italiani.

Seconda storia: il calciatore partigiano

A Lucca il tecnico ungherese aveva avuto modo di conoscere e apprezzare le qualità di un giovane professionista del pallone: il faentino Bruno Neri, mediano sinistro proveniente dalla Fiorentina della cui promozione in serie A era stato tra i principali artefici, nel 1933 campione del mondo universitario. Un atleta che alle doti di generosità e combattività univa una tecnica elegante e sicura: un eccellente calciatore, uno dei migliori laterali sinistri degli anni Trenta, correttissimo in campo e altruista: “dovete giocare per i compagni” era solito ripetere ai giovani nel corso della sua breve carriera di allenatore. Ma Neri ha anche altre doti, inusuali per un giocatore di calcio: è un uomo colto, ama la poesia, legge i versi del suo conterraneo Dino Campana, a Firenze frequenta il Caffè delle ‘Giubbe Rosse’, ritrovo di intellettuali se non dichiaratamente antifascisti almeno in sentore di fronda rispetto al senso comune imperante. A Lucca “è la città a incantarlo. Le vecchie mura, la chiesa di San Michele, la tomba di Ilaria del Carretto, opera somma di Jacopo della Quercia, i palazzi del Fillungo, arricchiscono il suo animo. Quel 1937 trascorso a Lucca rinsalda in lui la passione per l’arte, per la letteratura, per la bellezza” (M.Novelli). La stagione in maglia rossonera è anche quella della convocazione in Nazionale: Milano, 25 ottobre 1936, Italia – Svizzera 4 a 2. Poi, per 66 partite, la maglia granata del Torino anteguerra sempre con l’amico Erbstein, e, con l’arrivo della guerra, la fine della carriera. Con i soldi messi da parte Neri acquista una fabbrichetta a Milano e allena la squadra dei suoi esordi, il Faenza. Richiamato sotto le armi come soldato semplice viene mandato in Sicilia: lo sbarco alleato, il 25 luglio, l’8 settembre, l’occupazione tedesca gli aprono definitivamente gli occhi sulla natura del fascismo e sulla necessità di schierarsi e battersi in prima persona. Con la stessa dedizione e generosità di cui aveva dato così ampie prove sul campo di calcio, Neri aderisce all’ Ori (Organizzazione Resistenza Italiana) che sull’Appennino tosco-emiliano, in collegamento con il Cln e l’Oss americano, raccoglie informazioni, recupera gli aviolanci alleati alle formazioni partigiane, svolge azioni di sabotaggio. Bruno Neri, costretto da una spiata nel maggio 1944 a darsi alla macchia è diventato il partigiano ‘Berni’, vicecomandante del battaglione Ravenna.

La sua ultima partita Neri la gioca un paio di mesi più tardi, il 10 luglio all’eremo di Gamogna, sopra Marradi. Quando ‘Berni’ e il comandante ‘Nico’, gli zaini pieni di importanti documenti da consegnare alla banda partigiana di Corbari, si imbattono in una pattuglia di militari tedeschi: “Sono in molti, marciano sicuri, hanno i Mauser in pugno… Berni e Nico si guardano impauriti. Imbracciano i mitra. Nico si fa il segno della croce. … Cominciano a sparare. Berni non ha il tempo di godersi gli ultimi secondi della partita. Di ricordare il tempo che è andato. Di pensare a quella Germania sconfitta a Torino durante i giochi goliardici. Ben altra partita va concludendosi il 10 luglio 1944. Gli ultimi colpi di Sten Berni li regala al nulla, come il triplice fischio di un arbitro. Su di loro si avventano i tedeschi che li finiscono con la baionetta. Muore così il mediano che giocava sempre per i compagni” (Greison-Lunardini, ‘L’ultimo tiro del partigiano Berni’, “Il Manifesto”, 9 XI 2004).

Terza storia: Scher, il centromediano comunista

Centromediano tostissimo, Bruno Scher. Fortissimo e insieme ricco di indubbie capacità tecniche: un istintivo senso tattico, anticipo, tempismo. Abile nel gioco di testa tirava delle legnate formidabili con entrambi i piedi. Dotato di polmoni d’acciaio, scorrazzava infaticabile per il campo durante tutti i novanta minuti. Un giocatore così non poteva passare facilmente inosservato: tant’è che dopo aver indossato per tre anni la casacca del Lecce nella serie cadetta e per un anno quella del Bari in serie A, era in predicato per passare a una società importante, una del Nord, nientemeno che l’Ambrosiana Inter. E si diceva anche che il c.t. della Nazionale, Vittorio Pozzo, fosse un suo estimatore: nel suo futuro poteva esserci anche la maglia azzurra. Ma, se erano in tanti a pronosticargli un avvenire denso di soddisfazioni e di ambiti traguardi, pure la sua carriera sembrava stranamente bloccata. Tutti lo volevano, ma non lo pigliava nessuno. Il motivo? Non solo Bruno Scher era istriano, e quindi agli occhi torvi del fascismo un ‘italiano di confine’, demidiato e inaffidabile, ma soprattutto manifestava palesi convinzioni comuniste. C’era da finire al confino, altro che convocazione in Nazionale! Ragion per cui, a soli 25 anni, la sua carriera poteva dirsi bella che terminata. Fu Erbstein a fare carte false per averlo a Lucca, altro protagonista della bella avventura che, in quattro anni, doveva portare la compagine del Porta Elisa, inaugurato proprio in quegli anni dalla Prima Divisione alla serie A. Ancora un anno di relativa serenità, poi il fascismo lucchese non sopportò più quell’atleta dal cognome straniero e, quel che è peggio, ‘rosso’ che più ‘rosso’ non si può. “Prima dell’inizio del torneo 1938/39” raccontano gli Autori di Lucchese 100 anni, Scher “fu avvicinato da un dirigente rossonero vicino al partito fascista e consigliato a modificare il cognome, a italianizzarlo: da Scher a Scheri. Una semplice “i” avrebbe messo le cose a posto. Ma il comunista Scher non era tipo da scendere a compromessi. Non voleva rinunciare né al cognome e nemmeno alle sue origini. Così prima dell’inizio del campionato aveva già fatto le valigie per tornare prima al Sud, dove le novità del regime giungevano diversi mesi dopo, e poi nella sua terra d’origine” (p. 78). Fermo per un anno, poi confuso nel ‘generone’ della serie C, Scher esce di scena silenzioso, ma senza rinunciare neppure a un grammo della propria dignità.

Quarta e ultima storia: ‘gatto magico’ Olivieri

Aldo Olivieri, ‘gatto magico’, portiere del Verona, della Lucchese, del Torino, della Nazionale mondiale del 1938 è stato un’altra creatura di Erbstein che lo volle con sé per oltre un decennio: a lui l’estremo difensore rimase sempre legatissimo, al punto da chiamare la figlia Susanna, lo stesso nome di quella di Erbstein e farle frequentare la sua scuola di danza classica. L’Italia fascista non ha lesinato riconoscimenti a ‘gatto magico’, ma Olivieri non aderì mai al regime. Certo, non fu neppure un antifascista militante: praticò, come milioni di italiani, quella ‘dissimulazione onesta’ che permetteva di sopravvivere e ad alcuni di vivere con qualche agio quegli anni difficili. Però poteva capitare che, quasi per caso, il pensiero vero, le convinzioni profonde tornassero a galla: “Quando giocavo, fui punito in un solo caso. Erano gli anni fascisti, io entrai in campo senza fare il saluto romano, strinsi la mano al capitano avversario e l’arbitro me la fece pagare. Io non sono mai stato fascista. Anche in Nazionale: mi adeguavo, ma non approvavo. Dei giocatori, soltanto Monzeglio era un fanatico in camicia nera. Anche Pozzo non confondeva la politica col calcio, e difatti faceva in modo che del Duce non si parlasse mai. Sì, eravamo obbligati a fare il saluto, a recitare, e io recitavo. Ma mai ho preso la tessera: se si ama la libertà, non si può essere fascisti” (intervista a Marco Bonetto).

La grande lezione umana e sportiva, morale e di vita che, per gran parte degli anni Trenta, l’’allenatore errante’ Erbstein aveva tenuto a Lucca non era andata perduta.


Da “Arcipelago”

"Nel segno figurativo di Giovanni Acci" di Davide Pugnana
























Alcune di queste ombre mi sono costate molte fatiche.

Guardate: là, sulla guancia, sotto gli occhi, c’è una lieve

ombreggiatura che, se l’osservate in natura, vi sembrerà

quasi irrealizzabile. Ebbene, credete che riprodurre

quell’effetto non mi sia costato pene inaudite?Ma ancora,

mio, caro Porbus, guarda attentamente il mio lavoro, e

comprenderai meglio quel che ti dicevo circa il modo di

trattare il modello e i contorni; guarda la luce del seno,

e osserva come, con una successione di tocchi e di lumeggiature

assai elaborate, sono giunto ad afferrare la vera luce e a

combinarla con la bianchezza splendente dei toni illuminati;

e come, con un lavoro contrario, fancendo scomparire il

rilievo e la granulosità della pasta, ho potuto, a forza di

carezzare il contorno della mia figura , annegata nelle mezza

tinta, eliminare finanche l’idea del disegno, e darle l’aspetto e

la rotondità stessa della natura.”

(da: Balzac,Il capolavoro sconosciuto)


Un’introduzione

Abbracciate nel loro complesso snodarsi - di scuole e movimenti, di tendenze estravaganti e di singoli interpreti - le vicende artistiche del Novecento europeo si uniscono nell’intento di una progressiva liberazione dai canoni tradizionali. Canoni di tipo figurativo: visioni dipinte che per secoli poggiarono su di una base riconoscibile di realtà, seppur individualmente interpretata e trasfigurata. Tra Otto e Novecento, a partire dai nipotini ribelli dell’Impressionismo (Cézanne, Bernard, Gauguin, Van Gogh e Seurat, in quanto a maggiori), i modi di percezione della realtà subirono una frattura; si sganciarono dalla realtà per imboccare quella direzione di scavo che, sulle soglie sperimentali di primonovecento, porterà alle avanguardie storiche (Espressionismo e Futurismo; Surrealismo e Cubismo; Dadaismo e Astrattismo). Anni fa, un amico pittore, mi disse che tutta l’arte novecentesca era nata guardando dentro il cranio della figura urlante di Munch: i pittori, ancora animati dal motto infernale de ‘Il faut etre absolument moderne’, si erano sporti a leggervi dentro. E le innovazioni formali del dipinto? - ribattevo, da neofita longhiano. Ma non avevo capito la portata capitale di quella frase. Non dall’urto sonoro delle vibrazioni che scuotono e incurvano le linee dell’orizzonte; non dal ponticello incrinato in una corsa prospettica pericolosamente inclinata al gouffre; e nemmeno in quegli accordi metallici di rossi sangue, blu e viola, doveva nascere il nuovo. Il linguaggio formale dell’arte del XX secolo nasceva da un dettato interno, invisibile sulla tela. Nasceva da uno spavento: le cose si erano gettate addosso all’uomo in un modo particolare; qualcosa che lo avrebbe portato a scegliere l’urlo, il rottame sonoro che prefigura il linguaggio. Di questa esperienza scriverà Rilke nelle stupende Lettere su Cézanne: “Gli oggetti d’arte sono sempre risultati dell’essere-stati-in-pericolo, dell’essere-andati-fino al limite ultimo dell’esperienza.”. La modernità artistica nasce, quindi, dallo scandaglio di un urlo di terrore, provato davanti all’afasia del senso e chiuso in un cranio calvo ed espanso da alieno. Da quel momento in avanti, i pittori dipingeranno guardando le cose sull’orlo della morte. Dipingeranno - scrive ancora Rilke - “nei giorni di terrore oggetti terrorizzati”. Si dipana così un processo di lenta, operosa e inesorabile spoliazione dei codici figurativi occidentali che - aggrediti con ripetuti linguaggi ’sperimentali’ e ’terrorizzati’ - porterà a quella rivoluzione in-formale che abbiamo imparato a conoscere, rifiutandola nelle sue prime incarnazioni; chiudendoci in un moralismo visivo che - educato alla pittura di figure e paesaggi ben protetti in misurabili scatole prospettiche - veniva provocato e lacerato da soluzioni espressive nuove. Anche il pubblico doveva guardare nel cranio della figurina di Munch: doveva imparare a leggere il mondo con sguardo terrorizzato. Questa eversione radicale prende le mosse dalle avanguardie storiche e attraversa, con la rapidità di una lama, l’intero XX secolo. Alcuni esempi: la contaminazione materica e le combustioni dei sacchi di Burri; la consacrazione ad arte della fisiologia d’artista, con la “Merda” in scatola di Piero Manzoni, promossa a reliquia; l’orinatoio di Marcel Duchamp rinominato “Fontana”, che spostando la percezione dell’oggetto dal suo contesto solito e dalla sua funzione, lo riscopriva come ’forma’, affrancata dal suo compito originario e trasformata in motivo di pura contemplazione, al pari d’una scultura. Oppure: i tagli intellettivi - obliqui verticali orizzontali - di Fontana; le danze pollockiane dell’action painting, con i suoi universi di gocce e filamenti cromatici intrecciati; fino alle più recenti installazioni e performance, nelle quali confluiscono il corpo stesso dell’artista - ora impiccato, ora scarabocchiato, ora denudato, ora profanato con oggetti dal pubblico; i lampadari fatti con gli assorbenti interni; gli ippopotami di fango; i sacchetti usati; le tele bianche, strisciate di sangue e d’oro, o le evanescenze degli informali, aperte a infinite combinazioni. Nel tempo, la soglia di legittimazione per un’opera d’arte, si è così allargata e abbassata che, nella cornice ufficiale di una Biennale, può capitare di tutto.

Questo discorso introduttivo mi serve per poter parlare di una tendenza artistica parallela e opposta alle palingenesi avanguardistiche. Le quali hanno modificato la percezione visiva e il gusto dell’uomo moderno, accogliendo nel dominio dell’arte un’idea di estetica brutta, deforme, incomunicante, contaminata, autoreferenziale; ma terribilmente sperimentale. Esiti come le composizioni di Kandinsky o il dadaismo hanno dato i loro frutti e prospettato le attuali conseguenze. Li abbiamo rifiutati e subiti, in nome del realismo; poi accettati e digeriti, masticandoli lentamente; oggi li consumiamo senza più viverne la vertigine del trauma e dello shock visivo; senza più provare quel contatto col ’sacro’ che Rudolf Otto diceva misto a spavento. Da questo versante, molti ne sono usciti con la testa e lo sguardo cambiati. Molti hanno pensato, e pensano tutt’oggi, che solo lì, nel perpetuo movimento di azione/distruzione delle avanguardie, si trovi il senso di un’arte definita ‘contemporanea’ . Vedremo, analizzando alcune opere di Giovanni Acci, come i concetti di sperimentalismo e di modernità trovino esiti di felice innovazione anche mantenendosi in uno stretto rapporto di continuità con la tradizione pittorica antica: un dialogo ininterrotto fatto di prestiti e citazioni, di sapienza tecnica e fedeltà al ’mestiere’; svolto col piglio conoscitivo di una tenace esplorazione della realtà e delle cose. Così, il Novecento artistico è secolo scisso in un percorso biforcato: due ricerche antitetiche, ma quasi necessarie l’una all’altra. Proprio dal loro accostamento stridente, dal loro violento escludersi, è possibile ricavare un affresco il più possibile organico e vitale - ossia dialettico - dell’arte novecentesca.

Alla seconda tendenza appartengono i pittori cosiddetti ’figurativi’, già attivi durante le avanguardie, rubricabili nei nomi della prima generazione del Novecento: De Chirico e Dalì, per orientarci tra i due poli più alti. Ai quali segue un filone di artisti incompresi, esclusi, tacciati di anacronismo (concetto di più sfumata semantica, su cui si dovrà tornare), di panie tradizionaliste e di eccessivo compiacimento stilistico. Una storia tutta ancora da scrivere, punteggiata di opere di straordinaria fattura: olii, tempere, acquerelli, acqueforti, grafiche, sulle quali è caduta la censura e il silenzio dell’accademia avanguardistica e dei critici militanti. A questo proposito c’è uno scritto magistrale di Vittorio Sgarbi (“La stanza dipinta”) che fa luce in questa terra sommersa e di cui voglio riportare un passo significativo, utile per terminare le linee, seppur sommarie, di questo abbozzo di cornice storica alla pittura di Giovanni Acci: “Così è sorta una città sotterranea, dove si sono rifugiati, orgogliosi e imperturbabili, artisti di sicuro talento, e dove giungono, come naufraghi sopra una terra insperata, alcuni temerari che non hanno piegato le vele nella direzione del vento favorevole e hanno affrontato tempesta e bonaccia per arrivare a un luogo di cui avevano sentito parlare, ma della cui esistenza non erano neppure certi fino in fondo. Si è trattato per molti, fin dalla prima generazione di questo secolo, di scavalcare le avanguardie, di attraversarle ignorandole, di riagganciarsi all’ultimo gesto della mano con il pennello o con la pietra, di ricominciare dove il percorso si era interrotto. Per molti è stata una testarda coerenza, una polemica ragione di vita, nell’isolamento e nel silenzio, per altri, e soprattutto ora, è una dimostrazione di riscatto. C’è un intero arcipelago, ancora in buona parte sommerso e inesplorato, di cui l’unico iceberg emerso, universale e quasi sprezzante nell’affermazione di un valore non comparabile con la moneta corrente, è Balthus. Al suo fianco e nella sua direzione e nell’opposta, ma con lo stesso metodo di paziente e pensata elaborazione dell’immagine, ci sono altri, anche grandi; e non saprei dirvi dove poterli incontrare, se non nei loro studi, in qualche rara mostra: certo non nei templi consacrati all’arte.”


I

Giovanni Acci è un sommerso da poco salvato, che condivide - assieme ad altri grossi artisti - la condizione di sistematica esclusione e marginalità così ben lumeggiata da Sgarbi: quella di chi sceglie il percorso (solo apparentemente tradizionale) di una ricerca di tipo figurativo.

Occorre aver attraversato queste riflessioni di tipo storico-artistico per comprendere l’impatto decisivo di un’ampia retrospettiva, organica e filologicamente curata, come quella organizzata nei locali della Chiesa e del chiostro Sant’Agostino a Pietrasanta, lo scorso dicembre-febbraio 2011, dal titolo: “Giovanni Acci (1910-1979). L’artista, le opere.”, nata dalla rigorosa curatela della figlia Maria Acci Kazantijs. E se mi sono deciso solo ora, a distanza di mesi, a tracciarne un bilancio, non in termini militanti, ma di ‘storia dell’arte’, è proprio per quel misto di vertigine e di spavento che produce il contatto con opere nate dalla miscela del ‘sacro’, quando esso si palesa autenticamente vissuto; ma c‘è, di contro, quel terrore percettivo che non permette al fruitore quell’immediata lucidità cartesiana così necessaria ad una lettura critica.

Un intervento in sede ideologica di Giovanni Acci è presente in un episodio storico, come firmatario, nel 1947, del manifesto dei “Pittori Moderni della Realtà”, nato dallo slancio dei fratelli Bueno, e approvato da altre personalità, tra le quali Pietro Annigoni. Il sogno durò due anni; attrasse nelle sue spirali dorate diciannove membri e si dissolse nel 1949, con all’attivo cinque mostre. Un passaggio di questo scritto recitava così: “(…) la nostra arte nata in Italia rappresenta un avvenimento di speranza e di salvezza per l'arte e questa mostra vuole essere un primo effettivo contributo alla lotta che si accende. Non ci interessa né ci commuove una pittura cosiddetta "astratta" e "pura" che, figlia di una società in sfacelo, si è vuotata di qualsiasi contenuto umano ripiegandosi su se stessa, nella vana speranza di trovare in sé la sua sostanza.(…) Noi vogliamo una pittura morale nella sua più intima essenza, nel suo stile stesso, una pittura che in uno dei momenti più cupi della storia umana sia impregnata di quella fede nell'uomo e nei suoi destini, che fece la grandezza dell'arte nei tempi passati. Noi ricreiamo l'arte dell'illusione della realtà, eterno e antichissimo seme delle arti figurative.”

Da questo ‘seme delle arti figurative’; da una ’moralità’ intesa come coscienza di tendere ad una pittura di solido stile; prenderà vita una stagione di straordinario e intenso lavorìo figurativo; non solo a livello di invenzione e di visione figurativa, ma anche per l’attualizzazione della tradizione pittorica europea, grazie a recuperi tre-quattrocenteschi; a focalizzazioni di lenti, ripulite dalle croste del tempo, di minuzia fiamminga; allo studio dei campioni dello stile realistico, dagli spagnoli Velasquez, Zurbaran, Murillo a Caravaggio; fino agli equilibri compositivi di luce e di ombre, riscoperti in Rembrandt e in Vermeer. Prende corpo una concezione estetica nata sotto il segno dechiriniano del ’mestiere’, vissuto dai pittori come paziente recupero di un modus operandi cosciente degli strumenti e dei segreti della pittura antica; non solo come mezzi di un apprendistato ‘a bottega’, o accademicamente inteso; ma come veicoli di una sapienza tecnica che rischiava di essere perduta per sempre. Non bisogna dimenticare che la parola ‘tecnica’ viene dal greco Téchne che vuol dire Arte.

E’ questo il sostrato comune, di idee e forme, che lega artisti oggi semi-sconosciuti, tacciati di ’anacronismo’ e relegati nel loro arcipelago marginale. Sono: Pietro Annigoni, Gregorio Sciltian, Antonio e Xavier Bueno, Carlo Guarienti, Alfredo Serri, Carlo Socrate e lo stesso Giovanni Acci. Ma questa linea pittorica non si arresta e corre fin dentro gli anni Ottanta, quando un gruppo di artisti toscano-liguri tentarono, ancora una volta, di aprire una breccia figurativa nella lingua pittorica italiana. Fu così organizzata una mostra a Milano, caldeggiata dal commendator Rubboli, che promuoveva l’operato ed esponeva opere di giovani talenti emergenti: Aldo Bandini, Paolo Cavallo, Millo Lasio e altri. Nomi che ai lettori di Pietrasanta suoneranno familiari, mentre a quelli tra Lucca e Viareggio diranno forse poco. Poteva essere un capitolo fertile dell’arte italiana, ma anche questo rimase un appuntamento mancato: come i pittori del 1947, anche questi ultimi si sciolsero e ognuno prese una via di individuale ricerca.


II

Un tratto costitutivo dei figurativi novecenteschi, nonché il medium che stringe la parabola artistica di Giovanni Acci a quella degli altri pittori ( che la retrospettiva di Pietrasanta è riuscita a cogliere), è l’ampiezza dei generi pittorici attraversati e rinnovati dall’interno. Percorrendo la mostra di Acci, da una sala all’altra, si squadernava un ventaglio ampissimo di soluzioni, temi, forme, registri e tecniche pittoriche che dava la misura della versatilità di questo artista, pronto a misurarsi con ogni grado della tastiera espressiva.

Persino la più rapida compulsazione del catalogo apre su quest’orizzonte stratificato che fa del paesaggio pittorico di Acci un terreno di forti sperimentazioni. Colpisce innanzitutto ‘la mano’ di Acci. Sia quella mano che sarà ossessivo leitmotiv iconico dei suoi ‘autoritratti’ (Autoritratto con pennelli, del 1954), a un tempo simbolo e metonimia della pittura come mestiere, quotidiano esercizio; sia nelle sue figure, ora come dolce nodo ritmico di dita sovrapposte, secondo un’impostazione leonardesca (Lisa o Ritratto di Milena, 1956), ora con soluzioni opposte, di minuzioso plasticismo ‘epidermico’, come nella stupenda mano di Donna con limoni”(1954), così sbalzata da assorbire in sé tutta la percezione del dipinto: gioco di pieghe e rughe di fattura quasi geologica, costretta a darsi battaglia con la cornice floreale di foglie e limoni; salda però, come un morso, sul cesto di vimini, della cui grana sembra nutrirsi; monumentale cosa tra le cose.

Ma la ‘mano’, nel gergo tecnico degli artisti, indica anche colui che è dotato di elevate capacità disegnative. Elemento che, nel caso di Acci, si offre come chiave di volta del suo mondo figurativo. La sua abilità grafica gli permise di elaborare opere dall’ossatura formale solidissima; o, viceversa, di sfrangiare con sicurezza le forme e i volumi. Si attraversano così le prove disegnative presenti nella mostra: la serie di ‘studi’ preparatori dei ritratti: della madre, del padre, della figlia Maria, degli amici, risolti con un nitore di tratto in cui si fondono il segno tedesco, pulito e marcato, ‘alla Durer’ e il guizzo serpentinato e nervoso del Pollaiolo. Disegni tracciati a sanguigna; a carboncino; a biacca; a gessetti colorati; provati su tutti i supporti cartacei.

Si attraversano poi i moti della tavolozza. C’è un inesausto collaudo degli accordi cromatici, cercati da Acci lungo tutta la sua carriera pittorica. Si va da una timbrica monocromatica, fortemente evocativa, di alcuni paesaggi e marine (“Case monocromo”, 1962-63; “Marina con capanno”, 1963; o “Follia”, 1962, cavata per ispirazione musicale); ad aggiornamenti potenziati dall’uso di una gamma accesa: il rosso carminio dei cespugli, resi in guisa di fiamme, nella serie dei “Paesaggi con manichino” del 1962-63; la preziosità donata da una tinta singolare come il lapislazzuli, tutto condensato da Acci nell’abito di Lisa-Milena: una tunica di raffinata fattura pittorica, che regge il confronto con la stoffa e il bisticcio di pieghe del turbante della “Ragazza con l’orecchino di perla” di Jan Vermeer. E troviamo la gamma smorzata dei bruni, delle terre, dei viola profondi, velati e ammorbiditi con velature di lacche, che formano la tessitura in tanti sfondi: come in “Maschera”, un bozzetto del 1957, nel quale campeggia una figura di donna, fusa con il contesto in un unico blocco continuo di tinte cupe, rotte dal carnato giallo del volto e dalla striscia di rosso delle labbra.

Il giallo è il perno della tavolozza di Giovanni Acci. Tutti gli altri colori vi ruotano attorno; ne sono soggiogati e sporcati; piegati, arricchiti e annientati; o profondamente permeati, come da una forza non ricevuta dai sensi, ma nata dal di dentro. Della scoperta di questo “giallo-luce” , Acci parla spesso nelle sue lettere. Come nel caso dei gialli arlesiani narrati a Theo da Van Gogh, a sentirlo raccontare questo ‘incontro’ si capisce davvero la valenza profonda, per nulla narcisistica, che la ’tecnica’ assume per Acci, come per gli altri pittori figurativi: all’esplorazione di un colore sono dedicati mesi di faticosa ricerca. Racconta di averlo percepito in maniera nuova, per la prima volta, durante il suo soggiorno in Versilia. Lo definisce “giallo-luce”, nato dall’osservazione del paesaggio, ma sentito subito come “arbitrario”: un colore che messo a contatto con le cose produceva una luminosità “non ricevuta, ma emanata”. Dall’interno all’esterno: la scintilla di un cuore pulsante, un dàimon che anima le cose. Nelle lettere di questo periodo versiliese, perfino il lessico di Acci insisterà su di una metafora ossessiva: la fiamma. Ciò che questo giallo-luce produce è ‘fiamma’ : un giunco; la sabbia; un accostamento; il verde dei prati trasformato in giallo; i corpi stessi delle figure, limoni soprattutto - ogni cosa brucia di questo giallo. Questo è il passaggio decisivo che mostra il superamento della base di realtà e la congiunzione della tecnica all’idea artistica; del mezzo al simbolo e alla visionarietà: il giallo-luce, scoperto nella natura versiliese, finisce per diventare veicolo capace di aprire sovra-sensi; di trasfigurare le figure in entità irreali; di astrarre oggetti, come i limoni nel cesto, la cui potente presenza e il cui minuzioso realismo scopre una pura visionarietà.

L’apparente fedeltà alla tradizione è incrinata anche su un altro versante. Nella pittura di Acci sono percepibili richiami a simmetrie latenti, dislocate su più livelli. C’è un uso di archetipi e simboli di tipo geometrico, come la scelta di inscrivere i volumi delle figure in una forma circolare, riallacciandosi ad un concetto rinascimentale di matrice neoplatonica (il cerchio come simbolo di perfezione spirituale); un modulo che, intrecciato a forme romboidali e triangolari, diventerà vero e proprio principio architettonico di costruzione di alcune figure: si veda ne “La gitana” (1957), l’ellissi tagliata della gonna che riecheggia e prosegue nella circolarità conchiusa del movimento di mani e braccia, per finire nelle due curve della scollatura e delle spalle; oppure nella già citata “Donna con i limoni” (1954), dove la tesa largamente ellittica del cappello si rovescia in basso, in un ampio ritmo curvilineo che culminerà, via via riducendosi in piccoli moduli, nell’accavallamento dei limoni; nelle costole lignee del cesto, per scendere nel dorso tenace della mano e farsi rivolo nel gioco scomposto delle dita.

Acci dissemina nei suoi dipinti anche moduli archetipici di tipo inconscio. Li troviamo nella maniera di costruire i volti. Volti che sembrano obbedire a una matrice profonda: una sorta di rispondenza aurea che li stringe in una consanguineità stilistica. C’è una coerenza fisiognomica, ad esempio, che lega il volto della donna con i limoni; del padre del pittore; e della serie di Cristi. Analogie morfologiche: i ritorni di un angolo di mento; di una certa curvatura del naso; o il disegno degli occhi, sempre larghi, come la campitura degli zigomi e l’arcata sopraccigliare. Una sorta di sigla-firma, di codice identitario, che rende le figure di Giovanni Acci immediatamente riconoscibili, più come immagini di una figura al fondo dell’interiorità che fedeltà alla verosimiglianza.

Accanto ai ritratti, che raccontano il microcosmo affettivo dell‘artista (il padre, la madre, la moglie, la figlia, gli amici), troviamo un ciclo di figure accovacciate in scenari onirici e metastorici, con sagome di città sullo sfondo, pronte a rompere la bolla notturna e perturbante che le riveste (si veda “Venezia 72”; Venere, 1973 e Adamo ed Eva del 1966-67). E’ una sperimentazione espressiva che Acci affronta a partire dai suoi studi approfonditi dell’anatomia umana e che lo avvicina ad una figurazione-deformazione novecentesca che avrà esiti alti in Bacon e a venature surrealistico-simboliste. Ma rispetto alle anamorfosi oniriche e violente di Bacon, le deformazioni anatomiche di Acci non nascono da un impulso espressionistico-esistenziale; ma rispondono al desiderio di costruire la figura seguendo moti interiori che tendono all’architettura. Da qui il senso di monumentalità delle sue figure.

Tutta una sezione della mostra è dedicata al genere della natura morta. Sono raffigurazioni avare di oggetti (frutta; fiori; brocche; maschere), lasciati cadere su stoffe drappeggiate, secondo una disposizione dal ritmo paratattica, che genera attesa, senso di vita silente, e rivela l’abile regia compositiva e simbolica di Acci. Ne abbiamo un esempio in “Limone, panno, bottiglia con tappo rosso” (1962): la scenografia è quella di un notturno felpato, evocato da uno sfondo blu a mo’ d’orizzonte; nel mezzo del piano, un panno di velluto viola separa un limone da una bottiglia, messe ai lati opposti ma fatti dialogare tra loro, come poli di una diagonale ideale che taglia il dipinto. Le note cromatiche si staccano in tutto il loro plasticismo e la loro potenza di colori primari: al giallo del limone in basso risponde il rosso del coperchio in alto, già sottolineato dal blu di fondo. Una perfetta sinergia di forma, geometria e cromìa. Totalmente isolati e pronti ad espandersi, questi oggetti sono staccati dal resto attraverso un’aura che corre lungo i loro contorni: una sottile linea evanescente, scaturita da una fonte interna agli oggetti e capace di ritagliare una vita materica autonoma. Questo rivela quanto - nel genere della natura morta, ma non solo - Acci riesca a conquistare una pittura “di cose”; che significa, celinianamente, scavo au bout de les choses: sviscerate nella loro segreta bellezza di forme. Pensiamo, come estremo risultato moderno di cose sviscerate, alle pere e alle mele di Paul Cézanne.

III

Di fronte a questa attività, abbiamo la percezione di un pensiero pittorico in movimento, aperto agli snodi e agli aggiornamenti di diversi linguaggi pittorici, con una coerenza interna tenuta sul filo di una tensione immaginativa alta, fino agli ultimi anni di vita.

Ritorna in Giovanni Acci il sogno di una sapiente fusione di disegno e colore che Balzac rappresentò nella figura di Frenhofer, il pittore protagonista del romanzo breve “Il capolavoro sconosciuto”; salutato dalla critica come prefigurazione allegorica del passaggio dalla figurazione all’informale dissoluzione della forma. Quest’opera non è solo un vagheggiamento balzachiano per un’unione delle due scuole dell’epoca, il colorismo di Delacroix e il linearismo di Ingres. Si spinge oltre. Nasconde in sé un diario intellettuale. Essa è una lunga analisi dei segreti tecnici della pittura: di quei mezzi espressivi che, conosciuti in profondità e dominati, si trasformano in varchi d’accesso per la recherche de l’absolut. Qual è l’opera assoluta che Giovanni Acci potrebbe tener nascosta agli occhi di tutti, al pari della donna dipinta gelosamente custodita da Frenhofer, quella Catherine Lescault con la quale egli vive tutta la sua vita, fino a distruggerla? Non ci possono essere dubbi, né sfogliando il catalogo né standoci davanti alla mostra. E’ il “Ritratto del padre”, dipinto all’altezza del 1947. L’ho lasciato in fondo a questo scritto perché come prova ultima, estrema andrebbe vista. Il capolavoro assoluto di Giovanni Acci. Un punto di fusione altissimo che non raggiungerà mai più, nemmeno in opere riuscite. Dipinto per quindici mesi, fino alla sfinimento (“dopo essermi ben tormentato e spremuto”), questo ritratto segna il punto di massima sintesi artistica di tutti gli elementi della ricerca pittorica di Acci. Ed è difficile restituirne un’analisi dettagliata, anche solo un’equivalenza verbale; perché la solidità classica che porta in sé e che lo consegna per sempre alla grande pittura - quella che vive fuori dal tempo e dalla storia a cui appartiene - si coglie solo standogli davanti. Chi ha avuto l’esperienza percettiva di vertici come la “Velata” di Raffaello; le “Meninas” o il cortile di Delft dipinto da Vermeer - per dire tre esempi di pittura assoluta - conosce bene la sensazione, anzi la coscienza di trovarsi davanti a qualcosa che resisterà nel tempo. Qualcosa che non lascia spazio, in chi guarda, a dubbi interpretativi o alla soggettività del giudizio di gusto. E’ qualcosa di definitivo, oltre il quale c’è la rovina, la distruzione. Aggiungere o spostare qualcosa in queste opere vorrebbe dire andare incontro alla dissoluzione, e al fallimento, come la Catherine dipinta da Frenhofer, e della cui perfezione rimane la testimonianza di un piede, sopravvissuto al delirio tecnico del suo autore. Il ritratto del padre Fortunato appartiene a questo dominio assoluto. Un’analisi complessiva di quest’opera sarebbe possibile. Si potrebbe insistere sull’unità di coerenza stilistica; sull’armonica fusione di disegno, colore e concezione dello spazio; di corrispondenza tra stile e visione. Si potrebbe anche dire, senza timore, che esso potrebbe stare appeso accanto a Rembrandt e a Renoir - reggendone il confronto. Ma tutto ciò non sarebbe mai abbastanza definitivo.


03 aprile 2011

"Al Fossar des les Moreres" di Emilio Michelotti

Sta pochi isolati oltre l’incredibile tessuto della Barcin romana, sul quale puoi camminare grazie a spesse lastre di vetro.

Si chiama Fossar des les Moreres e ti accoglie come una minuscola piazza del Campo. Dal punto più basso del semicerchio disegnato dal selciato di mattoni posti a taglio, spunta una lunga asta rossa che ricorda, col suo andamento ricurvo, la traiettoria d’un fuoco d’artificio o, meglio, d’un proiettile. Alla base arde una fiamma sempreviva e punta in direzione – quasi la sfiora – della fiancata sud di Santa Maria del Mar.

Nella sua nuda solennità è questo il tempio più emozionante di Barcellona, se si eccettua (come secondo me è doveroso) la parodistica esplosione dell’estremismo gaudiano (sui cui lasciti è stato - ma ancora ci sarebbe - da indagare parecchio).

Severa, scarna, pilastri e volte gotici anneriti da fumi di iconoclaste rivolte, rappresenta il pendant d’un intimismo quasi calvinista alla versione iberica (paganeggiante, sfarzosamente superstiziosa) dell’idolatria cattolica.

L’edificio sacro s’affaccia sul Fossar per mezzo d’una balaustra di granito purpureo che reca incise, invisibili per chi guarda dalla chiesa, parole catalane per me in parte oscure. Fra queste una, con la sua potenza evocativa, “trahidor”, fa sobbalzare e stringe stomaco e visceri.

Alla reception dell’albergo un giovane parla italiano. “Cos’è un fossar, chi è il trahidor?” gli chiedo. “Una fossa comune”, dice, e “gli spagnoli”, arrossendo e con un po’ di esitazione nella voce. Il fervore autonomista lo ha portato un po’ oltre, lo aiuto: “Gli spagnoli di Franco?”. “Sì”, sospira, con sollievo.