31 marzo 2011

"A cinquant’anni fa dalla scomparsa di Dashiell Hammet" di Luciano Luciani



La rivoluzione dell’hard boiled novel


Un anno dopo l’altro, un romanzo poliziesco dopo l’altro, il “giallo classico”, quello per intenderci di Van Dine e della Christie, aveva finito per acquisire il sapore un po’ insipido di un piatto magari cucinato correttamente, con tutti gli ingredienti necessari e nella giusta misura, ma sempre troppo uguale a se stesso. Nelle sue pagine “gli uomini si muovono in un mondo che non ha linee e colori, il sangue non sporca, i cadaveri non puzzano, i personaggi si incontrano, si scontrano, parlano (quanto parlano, ahimè, quelli della Christie!) ma non dicono nulla di sé; in un certo senso sono disumani, come disumano è, in un certo senso, un problema di matematica pura. E il detective è un eccentrico proprio perché l’eccentricità fa meno umani” (Petronio).


Società, cinema e letteratura popolare

E’ tempo che finalmente la vita vera irrompa nelle pagine del poliziesco, è il momento della rivoluzione dell’hard boiled novel con le sue trame ricche d’azione e di violenza. Le alimentano quel particolarissimo periodo della storia americana che va sotto il nome di proibizionismo, ovvero una serie di leggi apparse negli anni 1919-1920 che vietano la fabbricazione e il consumo di alcol; la grande crisi economica iniziata nell’ottobre 1929 con il crollo della Borsa di New York e la conseguente depressione; una corruzione dilagante a tutti i livelli della società e il quasi collasso dell’ordine pubblico in intere regioni degli USA. Su questi scenari non è arduo collocare il fenomeno delle gang che caratterizzò per anni la vita americana, influenzando anche il cinema e la letteratura poliziesca. Alla fine degli anni venti, infatti, i giornali erano pieni di notizie di cronaca nera: le imprese di Bonnie e Clyde, Baby Face Nelson, “Ma” Barker e i suoi figli, sono seguite in maniera appassionata da milioni di lettori che nelle vicende criminose di questi banditi di strada sembrano ritrovare i vecchi miti del West, quelli fondativi della nazione americana. E’ invece con Al Capone e Lucky Luciano che si realizza il fenomeno più inquietante dell’intreccio tra malavita, politica ed affari: a questi eroi negativi si contrappongono quelli positivi dei difensori dell’ordine come Elliot Ness e i suoi incorruttibili collaboratori(25). I gangsters diventano i protagonisti di un fortunato filone di film come Le notti di Chicago (1928), Little Cesar di Melvyn LeRoy (1930) e Public Enemy (1931). Non solo il cinema risente di quel particolarissimo clima, anche la letteratura, e in maniera più spiccata la letteratura popolare, i pulps, riviste da pochi soldi stampate su carta di infima qualità, registra e si sforza di interpretare quanto avveniva al centro e alla periferia di quel gigante malato che erano divenuti gli Stati Uniti. Il romanzo poliziesco americano si presenta come l’erede diretto della narrativa “western” o di frontiera: lì la violenza era quella dei pellerossa o della natura; qui è propria della società. Il poliziesco diventa rappresentazione realistica ed allo stesso tempo denuncia di un mondo di gangsters, sfruttatori, spacciatori di alcolici, politici corrotti.


Arriva “Black mask”

Nella seconda metà degli anni venti, grazie a riviste come “Black Mask” e grazie ad autori come Dashiell Hammet, William Riley Burnett e Raymond Chandler era nato e si era sviluppato l’hard boiled novel, un giallo diverso dalla tradizione, realistico, denso di contenuti scottanti, contrassegnato da intrecci movimentati e ricchi di brutalità .

Ecco come il capitano Joseph T. Shaw, fondatore e direttore della leggendaria rivista “Black Mask” descrisse l’origine di una tale scuola:

Riflettemmo sulla possibilità di creare un nuovo genere di racconti polizieschi diverso da quello in uso dal tempo dei Caldei e più recentemente adottato da Poe, Gaboriau e Conan Doyle, insomma da tutti, ovvero il genere deduttivo, tipo parole crociate o puzzle che, deliberatamente, manca di ogni altro valore emotivo umano. Ovviamente creare un nuovo genere è un lavoro da scrittore molto più che da direttore. Quindi cercammo tra le pagine delle riviste uno scrittore che fosse brillante e originale, e restammo straordinariamente impressionati dalla evidente promessa contenuta nel lavoro di Dashiell Hammet. Non che praticasse un genere diverso da quello sino ad allora imperante ma i suoi racconti erano scritti con un’insolita specie di necessità ed autenticità. Così ci mettemmo in contatto con lui. Rispose immediatamente ed entusiasticamente…”.

Il risultato sono dei romanzi che mantengono i caratteri essenziali del poliziesco: rispetto alla tradizione c’è sempre un crimine, un’indagine, lo scioglimento dell’enigma. Ma l’indagine è scandita da altri delitti, circola una cupa atmosfera di violenza, di morte, di degrado: insomma, nel gene originario del romanzo poliziesco è inscritto un programma diverso, si fanno strada nuove convinzioni ideologiche e di poetica. Todorov chiama “nero” il poliziesco americano: in esso in genere non c’è la ricostruzione di un fatto passato, la prima storia, quella invisibile, quella del delitto o non esiste proprio o è secondaria. Diventa invece centrale la seconda, quella dell’indagine e si svolge dal principio alla fine sotto gli occhi del lettore: lo stesso detective vi è coinvolto e rischia la propria vita, mentre, come già si è detto, nella detective-story l’investigatore usufruisce della più piena immunità.


Dashiell Hammet, il papà di Sam Spade

A Dashiell Hammet (1894 - 1961) dobbiamo alcuni romanzi fondamentali del poliziesco americano realistico, la cosiddetta “scuola dei duri”: Piombo e sangue; Il bacio della violenza; Il falcone maltese, 1930; La chiave di vetro, 1931. La sua lezione è centrale per lo sviluppo del genere: non c’è tipo, non esiste un personaggio che abbiamo incontrato o che incontriamo ancora nella letteratura gialla o nei film sulla malavita americana che non abbia una stretta parentela con qualche carattere inventato da Hammet. Ex agente della Pinkerton, una famosa agenzia investigativa di allora, Hammet supera i confini del genere per lo stile essenziale e prosciugato e per la sua aderenza alla lingua parlata: elementi che affascinarono grandi scrittori come Andrè Gide, che nel suo diario, il 16 maggio 1943 rende omaggio all’arte del dialogo di questo scrittore e Ernest Hemingway.

Nel Falcone maltese compare il personaggio più popolare creato da Hammet, Sam Spade (magistralmente portato sullo schermo da Humphrey Bogart), un investigatore senza qualità, un uomo qualunque, uno come tanti che fa l’investigatore per sbarcare il lunario. Però è tenace e mosso da un’ostinata volontà di raggiungere la verità: “anche loro”, scrive giustamente Carlo Oliva nel suo saggio Storia sociale del giallo, “in sostanza, sono delle figure eccezionali, degli uomini che ottengono da soli risultati che gli altri, in particolare se appartenenti alle forze dell’ordine organizzato, non riescono neanche ad intravedere, ma la loro diversità non si fonda tanto su una maggiore acutezza mentale, su un più raffinato esercizio dell’intelligenza, quanto su una maggiore forza di volontà, un surplus di determinazione. E’ una superiorità, la loro, di natura eminentemente morale, il che ben si concilia con la tradizione puritana, tanto importante in America e con il culto tutto americano dell’individualista volitivo”.


Scrittore e comunista

Samuel Dashiell Hammet (Maryland 1894 – New York 1961) per le precarie condizioni economiche della famiglia lascia la scuola 13 anni. Entra come investigatore nella famosa Agenzia Pinkerton, un’ attività che fornirà lo spunto a molte sue opere. Partecipa alla prima guerra mondiale come autista di ambulanze, ma si ammala di tubercolosi. Il suo primo racconto, The road home, è pubblicato sulla rivista “Black Mask” nel 1922. Fino al 1929 la sua ispirazione ruota attorno al personaggio di Continental Op, protagonista di 28 racconti e due romanzi, sostituito, a partire dal 1929, da Sam Spade, destinato a diventare uno dei personaggi più celebri della narrativa poliziesca americana. Nel 1931 ha inizio la sua relazione trentennale con la scrittrice Lilian Hellman. Nel 1934 scrive il suo quinto e ultimo romanzo, poi si dedica al cinema e all’impegno politico: nel 1937 si iscrive al partito comunista americano. Nel 1942 è di nuovo sotto le armi: come sergente è inviato nelle isole Aleutine, dove cura la pubblicazione di un giornale dell’esercito. Rientrato in patria, vede aggravarsi la sua malattia ai polmoni e nel clima forsennatamente anticomunista degli anni della “guerra fredda” comincia a essere perseguitato per le sue idee politiche. Per il rifiuto di denunciare i nomi dei suoi compagni di fede politica viene condannato a sei mesi di prigione. Il suo nome finisce sulle “liste nere” del Comitato per le Attività Antiamericane: perde il lavoro e vede confiscato ogni suo bene. Muore povero nel 1961, in un ospedale di New York. Come veterano di due guerre mondiali è sepolto nel cimitero nazionale di Arlington.

27 marzo 2011

"Il silenzio" poesia di Gianni Quilici

di Davide Pugnana

Vado a Firenze. Sono sul treno. Mi colpisce improvvisamente il silenzio. "Scrivo una riflessione come se fosse una poesia. Una poesia filosofica" penso e sorrido. Mi attira nel pensiero l'essenzialità. Cogliere l'articolazione, ma appena quella necessaria... Da qui...


Il silenzio


Il silenzio è nell'io che si osserva

che oscilla tra sé e il mondo

laddove non ci sia il frastuono


perché per sentire i rumori del mondo

deve ascoltare il silenzio

da cui i rumori si staccano

ma ascoltando silenzio e rumori

ecco a v v e r t e se stesso


perché fare silenzio

dovrebbe essere esercizio quotidiano

perchè è entrare in contatto

con sé con il mondo

non necessariamente

col “mondo grande e terribile”

che ci attraversa

ma con quei dettagli minuscoli

che in esso vivono


particelle sottili che non nascondono

rivelano se uno vuole

se non si è soli

quel “mondo grande e terribile”

che ci attraversa


E' sempre un lungo sospiro di sollievo poter notare gli esiti felici toccati da chi, proponendosi una linea di poetica a priori, finisca per tradirla e spostarsi altrove. In questo caso (ma solo in questo) mi trovo d'accordo con l'impostazi...one crociana, che scindeva - in un poema come nel giro serrato di una lirica - zone di 'poesia' da zone di 'non poesia', avvertendoci che non si dava 'intuizione lirica' laddove interferiva l'intenzione programmatica.

Ciò non significa che ogni processo creativo fattosi 'opera' sia il frutto sbucciato da un raptus ispirativo, intuitivo e orfico; ma vale a far capire che la riflessione estetica, lasciata sulla soglia, rischia di inaridire e vincolare la resa espressiva; che rischia insomma di obbligare, in una maglia preconfezionata, la materia che si sta già cercando come 'forma'.

Ho letto quindi con timore il lacerto di diario-manifesto, che fissava la forma (la poesia filosofica) e metteva a nudo l'occasione-spinta generatrice del testo. Il risultato è stato un bellissimo tradimento. Gianni, le giunture nervose e scoperte del ragionamento (quel "Cogliere l'articolazione, ma appena quella necessaria") che ti apparecchiavi (è il verbo del viaggiatore, ma anche del poeta-viàtor) a rendere nei modi di una poesia di pensiero, non le avresti mai ottenute se quel pulviscolo di dettagli, misti a silenzio e attesa, fosse stato colato in un cavo già disposto.

Per fortuna il testo si muove in direzione ostinata e contraria. Disegna un itinerario di ricerca e di scavo che dall'ascolto del fuori in movimento si contrappone la fissità di una geografia interiore, nella quale gli oggetti sono 'istanze oscillanti', come le definiva Virginia Woolf.

Se c'è nel testo un' 'articolazione', minima ma capitale, questa è proprio nella spazialità scombaciata dell'invisibile vetro che separa i due mondi, le due tessiture di dettagli. Due piani compenetrati fino ad un certo punto, almeno per quanto riguarda un'indole creativa - nella quale le percezioni esterne cadono in maniera diversa; per essere sondate, scremate e raccolte di nuovo, secondo tagli, leggi e tempi di sedimentazione obliqui, deformati forse. Questa vertigine - che porta a cercar di fissare su carta il punto focale (il meccanismo) in cui idee e sensazioni, ricordi e impulsi, sono "articolazione" minima e necessaria - è ciò che prova non solo lo scrittore di razza, ma anche chi si avvicina alla scrittura occasionalmente, e sente come il corso del pensiero e dello sguardo prendano una piega diversa...


"Da Sebastopoli a Magenta. La trama incerta del vivere" di Riccardo Mori

di Luciano Luciani


Un agguato, un’aggressione, una botta in testa. E il giovane Fiodor Jawleschy si trova improvvisamente sperduto e privo di memoria nella fredda terra russa, mentre, per di più, tutt’attorno infuria un sanguinoso conflitto, quella guerra di Crimea che vide la partecipazione del regno di Sardegna e la possibilità per il piccolo Stato italiano di affacciarsi, da protagonista, alle questioni della grande politica internazionale. Soccorso da un monaco, Fiodor inizia un lungo viaggio per scoprire chi sia davvero e cosa ci faccia in un Paese che chiaramente non è il suo. Perché, infatti, il nostro giovane smemorato parla correntemente in francese? E come mai, quando se ne dà l’occasione, si rivela abilissimo a combattere e duellare? Chi è, poi, Andrea Torricelli?

Riccardo Mori, alla sua seconda prova letteraria dopo la buona prova di Deserto di specchi, Giovane Holden editore, 2008, ci propone un romanzo avvincente, ambientato nell’Europa di metà Ottocento: i suoi personaggi si muovono con disinvoltura tra le guerre delle grandi potenze di allora e le rivoluzioni nazionali, i dispotismi ancora imperanti e le speranze, talora esaudite più spesso disingannate, di una società più libera e giusta. Cospirazioni patriottiche e intrighi reazionari, detenzioni, fughe e palpiti amorosi percorrono queste pagine dense d’avventura e di continui colpi di scena dal sapore quasi salgariano.

Da Sebastopoli a Megenta La trama incerta del vivere realizza quanto auspicava più o meno cinquant’anni fa Luciano Bianciardi, un letterato che di Risorgimento ne sapeva e non poco: ovvero, che nella storia della nostra unificazione nazionale ci sarebbe, ancora quasi intatto e tutto da scoprire, un patrimonio straordinario di fatti eroici e meno eroici, di personaggi grandi e meno grandi, di esili e deportazioni, di fughe, di amori, di tradimenti a cui attingere a piene mani per fondare un’epica nazionale e popolare finalmente priva di retorica.

Mori si muove proprio in questa direzione e lo fa con un piglio narrativo incalzante, avvincente, cinematografico, in una lingua mossa, vivace, priva di orpelli: la più adatta per raggiungere insieme il cuore e la ragione del Lettore, segnatamente se giovane.

Amarognolo il finale e tutta pervasa da un vago senso di disillusione la morale del libro: è sì possibile vedere realizzati i grandi ideali, ma solo a prezzo di pesanti compromessi e pagando il prezzo di né piccole né poche sofferenze generazionali e personali.

Questa, secondo l’Autore, la lezione che ci viene dalla storia: una lettura, la sua, di cui tenere conto anche e soprattutto nell’anno delle celebrazioni per il 150esimo anniversario della nostra unità nazionale.


Riccardo Mori, Da Sebastopoli a Magenta La trama incerta del vivere, Albatros, Roma 2010, pp. 238, Euro 15,90

22 marzo 2011

"Nei colori del giorno" di Peter Handke

di Gianni Quilici


Rileggo questo libro. Lo lessi qualche anno fa. Fu la suggestione e lo stimolo per andare in Provenza, a Sainte-Victoire, la montagna che si trova nei pressi di Aix-en Provence, che Cézanne ha dipinto ossessivamente fino agli ultimi giorni della sua vita.

Scrissi allora un piccolo diario poetico. Per sottolineare il mio tipo di approccio, esso iniziava così:




Verso la Sainte Victoire

sulla scia di un libro

di Peter Handke

ingenuamente

per ritrovarla.

Ma lo so.

Uno soltanto è questo viaggio:

il mio

E' questo uno dei numerosi libri di Peter Handke, in cui il diario di viaggio si mescola alla riflessione filosofica, il presente alle reminiscenze del passato. Lo rileggo col desiderio di ri-tornare in quei luoghi: la Sainte-Victoire, ma anche quei paesi che si trovano alle propaggini: Puyloubier, Pourriéres, Tholonet...

Insomma la lettura come desiderio di essere preparati a prendere più cose possibili: quel paesaggio, quella luce, quel colore, Cézanne.

La cosa più stupefacente e più strana della Sainte-Victoire” lo scrive Handke, ma colpisce immediatamente anche passando dalla vicina autostrada “sono la luminosità e lo sfolgorìo dolomitico del suo calcare...”

Nei colori del giorno” poi non mi convince fino in fondo: a tratti lo trovo troppo microscopico, troppo involuto e personale; a volte, invece, mi affascina e-o “mi tocca”.

Penso che Handke più che un narratore sia un poeta, il poeta del dettaglio, dell'attimo vissuto e trasmesso poeticamente. Scrive:

Camminavo sulla “strada”. Vedevo il “ruscello” nel fossato ombroso. Ero sul “ponte di pietra”. C'erano le fessure nella roccia. C'erano i pini che orlavano un viottolo; in fondo a questo, grande, il bianconero della gazza.

Mi imbevevo del profumo degli alberi e pensavo: ”Quante possibilità esistono - nel presente! Silenzio sulla route Paul Cézanne”. Ci fu un breve scroscio di pioggia estiva, con le gocce che brillavano una ad una nel sole; dopo, solo la strada sembrò bagnata, le pietruzze dell'asfalto coloratissime.”

Ecco, Handke arriva alla poesia attraverso la prosa.

La prosa di un viaggiare, spesso a piedi, con uno sguardo che coglie i dettagli dell'esistenza in sé e fuori di sé, fino a quando percepisce e assapora in questo presente il bagliore dell'esistenza, ciò che per Barthes potrebbe essere il punctum. Un bagliore, che diventa sia il sentimento di vivere che la scrittura stessa, come se, per Handke, il rapporto tra vivere e scrivere la vita non solo fosse molto stretto, ma necessario per .

Con un'aggiunta: nello scrittore austriaco questa condizione esistenziale non rimane sospesa come potrebbe essere per uno scrittore-poeta “puro”, ma viene problematizzata, filosofeggiata.

Un esempio.

Camminavo con cosciente lentezza, nel biancore della montagna. Cosa fu? Non accadde nulla. E nemmeno c'era bisogno che accadesse qualcosa. Ero liberato da ogni attesa e lontano da ogni ebrezza. Il passo regolare era già una danza. Tutto il corpo dilatato che ero veniva trasportato dai propri passi come da una portantina. Questo danzante in cammino ero io-come-esempio e in quell'ora perfetta esprimevo in egual misura “la forma esistenziale della dilatazione e l'idea di questa forma esistenziale”, che secondo il filosofo “sono la medesima cosa, ma vengono espresse in due maniere distinte” -regola del gioco e gioco della regola(....). Sì, allora seppi “chi sono” -e come conseguenza sentii un dovere ancora indefinito. L'opera del filosofo, del resto, era stata un'etica.

Qui Handke racconta, ma anche definisce filosoficamente un attimo di felicità. Lo fa vedere-sentire e nello stesso tempo lo interpreta.

C'è nel libro una sequenza, in cui Peter Handke si dimostra anche notevole narratore. Qui i dettagli diventano azione e tensione: l'incontro con un cane mastino. E' troppo lungo per riportarlo, anche solo parzialmente. Un accenno.

Il cranio era largo e sembrava appiattito, nonostante le labbra pendule; le orecchie triangolari sguainate come piccoli pugnali. Cercai gli occhi e incontrai uno scintillìo(...).”

Nei colori del giorno” ha il fascino di camminare, osservare, interrogarsi, rimanendo aperto.

Tanti i temi: il rapporto tra Cezanne e la montagna, tra Handke e il suo presente- passato, tra Handke e la scrittura, tra Handke e i quadri, tra Handke e la Sainte-Victoire, tra Handke e Cézanne, tra Handke e questo mondo “totalmente muto e afono”, con la voglia di vivere quella natura miracolosamente ancora presente, qui lo scrittore analizza meticolosamente un bosco vicino a Salisburgo, che non è "un bosco di quelli d'oggi, inglobato nella città, non un bosco nei boschi".

La conclusione però è: “Inspirare e lasciare il bosco.Tornare agli uomini d'oggi”; alla città alle piazze e ai ponti; alle banchine e ai sottopassaggi; ai campi sportivi e alle notizie; alle campane e agli affari; al riflesso dorato e al drappeggio..." Forse una sintesi tra silenzio e parola, tra natura e tecnologia, tra memoria e futuro.


Peter Handke. Nel colore del giorno. (In einer dunkeln nacht ging ich aus meinem stillen Haus).Traduzione di Rolando Zorzi. Edizioni Garzanti



"Mia Madre è un fiume" di Donatella Di Pietrantonio

di Caterina Donatelli

Apro il libro pensando a come sarebbe stato leggere un romanzo scritto da una persona che conosci bene: è la prima volta che mi capita.

Entro nella prima pagina da sola, ma già alla seconda sono in compagnia: io lettrice, io amica dell’autrice, l’autrice, la mia amica e autrice, i personaggi forgiati nel paesaggio abruzzese che ci ha visto crescere.

Progressivamente, arrivano l‘universo e gli affetti della scrittrice, a cui si sovrappongono per assonanze, le storie della famiglia di mia madre, narratrice per attitudine, che negli anni si è premurata di annodare alle parole, per rianimare i ricordi di un mondo andato, ucciso dal tempo. A un certo punto eravamo in troppi; avevo tutte queste presenze da amministrare e tenere a bada durante la lettura, cosa che cominciava ad infastidirmi.

Il libro è bello e tutto questo chiasso che partecipa, intralcia l’immersione totale, quel senso di esilio, di distacco che porta a una riva e perde un’altra, distoglie dal motivo che muove le ragioni del racconto.

Il racconto del rapporto tra una madre “una luna dolorosa”, persa nella malattia che ruba la memoria e una figlia impegnata a custodirla in un tela, disegnandole un’identità ripulita dalla cattiveria della realtà, per coprirla e proteggerla dal vuoto che le consuma il cervello. Due donne che si sono amate in modo diverso, dai sentimenti severi, la figlia nel tentativo di superare le ragioni di una ricerca, disperata e celata, della relazione primaria con la madre, vertiginosa assenza, incapace di slanci affettivi e per questo, tenera e fragile nella sua crudezza che contrassegna un’intera esistenza.

Attorno una terra trattenuta dalle montagne e campi da arare con mani pazienti e nodose, animali da accudire per uno scambio reciproco di vita. Gesti attenti e protagonisti come la voce narrante, fanciulla che emerge limpida dal microcosmo contadino, educata a distruggere quei luoghi con la fuga, ma composta della stessa materia, tanto da riedificarla, pezzo dopo pezzo, da adulta, in una sorta di viaggio al contrario. Un cerchio essenziale e necessario per entrambe, intrecciato al profumo dei cibi, i colori delle stagioni e i segreti di una famiglia, della provincia italiana.

Una storia accompagnata da una scrittura intima e misurata, in bilico tra presente in doppio legame al passato, lanciando sulle pagine momenti di vera poesia nella descrizione delle piccole cose, degli umori, dei destini, obbligandoti a rallentare sulle parole, a cambiare il ritmo per poterle assaporare meglio e goderne appieno l’incanto.

Un romanzo circoscritto e largo che trasforma esistenze e paesaggi concreti, in paesaggi dell’anima, evoca e rinnova di stupore i luoghi in cui sono nate quelle storie, facendomi perdere e infine, dimenticare, che l’autrice è anche la mia amica.


Donatella Di Pietrantonio. Mia madre è un fiume. Elliot Edizioni -anno 2010. 16,00




20 marzo 2011

"Siam noi i pazzi!" poesia di Nicola Matteucci

di Gianni Quilici








SIAM NOI I PAZZI!

Dio non ha creato l'uomo,
l'uomo ha creato Dio
per inventare se stesso.
E allora
non è pazzo chi crede,
è folle chi osa credere...
Chi osa confessare un amore senza maschere,
pazzi siam noi che non sappiamo esserlo,
pazzi che osano credere di poter vivere
senza vita.


Un altro ragazzo 16enne (o poco più), un altro studente dell'agrario di Lucca come, nel numero precedente di Arcipelago, Francesco Sollima. Due amici, due poeti giovanissimi, due poeti veri, che hanno nel sangue invettiva e amore, il gusto filosofico dello sguardo e una tensione che non si acquieta.

Ho scelto “Siam noi i pazzi!” rispetto ad altre poesie forse più complesse, solo perché le altre più ardue nella decifrazione.

L'inizio è aforistico, di un aforismo apparentemente semplice, in realtà sottilmente filosofico, su cui si potrebbe speculare a lungo: Dio non esiste, è l'uomo che lo ha creato, per dare un'identità a se stesso. Ho pensato a Marx quello che confutando Feuerbach scriveva che la religione è «il gemito della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore, così come è lo spirito d'una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l'oppio dei popoli».

Ma ho pensato a Marx, anche perché Nicola Matteucci ha utilizzato in questi tre brevi versi un procedimento di tipo dialettico. Tesi (“Dio non ha creato l'uomo”), antitesi (l'uomo ha creato Dio”) sintesi (“per inventare se stesso”), a cui ha dato la perentorietà musicale del linguaggio poetico.

C'è poi negli altri versi, attraverso la forza di una concitazione serrata, una sottile distinzione tra chi crede, fideisticamente, senza problemi, forse conformisticamente; ed invece “chi osa credere”, folle tanto da denudarsi di fronte ai sentimenti più estremi ( “Chi osa confessare un amore senza maschere”), perché, nonostante tutto, “osa credere di poter vivere”.

Sono versi che potrebbero articolarsi e approfondirsi ulteriormente, ma che delineano un rifiuto e insieme una rivolta di chi vuole comunque sfidare l'esistenza, anche senza certezze e illusioni.

Ho chiesto a Nicola di presentarsi. Ecco la sua sintetica risposta:

Studente presso L'istituto Tecnico Agrario di Mutigliano e ascensionista, infida creatura da un mondo non troppo lontano a cui l'amor non aprì una pista. Dalla vita, amore non corrisposto, son deriso e ruggisco nella savana in cui non arriva il pensiero; non son Narciso, ma uno sfiorato Boccadoro”.

da Arcipelago, periodico dell'Arci di Lucca





















19 marzo 2011

"Albania: così vicina, così lontana…" di Luciano Luciani

Un pesante senso di colpa

Nel nostro paese l’Albania e il suo popolo non hanno mai goduto di buona stampa. Anzi, per essere onesti, a parte alcune eccezioni tanto più rimarchevoli quanto rare, non hanno mai goduto di una stampa quale che sia, se si esclude, un uso improprio e distorto delle notizie d’agenzia, in genere commentate in fretta e furia e di solito in maniera faziosa ed unilaterale: un atteggiamento che durante i lunghi anni della “guerra fredda” poteva forse trovare una spiegazione nella contrapposizione ideologica, ma che oggi dopo la riconquista della comunità albanese alle regole democratiche non dovrebbe davvero avere più motivo di essere.

Nei confronti di questo paese, vicino geograficamente e per corposi vincoli culturali – si pensi alle numerose comunità italo - albanesi, gli Arberesh, diffuse in tutta l’Italia centro meridionale – il nostro senso comune nazionale è ancora vittima di profondi sensi di colpa per le pesanti, storiche, responsabilità italiane nella subalternità di questa piccola nazione sulla scena mediterranea e internazionale.

Dall’Albania si doveva – forse si deve ancora – parlare poco, quasi ad esorcizzare il ricordo di quel lontano 7 aprile ’39 che vide le truppe dell’Italia fascista occupare le terre del “popolo delle aquile” e trasformarle in una sorta di colonia, sottoposta ad un regime d’occupazione e di italianizzazione forzata.

Dopo i Romani e i Normanni, gli Slavi e gli Angioini, i Bizantini e i Veneziani, anche il fascismo italiano ha cercato di mortificare l’identità nazionale degli ‘skipetari’, opprimendola con la forza delle armi, smembrandola in virtù di trattati iniqui, creando le condizioni per corrompere i costumi e imbastardire lingua e costumi. Un destino maledetto, questo, per gli albanesi, che sarà spezzato solo alla fine del 1944 da una lotta di liberazione tanto coraggiosa, intelligente, audace quanto poco nota.

Una pagina poco nota della Resistenza europea

Tra le pagine meno conosciute della lotta dei popoli europei al fascismo e al nazismo quelle della partecipazione alla conquista della libertà, agognata per secoli dagli albanesi, di una cospicua avanguardia costituita proprio dagli ex oppressori italiani.

Furono esattamente 1776 i soldati italiani che, all’indomani dell’8 settembre ’43, abbandonati dai comandi, privi di mezzi, incalzati dai nazisti con la consueta ferocia, scelsero di non arrendersi e di tenere viva la fiaccola della dignità nazionale nella lotta di liberazione in terra albanese. Da militari di un esercito invasore si fecero partigiani, mettendosi con umiltà, lungimiranza e coraggio al servizio di quel popolo che, solo fino al giorno prima, a causa della politica imperialistica del fascismo avevano contribuito ad opprimere. In questo modo, i fanti e gli artiglieri italiani, nella stragrande maggioranza dei casi soldati semplici e per la gran parte – ma non solo – toscani, fornirono uno straordinario esempio di solidarietà internazionalista: tanto più degno di essere ricordato, per quanto poco è conosciuto e valorizzato nel nostro paese, soprattutto in un momento in cui, purtroppo, sia nella ricerca storica, sia nel senso comune sembrano farsi strada preoccupanti umori “revisionisti” nei confronti di un giudizio storico, politico e morale sul fascismo che dovrebbe ormai essere tanto definitivo quanto negativo.

La partecipazione di queste centinaia di connazionali in divisa alla lotta di liberazione del popolo albanese smentisce poi recisamente un luogo comune diffuso e, purtroppo, accettato: quello per cui i soldati italiani all’estero, colti di sorpresa dall’8 settembre, non avrebbero saputo battersi e sarebbero stati capaci solo di un confuso e disordinato “tutti a casa”. Saranno proprio loro i protagonisti della epopea del Battaglione – poi Brigata, poi Divisione – intitolato significativamente ad Antonio Gramsci che si batté, con intelligenza e valore, sui monti del paese balcanico, per contribuire in maniera decisiva alla battaglia per la liberazione di Tirana dai nazifascisti nell’autunno di 64 anni or sono ( novembre 1944 ).

Pochi ma buoni, dunque? No, perché c’è anche un modo “estensivo”, “largo” di leggere la resistenza dei militari italiani in Albania. Quello che attribuisce un ruolo positivo, anche se più modesto, di opposizione allo strapotere tedesco pure a quanti, senza aderire alla lotta armata – spesso per motivi non dipendenti dalla loro volontà – rimasero sbandati per lunghi mesi in terra straniera condividendo i pesantissimi sacrifici imposti alle popolazioni civili e resistendo alla tentazione della resa e alle lusinghe dei tedeschi e dei collaborazionisti. In base a questo criterio più ampio si può far ascendere a circa 15.000 il numero di “quelli che non si arresero” e che svolsero compiti in qualche modo utili alla lotta di liberazione nei Balcani.

Dieci lucchesi

Foltissima la presenza dei toscani in questa nutrita pattuglia di combattenti per la libertà sotto la bandiera rossa con l’aquila nera albanese: tra questi dieci lucchesi.

I loro nomi?

Barsanti Antonio, Ghivizzano, 1921

Bertini Ernesto, Loppeglia, 1923

Bertocchini Dario, Lucca, 1921

Bulgarelli Giuseppe, Fornaci di Barga, 1919

Fortini Pietro, Vagli, 1912

Galli Renato, Lucca, 1917

Leonardi Ilio, Seravezza, 1911

Parrini Adolfo, Ruota, 1918

Quartaroli Gino, Porcari, 1923

Sebastiani Alfredo, Lucca, 1920

“Anonimi compagni”, protagonisti di una tra le più belle pagine della Resistenza europea, i cui nomi e le cui vicende generose rischiano oggi di scivolare via dalla memoria delle stesse comunità di origine, portate, in genere, a “smemorare” con facilità soprattutto fatti e personaggi dai caratteri diversi e difformi rispetto alla mentalità collettiva dominante.


Alfredo Sebastiani

L’ultimo dell’elenco, Alfredo Sebastiani, furiere del Battaglione Gramsci, è anche l’autore di un bellissimo diario delle imprese degli italiani inquadrati nei ranghi dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese.

Lucchese di “drento le mura”, Sebastiani nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre seppe istintivamente schierarsi dalla parte giusta e pagò con la vita questa sua scelta: muore infatti tragicamente due giorni dopo la liberazione di Tirana, vittima di un’arma subdola, del cibo avvelenato lasciato con l’obiettivo d’uccidere dai nazisti in fuga.

Lo Stato albanese ha riconosciuto la partigiano Alfredo Sebastiani due onorificenze: URDARIN E TRIMERISE (ha combattuto con coraggio nelle file dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese, è stato esempio di resistenza e di abnegazione donando anche la vita in lotta contro gli occupanti nazifascisti per la liberazione dell’Albania) e YLLI PARTIZAN TE KLESIT (si è distinto per l’audacia e per il coraggio dimostrato combattendo nelle file dei reparti partigiani durante la lotta di Liberazione Nazionale del popolo albanese contro gli occupanti nazifascisti finchè diede anche la vita).

Così scrive di lui il commissario politico di allora, il fiorentino Bruno Brunetti, in un suo commosso “ricordo di Alfredo”: “ Un ultimo partigiano caduto in Albania per la malasorte di un destino infame, il giorno stesso in cui avrebbe potuto assaporare la gioia della grande vittoria, dopo dieci duri mesi di lotta accanita al nazifascismo.

I compagni di lotta italiani ed albanesi gli resero le onoranze militari che meritava: si professava cattolico e credente ed il cappellano militare don V. Silo officiò il rito funebre. Una folla di connazionali, militari, civili ed amici albanesi lo accompagnò all’ultima dimora.

Fu sepolto nel cimitero cattolico di Tirana in un’area dove appena il giorno prima erano state seppellite le salme di una sessantina di italiani trucidati dai nazisti durante gli ultimi giorni della battaglia per la liberazione della capitale. Anche per loro Alfredo si era prodigato: per raccoglierli, identificarli e farne un elenco…Una delegazione di maestranze dei cantieri italiani della regione piantò sulla tomba una croce d’abete con una targhetta nella quale si leggeva: – Alfredo Sebastiani – Partigiano del Btg. A. Gramsci – Caduto per la libertà dei popoli”.





" Alessandro Calandrelli ufficiale e gentiluomo" di Luciano Luciani

I cronisti del tempo sono concordi nell’affermare che nei tormentati ultimi giorni della Repubblica Romana del 1849, mentre la Città eterna subiva il cannoneggiamento dei francesi ed oltre 30000 uomini la stringevano d’assedio, il cieco cantastorie Tarantoni si aggirasse per i vicoli e le piazze di Trastevere accompagnando con la chitarra versi insieme ingenui, beffardi ed augurali:

Ciavemo Garibbardi

Ciavemo Calandrella

sti boja de francesi

nun so potuti entrà

l’emo respinti indietro

nun ponno aritornà…

Ma chi era questo Calandrelli, percepito dai romani che resistevano come un personaggio da mettere addirittura sullo stesso piano dell’Eroe dei due mondi?

Andiamo a sfogliare alcune pagine scritte dai protagonisti migliori di quella stagione risorgimentale tanto sfortunata quanto gloriosa. Per esempio quelle del garibaldino – nonché pittore di fama internazionale – Nino Costa autore, parecchi anni più tardi degli eventi narrati, di Quel che vidi e quel che intesi, vivacissimo libro di memorie:

“ Avvenne che un tenente dei garibaldini, rivolto al Calandrelli, insultasse i romani. Calandrelli furibondo gli si fece addosso per colpirlo; venne fermato a tempo. Ma l’ira sua fu tanta da farlo uscir di mente; ebbe proprio un vero colpo di pazzia. Io, allora, lo presi e mi rinserrai con lui in una camera della torre di San Pancrazio. Quando vidi che punto contradicendolo ed anzi secondandolo in tutta la sua demenza verbale s’era ben sfogato, lo lasciai un momento solo. E tornando a lui gli dissi che i suoi artiglieri si battevano da leoni e che domandavano di rivedere il loro Alessandro. Il rumore della battaglia, le affettuose acclamazioni dei suoi artiglieri lo fecero del tutto rinsavire e calmo tornar alla sua batteria. Forse sarebbe ricaduto nella sua esaltazione se una palla di cannone, colta una ruota di un pezzo, non avesse morto uno e ferito alcuni degli uomini suoi.”

Un ritratto veloce ed appena accennato quello del Costa, ma densissimo e che ci offre informazioni e suggestioni. Per esempio, sulle fortissime passioni politiche e civili, spesso coniugate in chiave municipalistica, che animavano e agitavano gli uomini della Repubblica, poi, sulla logorante tensione psico-fisica a cui erano sottoposti i difensori di Roma, segnatamente quelli con incarichi di responsabilità.

E pensare che il cursus honorum di Alessandro Calandrelli fino a quel momento sembra offrirci un ritratto assai diverso da quello dell’ufficiale teso ed esasperato fino al punto di rottura offertoci da Nino Costa.

Nato a Roma nell’ottobre 1805, appena adolescente Alessandro era entrato – come d’altra parte farà anche suo fratello Ludovico di due anni più giovane – come cadetto onorario nell’arma dell’artiglieria dell’esercito pontificio. Brillante ufficiale, si era fatto apprezzare anche come studioso dell’arte militare: al 1836 risale una sua Memoria sull’artiglieria pontificia, mentre nel 1837 viene nominato professore presso la Scuola dei cadetti d’artiglieria. Di stanza a Civitavecchia rivelò interessi e qualità di studioso compilando una Memoria sul castello di Santa Severa ed impegnandosi nella decifrazione e raccolta di antiche iscrizioni. La sua attività appare, comunque, tutta all’interno della istituzione militare: nel 1842 rileva la pianta della piazza fortificata di Civitavecchia, studia le possibilità di difendere la maremma toscana; ricopre spesso le funzioni di giudice militare; dopo il 1847 compila un Regolamento del vestiario della Guardia civica per cui ottiene una medaglia d’oro di benemerenza. Nel 1848, contrariamente al fratello Ludovico, non partecipa alle operazioni militari delle truppe pontificie nel Veneto.

Il 16 novembre di quell’anno – era il giorno successivo all’omicidio politico di Pellegrino Rossi avvenuto con un colpo di pugnale sulle scale del Palazzo della Cancelleria, sede del Parlamento –, al termine di un’imponente manifestazione popolare che reclamava la formazione di un ministero democratico e la ripresa della guerra all’Austria, Pio IX rifiutò di ricevere una delegazione di deputati incaricati di esprimere la volontà popolare e si schermì con promesse molto vaghe fatte per bocca del cardinale Soglia. La folla allora rumoreggiò ed alcune guardie svizzere impaurite spararono sui romani accalcati alcuni colpi di fucile. Ma non erano però più i tempi in cui una provocazione così grave potesse rimanere impunita: subito apparvero delle armi nelle mani dei militi della Guardia civica, mentre i manifestanti si organizzavano per assaltare il Quirinale. Fece la sua comparsa anche un cannone, i cui colpi sarebbero serviti al popolo romano per sfondare i portoni della residenza papale. Fu merito di Ciceruacchio, il tribuno di Trastevere, e del capitano Alessandro Calandrelli, per aver svolto in quella difficile situazione una decisiva opera di pacificazione tra le parti, evitando la strage imminente.

Le vicende convulse delle ultime settimane del ’48 a Roma, segnate dalla fuga del papa e dalla convocazione delle elezioni per la Costituente della Stato romano – mostruoso atto di smascherata fellonia e di vera ribellione, come le ribattezzò Pio IX da Gaeta – videro Calandrella in prima fila insieme ai più importanti esponenti del partito democratico italiano, convenuti a Roma da tutta la penisola: Filippo De Boni, Atto Vannucci, Pietro Cironi, Goffredo Mameli, Nino Bixio, Francesco Dell’Ongaro, Enrico Cernuschi lavoravano fianco a fianco con i democratici romani Carlo Armellini, Pietro Stermini, Giuseppe Galletti, Ludovico Calandrelli, Angelo Brunetti.

Eletto deputato alla Costituente romana, Alessandro Calandrelli ricoprì l’incarico di sostituto del Ministro delle Armi, contribuendo in maniera decisiva all’organizzazione del piccolo esercito della Repubblica, che nel corso della sua storia, tra regolari e volontari oscillò dagli 8000 del febbraio ’49 ai 20000. Non mancava, ovviamente, un reggimento d’artiglieria, una batteria svizzera ed una bolognese capaci di schierare circa un centinaio di pezzi, che, nonostante la sproporzione con le forze messe in campo dall’Oudinot, fecero egregiamente il loro dovere.

Tra gli episodi salienti del contributo dell’ufficiale romano alla difesa della democrazia va ricordato l’episodio del 30 aprile sotto le mura di Porta Angelica e Porta Cavalleggeri: qui le truppe francesi, sbarcate due giorni prima a Civitavecchia, vennero costrette a ripiegare con gravi perdite per essere poi assalite a Porta San pancrazio dalla legione di Garibaldi e da un battaglione di volontari formato da studenti e artisti che le fecero arretrare di posizione in posizione, causando loro perdite assai gravi, mille uomini tra caduti e prigionieri sugli 8000 del corpo di spedizione originario. Decisivo il ruolo degli artiglieri di Calandrelli che, avendo ben meritato, fu promosso a colonnello ed insignito della medaglia d’oro. Tenace e coerente rimase al suo posto fino agli ultimi momenti della morente repubblica: quando l’Assemblea Costituente romana scelse di cessare una difesa divenuta impossibile e di rimanere al suo posto per terminare di redigere la Costituzione che fu promulgata proprio mentre le truppe francesi cominciavano a calpestare la strade della città, Calandrelli, insieme ad Aurelio Saliceti e il suo caro amico, Livio Mariani, accettò il difficile e rischioso compito di entrare a far parte dell’ultimo triumvirato dopo le dimissioni di Mazzini, Saffi ed Armellini.

Sullo scenario di una città piegata alle armi francesi e in mano ai clericali in cerca di rivincita si apre la parte più dolorosa dell’esistenza di Alessandro Calandrelli. In qualità di alto ufficiale dell’esercito repubblicano ed esponente del governo toccò a lui rendere conto dello stato dei magazzini e delle casse dello stato ed è facile immaginare il rigore con cui vennero condotte quelle ispezioni. La rettitudine, lo scrupolo, la correttezza del romano lasciarono ammirati i francesi ma non i clericali romani, impegnati in una feroce e vendicativa caccia alle streghe contro tutti gli esponenti della precedente stagione democratica. Lo stesso direttore della polizia francese, Mangin, intuendo che si cercava di colpire il Calandrelli attaccandolo sul piano dell’onestà personale lo mise in guardia e gli propose di cercare rifugio in Francia fornendogli addirittura un passaporto vistato dall’ambasciata francese. Calandrelli, forte della propria indiscussa moralità rifiutò. Intanto il suo amato corpo degli artiglieri, colpevole di aver preso parte attiva alla difesa di Roma, veniva trasformato in guardia costiera e mandato a morire di malaria nelle paludi Pontine!

Nell’autunno del ’49 l’ufficiale romano, già escluso dall’amnistia e degradato insieme al fratello Ludovico, viene ristretto nelle carceri papali in seguito all’accusa di furto: una perquisizione aveva individuato in casa di Calandrelli armi ed oggetti antichi, di non chiara, a detta degli inquisitori, provenienza. Nonostante diversi giudici dichiarassero di non individuare ragioni per procedere contro il Calandrelli e numerosi testimoni intervenissero a sua discolpa, le autorità vollero a tutti i costi un processo politico dall’esito scontato: l’ufficiale romano venne radiato dall’esercito e condannato a morte.

In carcere nel bagno penale di Ancona non rimase inoperoso: scriveva biografie, disegnava…La sua sofferta libertà doveva giungere, in maniera del tutto inopinata, dal lontano nord Europa…

Suo fratello Ludovico, anche lui prima degradato e poi radiato dall’esercito pontificio, fornito di passaporto prussiano aveva trovato asilo a Berlino: qui risiedeva fin dal 1832, il padre dei due Calandrelli, Giovanni, artista di buona fama e maestro scultore presso l’istituto d’arte di Berlino. La sua supplica al re di Prussia Federico Guglielmo IV perché si adoperi in favore del figlio presso le autorità papali è del febbraio 1851: nonostante l’autorevole interessamento e i successivi interventi di Alexander von Humboldt, naturalista e geografo di fama mondiale, trascorreranno più di due anni prima che il generoso repubblicano possa lasciare il carcere di Ancona, ribadendo in un’ennesima, ultima lettera al papa le ragioni della sua innocenza.La ricostituzione a Berlino della famiglia Calandrelli data alla tarda estate del 1853.

Durerà poco, però: infatti, appena un anno più tardi, Ludovico, seguendo la sua vocazione e il suo destino di soldato partirà alla volta della Turchia, per mettere le sue competenze al servizio di quell’esercito impegnato contro le armi inglesi e francesi. Nel cuore del più giovane dei fratelli la ferita aperta a Roma dalle armi francesi non si era ancora rimarginata. Cambiò anche il proprio nome in quello di Mouglis Bey: si faceva chiamare così Ludovico quando la morte lo colse per colera nel settembre 1855, impegnato ad Erzerum nell’allestimento di alcune batterie di cannoni turchi.

Alessandro invece si ferma a Berlino. Conosce e dà lezioni a Ferdinando Lassalle, ancora di convinzioni democratiche e destinato a diventare negli anni successivi marxista e leader riformista del movimento operaio tedesco; continua a mantenere relazioni epistolari con alcuni personaggi della politica italiana, ma in maniera stanca, forse delusa. Solo qua e là si agitano nella sua prosa “i bagliori di fiamma lontana” delle passioni civili e patriottiche dell’antico artigliere.


Solo dopo il 1870 rientra a Roma, dove trova un impiego dignitoso ma modesto come ispettore edilizio del Comune. I suoi ultimi anni ce lo mostrano operoso, ma con lo sguardo rivolto al passato: si impegna nella pubblicistica storica, nella attività della Società dei reduci delle patrie battaglie, ancora avvolto nella sua città dell’aura eroica di quella straordinaria esperienza che era stata la Repubblica Romana.





11 marzo 2011

“La condanna” di Franz Kafka

di Gianni Quilici
Racconto scritto in soli due giorni nel 1912 e, come è riferito nei Diari e nelle lettere dall'autore, una tappa decisiva nella vita dello scrittore, perché per la prima volta è consapevole di essere tale.

Un giovane commerciante scrive ad un amico, che si trova in Russia solo e senza aver fatto fortuna, che si è fidanzato con una signorina appartenente ad una famiglia agiata. Informazione che ,fino ad allora, aveva taciuto.

Abbiamo nel racconto più fasi: dapprima questo soliloquio tortuoso del protagonista; tortuoso, perché basato su supposizioni che girano intorno a se stesse e che non si fanno scelta, movimento.
Poi troviamo il padre, vecchio e indebolito, che sta leggendo il giornale nella sua camera oscura, in cui un muro alto impedisce al sole primaverile di raggiungerla, di illuminarla.
Il padre che appare in un primo momento bisognoso solo di cura e di attenzione, inizia improvvisamente ad ergersi come un tribunale giudicante spietato e con mutamenti così sorprendenti da sembrare a volte delirante.
Tu non hai nessun amico... Conosco bene il tuo amico... Sarebbe stato un figlio secondo il mio gusto. Perciò lo hai ingannato!” E lo rimprovera con voce flautata di essersi fatto infinocchiare da quell'oca ripugnante della fidanzata, di aver profanato il ricordo della madre, di aver tradito l'amico e avere ficcato lui nel letto, perchè non si potesse più muovere. Fino alla condanna finale: “Eri davvero un bambino innocente, ma ancor più un essere diabolico! E perciò sappi ti condanno a morire affogato”.

Sarebbe fin troppo facile pensare che La condanna sia semplicemente la trasposizione narrativa del rapporto tra Kafka e il padre come evidenzia Lettera al padre (1919); così come è limitativo utilizzare una lettura esclusivamente psicanalitica di trasposizione del conflitto edipico.

Nel senso che il rapporto soprattutto con il padre ed anche quello sottilissimo con la madre sono evidenti, ma come causa ancora più profonda e conseguenza di questo c'è la colpa, la colpa di esistere e di errare. Una colpa che, in ultima analisi, risiede non nel giudizio del padre, ma in sé, in una coscienza, che si conosce e che non si perdona. Perché lui, il protagonista ha effettivamente e inevitabilmente, in una qualche misura, profanato la madre, tradito l'amico, emarginato il padre. La condanna del padre è anche la “sua” condanna.

Ma ciò che rende il racconto di Franz Kafka riuscito è nel saper scivolare da un realismo quotidiano ad uno visionario che diventa incubo; un incubo sul filo sottile tra una possibile realtà ed un possibile sogno.

Franz Kafka. La condanna da “La metamorfosi e altri racconti”. Traduzione di
Ervino Pocar. Edizione speciale per Famiglia cristiana su licenza Mondadori.

"Lady Susan - I Watson - Sanditon" di Jane Austen

di Maddalena Ferrari

Si tratta di tre brevi testi: “Lady Susan”, un romanzo epistolare concluso, e due abbozzi appena iniziati; composti in periodi diversi, sono stati pubblicati tutti solo dopo la morte della scrittrice. Il primo, a differenza dei romanzi dello stesso genere di altri autori che l'hanno preceduto, non è la confessione ( quasi esclusiva ) di un protagonista, ma l'insieme di lettere dei vari personaggi coinvolti, con una struttura reticolare, che dà diverse prospettive alla vicenda, con una conclusione dell'autrice; i critici ne collocano la composizione, sia pure senza certezza assoluta, negli anni 1793-94.
Il secondo sarebbe stato iniziato nel 1804 e interrotto a causa di tristi eventi familiari ( la malattia e morte del padre della Austen ).
Il terzo va invece attribuito all'ultimo periodo di vita della scrittrice, la cui malattia la costrinse ad interromperne la stesura.
L'ambiente è il solito della narrativa della Austen: la borghesia e la piccola nobiltà di campagna, con una rigida divisione in classi, un'osservanza stretta delle convenzioni e dei formalismi; per cui “Sir”, “Lord”, “Lady”, “Mr”, “Mstr”, “Miss” sono gli epiteti che precedono sempre un cognome, o un nome, a meno che il racconto non riguardi da vicino la, o una, protagonista, più raramente un personaggio maschile, nel qual caso si ricorre al nome di battesimo tout court.
I Watson” e “Sanditon” presentano due personaggi femminili, rispettivamente Emma Watson e Charlotte Heywood, che hanno le caratteristiche della tipica eroina dell'autrice: serietà, perspicacia, ragionevolezza, sensibilità; volontà di raggiungere un'identità autonoma e tenacia nel perseguire l'obiettivo.
Nel caso invece di “Lady Susan”, l'omonima protagonista è un'affascinante vedova dalla dubbia moralità, che irretisce gli uomini e manda in crisi famiglie e progetti di matrimonio.
Comune ai tre testi, come anche alle opere maggiori della Austen, oltre al milieu sociale, e potremmo dire anche topografico, una politica patrimoniale, che i personaggi praticano, chi per sé, chi per gli altri, nell'intento di abbinare posizione sociale, dote, patrimonio; ma questo deve fare i conti con i reali desideri dei diretti interessati, i quali, se sono davvero positivi, coltivano un sentimento serio e cercano con successo di realizzare il loro sogno.
L'amore non è un sentimento romantico, anzi, la Austen ci tiene a mettere in guardia contro i moti del cuore appassionati; in “Sanditon” Charlotte lo dice espressamente a Sir Edward Denham, il quale ama i romanzi “che illustrano la grandiosità della natura umana, quelli che la ritraggono nel suo aspetto più sublime, quando i sentimenti si manifestano in tutta la loro intensità, quelli che tracciano il cammino di una passione travolgente (...)”.
Allo stesso modo la scrittrice non sopporta i bellimbusti impulsivi e seduttori, come lo stesso Sir Edward, o come Tom Musgrave, che piace a tutte le ragazze de “I Watson”, ma non alla giudiziosa e graziosissima Emma.
Quanto all'amore che Lady Susan ha saputo suscitare in Reginald De Courcy, una volta che il giovane, scoperta la vera indole della donna, tronca la relazione con lei, continua a renderlo inquieto per circa un anno ancora: “In generale, tre mesi sarebbero potuti bastare, ma i sentimenti di Reginald non erano meno costanti che fervidi.”
Antiromanticismo, dunque, o, meglio, una sorta di interesse diffidente, quasi timore di esserne coinvolta
Nei racconti incompiuti tutto fa pensare che le cose si sarebbero concluse nel modo migliore, sia sentimentalmente, sia economicamente, per le protagoniste. In “Lady Susan”, i disegni della civetta egoista a spese degli altri, in particolare della infelice figlia Frederica, vengono sventati, ma anche per lei ci sarà una sistemazione più o meno onorevole, più o meno felice, su cui la scrittrice, nella conclusione, avanza delle perplessità, ma non si sbilancia, se non a sfavore di una pretendente alla mano di colui che diventa suo marito: “Per quanto mi riguarda, confesso di compiangere soltanto la signorina Manwaring, che, dopo essere venuta in città ed essersi addossata spese tali, per il suo guardaroba, da impoverirla per due anni, col solo fine di conquistarlo, fu defraudata di quanto le era dovuto da una donna di dieci anni più vecchia di lei.”.
Questo finale graffiante ci dà anche un'idea dell'ironia della Austen, che esplora le vicende “di tre o quattro famiglie in un paese di campagna”, lontane dalla Storia, seguendo il trascorrere di un tempo costantemente imbrigliato in abitudini di vita, incontri, conversazioni registrate con puntigliosa minuzia, raramente turbato da eventi straordinari; il suo è un mondo limitato, l'unico, si suole sottolineare, che la scrittrice conoscesse; ma questo mondo è osservato con tale penetrazione psicologica (la critica è solita parlare di “realismo domestico”) e soprattutto con tale disincanto, che ben poco se ne salva. E quel poco, grazie a rare figure femminili, che sono ben lontane dall'identificarvisi, anche se la Austen non risolve mai questo atteggiamento in rottura o ribellione e la felicità che alcune di loro raggiungono si fonda necessariamente anche su quei valori materiali e sociali, che non possono essere rifiutati, pena il frantumarsi di un reale, che appare come l'unico possibile. Un reale, dove le condizioni economiche hanno un ruolo essenziale, discriminante soprattutto per il ruolo della donna:essa infatti o si sposa con un buon partito (e ciò è facilitato dal possesso di una discreta dote), o si deve adattare a fare l'insegnante in una scuola . “Non riesco a immaginare niente di peggio”, dice a Emma Watson la sorella maggiore. Quanto a Emma, dopo essere vissuta con una ricca zia, che l'ha tenuta lontana dalla famiglia di origine, è costretta a ritornare dal padre e dalle sorelle senza nessuna rendita: glielo rinfaccia il fratello Robert, facendola irritare e addolorare.
La stessa pesantezza della situazione materiale appare in “Sanditon”, dove lo sguardo dell'autrice si allarga a rappresentare una situazione di cambiamento sociale, sotto l'incalzare del capitalismo: la trasformazione di una località sul mare in una stazione balneare alla moda (e sappiamo che la Austen odiava Bath, dove fu costretta a risiedere per un po' di tempo). Assistiamo allora a manovre di speculazione finanziaria ed allo spirito imprenditoriale di Mr Parker, un entusiasta iperattivo e in fondo ottuso, che ha bisogno di appoggiarsi nella sua impresa alla vecchia, potente Lady Denham, che Charlotte, dopo un'imbarazzante colloquio con lei, definisce estremamente gretta.
Si può dire che la chiusura mentale, l'ipocrisia, la condiscendenza verso ciò che gli altri, per accettarci, vogliono da noi e verso ciò che è di moda; gli entusiasmi facili e di breve durata; l'arrivismo, la vanità e il narcisismo; il calcolo del proprio tornaconto, a scapito della sincerità, anche e soprattutto con se stessi: sono questi i disvalori che Jane Austen coglie nella società del suo tempo e che disprezza; le sue istanze morali non le sentiamo poi così lontane da noi...
Jane Auste. Lady Susan - I Watson - Sanditon. Introduzione di Ornella De Zordo. Traduzione di Daniela Paladini. Newton narrativa. Euro 6,00.






08 marzo 2011

" Storia del carciofo e delle sue suggestioni" di Luciano Luciani

Amarognolo, ma salutare


Amarognolo ma salutare, il carciofo. Spinoso e pungente nella sua bella veste esteriore, ma adattabile ad ogni tipo di terreno appena fertile, sembra convalidare la bontà del precetto evangelico giovanneo, Nolite iudicare secundum facies: non giudicate secondo l’apparenza. Insomma, come “la barba non fa il filosofo” così il sapore amaricante e le spine non rendono il nostro ortaggio necessariamente degno di biasimo. Magari ne hanno complicato l’affermazione sulle tavole, se è vero che il carciofo, apprezzato dagli Egiziani e dai Greci, ampiamente diffuso nell’area mediterranea al tempo dei Romani che lo importavano dalla Spagna e dall’Africa settentrionale, fu poi dimenticato almeno fino alle soglie dell’età moderna. Solo nel 1466, infatti, Filippo Strozzi il Vecchio (1428-1491), rientrando a Firenze dopo il lungo esilio cui l’avevano costretto i Medici, ne avviò la riscoperta in Toscana, introducendone semi e coltura dal regno di Napoli dove gli uni e l’altra erano giunti attraverso le tradizionali relazioni con i Mori di Spagna: lo testimonia il nome di origine araba, harshùf, con cui si era soliti designare questa pianta.

Tutti i suoi nomi

Anche il nome botanico del carciofo, Cynara scolymus, merita qualche attenzione. Il termine che designa il genere, Cynara, secondo Lucio Giusto Moderato Columella, scrittore latino di origini spagnole del primo secolo d.C. e autore del più completo trattato di agricoltura dell’antichità, il De re rustica, deriverebbe da cinis, cenere, e sarebbe legato alla consuetudine dell’uso della cenere per rendere più fertili i terreni destinati a ospitare la coltura di questa pianta. Più poetica la spiegazione legata al mito: Cynara, una bella ninfa dai capelli color cenere avrebbe fatto innamorare nientemeno che il sommo Giove e sua moglie, Giunone, gelosa e a dir poco irritata dall’ennesima scappatella extraconiugale del marito, l’avrebbe trasformata in una pianta di carciofo, spesso caratterizzata proprio da questa sfumatura cromatica tra il grigio e il verde. Per altri, invece, dal greco classico kunara avrebbero origine sia il latino cynara sia il greco moderno agcynara e il turco enginar. Scolymus, invece, deriva dal greco e significa appuntito e fa riferimento alla forma non di rado allungata di alcuni tipi di carciofo.

In Spagna il carciofo è alcachofa, derivato sempre da harshùf, ma preceduto e unito all’articolo arabo al. Tutti vocaboli che sottolineano l’antica origine mediterranea del carciofo che quando si diffonde verso il nord Europa diventa artichaut in Francia e artichoke al di là della Manica, probabilmente dal greco-siciliano arcton da cui sarebbe disceso il neo-latino articacton.

Prende origine dal cardo

Famiglia delle Compositae, ignoto allo stato selvatico, il carciofo, grossa pianta erbacea perenne, deriva da progressive selezioni del cardo (Cardo Cardunculus) e la botanica lo conosce, appunto, come Cynara scolymus. Si presenta con un fusto eretto, che può raggiungere il metro e anche più d’altezza, con lunghe foglie lanceolate e pendenti e termina con un ‘capolino’, ovvero un’infiorescenza soda, piena e non ancora aperta, che costituisce la parte commestibile. E’ formato da un ricettacolo carnoso, tenero e bianco compreso tra brattee di color verde violaceo, giallognole alla base, chiamate comunemente e impropriamente foglie, che in alcune varietà possono terminare con una spina. Ogni anno, alla base del fusto, si formano nuovi polloni detti ‘carducci’ utili alla riproduzione.

Come il maiale: non si butta niente

Un po’ come succede per il maiale nel mondo dell’allevamento animale, anche del carciofo non si butta via nulla:

i suoi ‘capolini’, infatti, cotti o crudi, sono impiegati nella preparazione di antipasti, primi piatti e contorni e non si contano le ricette che li riguardano. L’industria conserviera, poi, li utilizza sotto forma di carciofini sott’olio, di cuori di carciofo in salamoia o al naturale, senza dimenticare la produzione di surgelati, disidratati, liofilizzati, oppure li trasforma in creme e purée;

i germogli, imbiancati mantenendoli sotto terra, sono spesso adoperati in cucina per il loro sapore molto simile a quello dei cardi;

le foglie, invece, oltre a risultare utili per l’estrazione dei principi attivi per i liquori, i prodotti farmaceutici, i cosmetici, i dolcificanti ipocalorici, costituiscono un ottimo alimento per il bestiame per il loro basso costo unito a un alto valore nutritivo. La fitoterapia le utilizza per decotti amarissimi al gusto ma capaci di abbassare, e non di poco, il tasso di colesterolo e di trigliceridi presenti nel sangue;

le sue radici e i suoi rizomi risultano utili nella preparazione di infusi per stimolare le funzioni epatiche, diuretici e leggermente lassativi;

gli scarti della lavorazione industriale del carciofo sono impiegati per l’estrazione di fibre, per la produzione di alcol, come mangime per il bestiame.

Carciofi greci, etruschi, romani

L’intero bacino del Mediterraneo, da occidente a oriente, dalle Canarie alle isole Egee, da Cipro alla Turchia, senza trascurare l’Africa settentrionale compresa l’Etiopia, avrebbe fatto da culla al carciofo, alla sua coltura e al suo uso alimentare. Ne parlano fin dall’ VIII secolo a. C. i testi greci, mentre la presenza di remote e abbondanti popolazioni selvatiche in prossimità degli insediamenti etruschi di Cerveteri hanno permesso di ipotizzare che proprio nel nord del Lazio e proprio a opera degli Etruschi abbia potuto avere origine il carciofo come pianta coltivata. Nella sua Naturalis historia Plinio il Vecchio documenta l’uso commestibile del carciofo, confermato dal De re rustica di Columella che, chiamandolo col nome latino di Cynara, ne conferma l’utilizzo a scopo sia medicinale, sia alimentare. Nel De re coquinaria Marco Gavio Apicio, crapulone e buongustaio dell’età di Seneca, parla di ‘cuori’ di cynara che, a quanto pare, i Romani apprezzavano lessati in acqua o vino. Altrimenti, nella Roma neroniana, i carciofi si preparavano “sfibrandoli, cuocendoli in acqua e poi pestandoli con farro, insaporendoli con pepe e legandoli con uova.” Il composto così ottenuto serviva “per farne dei salsicciotti guarniti con pinoli da grigliare, avvolti nell’omento e bagnati col vino.”

La lunga marcia del Cynara scolymus

Segnalato in Toscana col nome di ‘frutto di Napoli’ a partire dal 1466 e a Venezia dal 1493, il carciofo da principio non godette di eccessivo favore, tanto che ancora ai primi del Cinquecento Ludovico Ariosto affermava che "durezza, spine e amaritudine molto più vi trovi che bontade". Ma, proprio in quell' epoca, il nostro ortaggio iniziò a ricomparire frequentemente nei trattati di cucina, dove si spiegava anche come trinciarlo, e la stessa Caterina de’ Medici (1519 – 1589), divenuta regina di Francia, ne divenne estimatrice e consumatrice tanto golosa da rischiare una pericolosa indigestione. Così, in data 19 giugno 1578, annota Pierre de l’Estoile, cronista francese dell’epoca a proposito di un inconveniente in cui incorse la regina in occasione di un banchetto di nozze: “La Regina madre mangiò così tanto che si sentì male come non le era mai successo prima. Corse voce che il malanno fu dovuto all’aver mangiato troppi cuori di carciofo… di cui era molto ghiotta.”

Riguardo alla preferenze nel modo di consumare i carciofi, Michel de Montaigne (1533 – 1592), nel suo Diario di viaggio in Italia, scritto negli anni 1580 - 1581, annota che
"in tutta Italia vi danno fave crude, piselli, mandorle verdi, e lasciano i carciofi pressoché crudi".

Spagnoli, francesi e italiani introdussero il carciofo nel Nuovo Mondo dalla California, dove oggi si concentra circa l’80% della produzione a stelle e strisce, alla Louisiana: qui nei ristoranti tradizionali ve l’ammanniscono come contorno a un piatto di ostriche o di frutti di mare. Un’accoppiata gastronomica che dicono azzeccata, ma che è messa a repentaglio dalla devastante marea nera che dalla primavera del 2010 avvelena l’intero golfo del Messico.

La marcia trionfale di questa pianta non conobbe soste neppure nei secoli successivi, tanto che ai primi dell’Ottocento il grande gastronomo Grimod de La Reyniere ribadisce: “Il carciofo rende grandi servigi alla cucina: non si può quasi mai farne a meno, quando manca è una vera disgrazia. Dobbiamo aggiungere che è un cibo molto sano, nutriente, stomatico e leggermente afrodisiaco.”

Al servizio di Venere

Sì, probabilmente al ritorno dell’utilizzo del carciofo sulle nostre tavole giovò la fama afrodisiaca che per lungo tempo lo circondò, derivante con molta probabilità dal suo aspetto fallico. Certo è che tale nomea era già ben radicata nel 1557, se il Mattioli nei suoi Discorsi scrive: “la polpa dei carciofi cotti nel brodo di carne si mangia con pepe nella fine delle mense e con galanga per aumentare i venerei appetiti”. Un anno più tardi anche un’altra autorità in materia di cibo e buona salute, Costanzo Felici da Piobbico concorda attestando che i carciofi:
“servono alla gola e volentieri a quelli che si dilettano de servire madonna Venere”. Una convinzione ribadita anche da Bartolomeo Baldo che nel suo Libro della Natura, 1576, conferma che “Il carciofo ha la virtù di provocare Venere sia nella donna che nell’uomo: la donna la rende più desiderabile, mentre dà una mano all’uomo un po’ ‘pigro’ in queste cose…”

Le donne, beate loro, invece “non sono giammai minacciate da simile sventura, perché tutti i mesi, tutte le stagioni, tutti i tempi sono loro propizi.” A sostenerlo è un’autorità assoluta in materia, quel Pietro di Bourdeille, abate e signore di Brantome che con le sue ‘dame galanti’, o meglio Vies des dames galantes, 1584, inaugurò quel genere letterario tra il mondano e lo scandaloso che tanto successo avrebbe avuto nei secoli successivi e fino ai nostri giorni. La superiorità delle donne dipende da fatto che le donne sanno nutrirsi in maniera tale da sostenere sempre e comunque il desiderio: “… se pur vi sono alcuni frutti che possono recare refrigerio, altri ve ne sono che riscaldano terribilmente, ed è a questi cui le dame ricorrono più sovente, come gli asparagi, i carciofi, i tartufi… E, da quanto ho udito dire, alcune dame fan gran consumo di pasticci composti con le minutaglie dei galletti e cuori di carciofi e tartufi e altre simili leccornie”.
Una convinzione questa condivisa anche dal dottor La Framboisière, medico personale di Luigi XIII di Francia (1601 – 1643), per il quale: “I carciofi scaldano il sangue e spronano in modo naturale al gioco amoroso di Venere…”

Ancora oggi, usato metaforicamente e in senso burlesco, il carciofo – così come il cardo – può indicare il membro virile, oppure l’ano se ci riferiamo al suo cuore nascosto.

Carciofo versus colesterolo

Ampiamente note, fin dall’antichità, le sue virtù salutifere. Ricco di calcio, ferro, sodio, fosforo e potassio e vitamine A, B1, B2, C, PP, tonico e digestivo, grazie alla cynarina il carciofo provoca un aumento del flusso biliare e della diuresi, svolgendo un’importante funzione coleretica. Epatoprotettore ed epatostimolante è di grande aiuto nelle diete finalizzate a ridurre il tasso di colesterolo nel sangue, l’incubo di questi nostri tempi sedentari e satolli. Insomma, stimola il fegato, purifica il sangue, fortifica il cuore, dissolve i calcoli e sembra che contribuisca anche a calmare la tosse.

Doti terapeutiche che non erano sfuggite all’occhio attento dell’autorevole medico cinquecentesco Castor Durante da Gualdo (1529 – 1590), che nel suo Il tesoro della sanità, un diffuso breviario del ‘mangiar sano’ e ‘star bene’ d’età tardo rinascimentale, definisce i carciofi “aperitivi”, ovverosia capaci di ‘aprire’ lo stomaco al cibo, stimolarne la secrezione gastrica, e risultare “grati al gusto”. Essi provocano l’urina ma puzzolente, muovono la ventosità, e aprono l’opilazione e accrescono il coito; mangiati… fan buon fiato e levano ogni noioso odore del corpo.” Tra i “nocumenti”, ovvero le controindicazioni, lo studioso umbro nota che i carciofi “generano… umori malinconici. Sono molto ventosi, nuocono alla testa, gravano lo stomaco e tardano la digestione.” Si tenga allora presente che “cotti nel brodo e mangiati con pepe e sale in fin della mensa, sono manco nocivi e più grati allo stomaco.” Insomma, luci e ombre, che, mezzo millennio or sono, non arrestarono, però, la progressiva diffusione di questa pianta poliennale sulle mense dell’intero continente europeo.

Così, quando nel 1586 apparve il trattatello del medico umbro, già da almeno un secolo il carciofo aveva conquistato il titolo di alimento degno d’attenzione gastronomica studiato con interesse anche da Pier Andrea Mattioli, (Siena, 1500 – Trento, 1577), una delle massime autorità del tempo in materia di botanica applicata alla medicina e medico alla corte degli imperatori Ferdinando I (1503 – 1564) e Massimiliano II d’Asburgo (1527 – 1576): “Veggonsi a’ tempi nostri i carciofi in Italia di diverse sorti imperoché di spinosi, serrati e aperti e di non spinosi ritondi, larghi, aperti e chiusi se ne ritrovano.”


Capolini di tutti i tipi

Coltivato fin dall’antichità in ambienti anche molto diversi il Cynara scolymus conosce diversi tipi di produzione per forme, dimensioni e spinescenza dei capolini. Se i consumatori sardi, liguri, piemontesi e lombardi preferiscono orientarsi verso lo ‘Spinoso sardo’, nel Lazio e nella Campania sono apprezzati di più i tipi ’Romanesco’, senza spine, e ‘Campagnano’ dalle dimensioni maggiori, mentre in Toscana si preferisce il tradizionale ‘Violetto di Toscana’, anche questo dal capolino privo di spine. Il carciofo più largamente coltivato nell’Italia meridionale è il ‘Catanese’ o ‘Violetto di Sicilia’, oggi il più diffuso nel nostro Paese che conosce un’infinita varietà di nomi (‘Gagliardo’, ‘Niscemese’, ‘Siracusano’, ‘Di ogni mese’, ‘Liscio di Sicilia’, ‘Liscio sardo’, ‘Locale di Sibari’, ‘Precoce di Mola’, ‘Violetto del Salento’, ‘Brindisino’… e così via) ed è coltivato soprattutto nelle carciofaie della Puglia, attualmente la regione italiana maggiormente interessata alla cinaricoltura.

Tifosi del carciofo

Caterina de’ Medici, regina di Francia per il matrimonio con Enrico II, non fu l’unica testa coronata ad apprezzare il nostro spinoso ortaggio. Prima di lei lo aveva gradito Enrico VIII d’Inghilterra (1491 – 1547) che lo faceva coltivare nel suo giardino privato nel Newhall e dopo ne saranno entusiastici estimatori sia Luigi XIII, sia il Re Sole, Luigi XIV di Francia, nelle vene dei quali da parte di Maria de’ Medici (1573 – 1642), rispettivamente madre e nonna, scorreva un bel po’ di sangue italiano.

I carciofi e l’Italia: un’accoppiata sempre presente nel senso comune diffuso fino ai nostri giorni. Sigmund Freud, il padre della psicanalisi era un goloso mangiatore di carciofi e li gradiva al punto da… sognarli spesso. Li interpretava come un simbolo dell’Italia e li definiva “i miei fiori preferiti”.

Anche Marilyn Monroe (1926 – 1962), la più famosa sex-symbol del cinema hollywoodiano, molto probabilmente apprezzava il carciofo. Sì, perché nella preistoria della sua tormentata carriera, nello stesso anno a cui risalgono alcuni nudi fotografici da togliere il fiato, il 1949, la troviamo insignita del titolo di Artichoke Queen, regina del carciofo, ottenuto in occasione dell’Artichoke Festival, che si svolge tutti gli anni a Castroville in California, in un’area a fortissima presenza italiana. Quasi la prefigurazione in negativo di un destino: infatti, le brattee protettive del successo, della fama, della notorietà non riuscirono a tutelare il tenero cuore di un’attrice tanto bella quanto brava e sensibile, splendida nel film-commedia dai toni insieme candidi, erotici e ‘amaricanti’.

Carciofi dipinti

Frutta, fiori, libri, armi conchiglie… Questi gli elementi utilizzati dal pittore milanese Arcimboldo (1527 – 1593) per creare le sue bizzarre teste allegoriche in cui, come è stato scritto, l’Artista lombardo “scarta completamente l’uomo e trattiene gli oggetti che lo definiscono, per sostituirli a lui” (Sluys).

Non fa quindi meraviglia ritrovare il Cynara scolymus come ingrediente discreto ma significativo di un paio di quadri dell’abilissimo manierista: L’estate e il Vertumnus, il dio dei cambiamenti, dell’avvicendarsi delle stagioni, dei fiori e dei frutti, marito di Pomona.

Anche il meno famoso Vincenzo Campi (1536 – 1591), pittore cremonese sensibile sia al naturalismo della scuola bresciana, sia alle influenze fiamminghe, nella sua opera più nota L’ortolana, non disdegna di usare il carciofo come dato decorativo e narrativo.


Un carciofo poetico

Il più bell’elogio letterario del carciofo? Senz’altro quello che possiamo leggere nelle Odas elementales di Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971: così, attingendo al suo sentimento appassionato per la natura e a una concezione materialista dell’esistenza, il poeta cileno trasfigura poeticamente il nostro simpatico ortaggio riuscendo a trovare più e meglio che per altri motivi ispiratori accenti di rara semplicità e intensità:


Ode al carciofo

Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
ispida edificò una piccola cupola,
si mantenne all'asciutto sotto le sue squame,
vicino a lui i vegetali impazziti si arricciarono,
divennero viticci,
infiorescenze commoventi rizomi;
sotterranea dormì la carota dai baffi rossi,
la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino,
la verza si mise a provar gonne,
l'origano a profumare il mondo,
e il dolce carciofo lì nell'orto vestito da guerriero,
brunito come bomba a mano,
orgoglioso, e un bel giorno, a ranghi serrati,
in grandi canestri di vimini,
marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno:
la milizia.
Nei filari mai fu così marziale come al mercato,
gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano i generali dei carciofi,
file compatte,
voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade,
ma allora arriva Maria col suo paniere,
sceglie un carciofo, non lo teme, lo esamina,
l'osserva contro luce come se fosse un uovo,
lo compra,

lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe,
con un cavolo e una bottiglia di aceto finché,
entrando in cucina,

lo tuffa nella pentola.
Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama

carciofo,
poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica

pasta
del suo cuore verde.




Carciofi politici

Locuzione ricorrente nel linguaggio degli uomini politici prudenti, “portare avanti la politica del carciofo” indica la realizzazione di obbiettivi strategici attraverso modesti ma costanti progressi così come una foglia dopo l’altra si mangia tutto il carciofo.

Sembra che la paternità di questa espressione tocchi a Carlo Emanuele III, re di Sardegna (1701 – 1773), che, non riuscendo a impadronirsi dell’agognata Lombardia e di Milano fece di necessità virtù accontentandosi delle molto meno significative Novara e Tortona e del consolidamento dei confini al Ticino. La fertile e operosa pianura lombarda e la città di sant’Ambrogio sarebbero diventate sabaude solo molti anni e molti carciofi più tardi.


Carciofi televisivi

Correva l’anno 1957. Per l’esattezza erano le ore 21,00 del 5 febbraio, quando con Carosello nasceva in Italia la pubblicità televisiva. Allegra, incalzante la musica che lo annunciava era la rielaborazione di un brano napoletano di autore anonimo; sigla e siparietti ispirati alla Commedia dell’arte; messaggi pubblicitari della Shell italiana, Oreal, Singer e, per quello che interessa queste pagine, il Cynar: un amaro allora assi diffuso nei bar, sulle tavole e nelle consuetudini alimentari di fine pasto degli italiani. Ebbene sì, il carciofo, o meglio il liquore estratto dalle sue foglie e radici, partecipa a questo evento aurorale destinato a entrare nella storia del costume e dello spettacolo di intrattenimento leggero: i lettori meno giovani ricorderanno senz’altro un brevissimo film (due minuti e 15 secondi), interpretato da quel gran signore e attore che è stato Ernesto Calindri (1909 - 1999) che si chiudeva invariabilmente con la battuta: “Cynar, contro il logorio della vita moderna.”

La parola stress oggi usata e abusata era ancora di là da venire.

Indimenticabile !

Carciofi e numeri

Interpretare i piccoli fatti della vita quotidiana, oppure i grandi avvenimenti della cronaca nazionale e internazionale, per ricavarne combinazioni di numeri da giocare al Lotto è sempre stata una caratteristica del costume popolare, spiccatamente dei Napoletani: si leggano in proposito le illuminanti pagine, oscillanti tra l’ispirazione verista e un’attenzione ai dettagli degna di un’antropologa culturale, che la giornalista e scrittrice Matilde Serao (Patrasso, 1856 – Napoli, 1927) dedica al gioco de lotto nel suo celebre Il ventre di Napoli, 1884. E per mettere in relazione i fatti e le vicende dell’esistenza di ogni giorno, sogni compresi, con i numeri basta consultare La Smorfia (deformazione popolare di Morfeo, dio del sonno) o Libro dei Sogni.

Lì apprendiamo che il carciofo fa 58, ma se sono più di uno allora il numero in questione è il 44. Attenzione, però: se i nostri ortaggi sono fritti o arrostiti allora bisogna fare riferimento all’87, se fritti e indorati al 64, se appena appena scaldati il vostro numero è il 15. Qualora, poi, non si parli di carciofi ma solo di carciofoletti selvatici allora ritorna il 64.

L’autore di queste note declina qualsiasi responsabilità circa il valore effettivo di tali indicazioni.