10 luglio 2021

"Il giardino delle delizie" di Joyce Carol Oates

 


di Giulietta Isola

“Clara profumava di sole, di mais bruciato dal sole e di grano, e i suoi occhi si muovevano involontariamente verso il cielo dove il futuro si dipanava delicatamente per sempre, senza conoscere confini. Là, tutto poteva succedere: dovevi semplicemente essere vivo”.

 

       Nessuna delizia in questo giardino, solo tanta povertà, precarietà, sofferenza ed un sogno americano che appare un abbaglio, oggi uno come Carleton Walpole sarebbe un “White trash”.

       L’uomo viaggia con sua moglie e molti braccianti per gli Stati Uniti alla ricerca di fattorie per lavorare, viaggiano ammassati come maiali in uno sferragliante furgone tanto malmesso che cammina per grazia di Dio, è gente a cui nessuno tiene, costretta ad arrancare nel fango o sotto un sole implacabile, gente povera ed ignorante che pensa di non valere niente, di non meritare nulla.

       La strada è viscida di pioggia, l’autista perde il controllo, il furgone sbanda e si rovescia sul ciglio della strada. Carleton riesce ad uscire, si alza, è furente, teme per la moglie che aspetta un figlio, ma non ci sono feriti, la miseranda congrega continua a piedi per trovare un lavoro a cottimo nelle piantagioni in mezzo a caporali senza scrupoli.

      Sono gli anni cinquanta e sessanta in un’America proletaria e la vita dei Walpole segue le “rotte” tracciate dai bisogni dei grandi coltivatori. Clara è la figlia prediletta di Carleton e sarà lei, nonostante l’affetto che li lega, a subirne la violenza ed a fuggire. Mentre ricorda la puzza di suo padre, lo schiaffo in pieno viso, la ragazza ancora minorenne, guarda avanti con coraggio ed ambizione, cerca di nuovi obiettivi da raggiungere, né violenza, né dolore o umiliazione possono fermarla, non perde mai di vista l’obiettivo, sa come badare a sé stessa senza grandi gesti e con apparente mitezza. Si innamora perdutamente di Lowry che la protegge e si prende cura di lei, i due hanno un figlio, Steven, che lei ama chiamare dolcemente “Swan”.

     Tra il 1966 e il 1969 Joyce Carol Oates ha scritto la quadrilogia, Epopea americana, con l’idea di raccontare il “grande sogno americano” visto dalla prospettiva di classi sociali differenti, questo è il primo volume e comincia dal gradino più basso: i braccianti agricoli.

      La narrazione non è semplice e il romanzo è complesso, l’autrice dà voce a tre generazioni: Carleton, il giovane capofamiglia che riesce a stento a mantenere la sua famiglia e che affoga nel bere i suoi problemi e le sue frustrazioni, Clara che riesce ad entrare in una diversa fascia sociale e Swan, il figlio sua unica ragione di vita oppresso da doveri e ansie. Il sogno di emancipazione si sgretola sotto i nostri occhi di lettori, non c’è una redenzione possibile e la Oates non cerca e non dà facili consolazioni, il suo sguardo sulle miserie umane e sulla voglia di emergere e di arricchirsi è impietoso, mette a nudo i lati oscuri della società americana nella quale la fede è vista come un rifugio dalle difficoltà del vivere, la sua America è moralmente corrotta ed in preda ad un saccheggio economico, una nazione che ha perso la sua innocenza o forse non la ha mai avuta, ai ferri corti con i propri ideali e con le proprie visioni magniloquenti.

      Sono passati cinquanta anni dalla prima stesura, ma ho l’impressione che l’aumento odierno di disparità fra classi sociali sia esattamente la stessa raccontata in queste pagine.

      Oates , eclettica e talentuosa dà l’avvio ad una nuova e importante epica americana, in cui la lingua e la storia, sulla quale aleggia luminoso lo spettro di John Steinbeck, si rivelano capaci di inventarsi ora facendosi evocative, ora invece mostrandosi fresche e improntate alle suggestioni della realtà ed i suoi Walpole sono caparbi, bizzarri, imprevedibili, ribelli presi da manie di grandezza e autodistruttivi, hanno un linguaggio grezzo ed un pessimo carattere che si infiamma all’improvviso, sono violenti come molti economicamente svantaggiati, sono ritratti autentici e molto realistici di individui unici in sé e per sé, ma rappresentativi di molti altri all’interno delle loro generazioni e classi sociali.

      Questo giardino della delizie è epico e grandioso anche se si rivela meno accogliente di quello che sembra e la Oates sempre avara di gioie con le sue storie, ma generosa con la qualità della sua scrittura. Da leggere.

 

IL GIARDINO DELLE DELIZIE 

di JOYCE CAROL OATES 

IL SAGGIATORE 

Traduzione di FRANCESCA CRESCENTINI 

euro 21.00

 


04 luglio 2021

“Una Nuova Prospettiva” di Emanuela Ponzano

 

di Gianni Quilici

       Un corto di 15 minuti (presentato in anteprima mondiale al 38° Torino film festival) in un bosco di  alberi alti e svettanti lungo la linea di un confine, in un paese imprecisato dell’Europa dell’Est. Tre ragazzi  cercano resti appetibili lasciati dal passaggio di profughi. Tre ragazzi con personalità contrapposte. Il protagonista contemplativo verso la bellezza del creato (lo sguardo volto anche verso l’alto tra alberi e cielo), ma soprattutto profondamente empatico verso la tragedia che questi poveri oggetti lasciano trapelare e che per associazione gli rimandano  una tragedia  che quel bosco aveva conosciuto, durante la seconda guerra mondiale; gli altri ragazzi, diversamente, vivono la futilità del loro presente consumistico, chiusi a ciò che sta accadendo, come dentro a una cappa che li rende ciechi.

       Un corto realistico e simbolico, poetico e politico. Apparentemente semplice, in verità complesso per il sottotesto simbolico.   Cinematograficamente ambizioso, perché mescola nello stesso tempo e con il medesimo linguaggio realistico il passato come visione immaginaria (la ferocia dei nazisti nei confronti di una coppia con la loro bambina) con il presente ( donne, uomini, bambini in fuga dalla guerra e dalla fame picchiati e ammassati alla frontiera), rendendo implicito il  messaggio didascalico.

     Una scelta che mi ha fatto pensare all’ultimo Buñuel, dove immaginazione e realtà si fondevano naturalmente. In Buñuel con la leggerezza di una sottile adorabile ironia; in Emanuela Ponzano attraverso uno sguardo, lo sguardo drammatico del protagonista,  Zoltan Cservak, già visto nel premiatissimo “Il Figlio di Saul”.

      E questo straordinario sguardo, è l’utopia. La contrapposizione  contro la ferocia del Potere, e di un certo potere, presente e passato, ma anche verso l’indifferenza apatica dei suoi due compagni. Ed è questo sguardo doloroso, empatico, riflessivo e infine anche propositivo, di chi agisce come può, la “nuova prospettiva” come utopia possibile. Utopia che nasce dalla memoria,  da una scelta morale che diventa azione.

      Qui attraverso il cinema, il linguaggio del cinema che, come nota Mimmo Mastrangelo ne La linea dell’occhio , “trova un alto compimento tanto nei trattenuti movimenti di macchina di Emanuela Ponzano, quanto nella curata fotografia di Daniele Ciprì”.


UNA NUOVA PROSPETTIVA

Regia: Emanuela Ponzano
Anno di produzione: 2020
Interpreti: Zoltan Cservak , Donatella Finocchiaro, Ivan Franek.
Sceneggiatura: Emanuela Ponzano, Simone Riccardini

Musiche: Teho Teardo .Montaggio: Marco Spoletini. Costumi:
Grazia Colombini.  Scenografia: Cristina Bartoletti, Ilaria Sadun. Fotografia: Daniele Ciprì

 

01 luglio 2021

"Il dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni". di Paolo Pecere

 


 

di Angela Giovanna Palermo

“Facciamo che io ero…”

Quanti di noi hanno usato questo imperfetto poetico nella loro infanzia.

Il viaggio vorticoso di Paolo Pecere parte proprio da qui, dall’infanzia, la terra della memoria, per proseguire verso due mondi: uno esteriore, reperibile sulle mappe, e uno interiore, difficilmente codificabile. Questi due mondi a volte risultano paralleli, altre volte fusi. L’autore si immerge in entrambi, con un coraggio e una profondità che solo pochi intellettuali osano; lo fa attraverso un linguaggio polisemico, utilizzando un registro linguistico che sapientemente passa dal racconto intimistico alla trattazione accademica, senza mai perdere di uniformità e di continuità.

Il sottotitolo: “Viaggi, trance, trasformazioni” si può leggere come una specie di triade dialettica hegeliana, dove i viaggi sono la tesi, la trance l’antitesi necessaria per giungere alla sintesi: la trasformazione.

In questo saggio narrativo filosoficamente densissimo e molto erudito, scientificamente impeccabile, è proprio la trasformazione il fil rouge che lega i vari elementi analizzati con immedesimazione estatica e distacco analitico.

Il viaggiare, ci dice l’autore, “pone le condizioni di una trasformazione dell’io”. Questo tipo di trasformazione ha qualcosa in comune con quella sperimentata nell’esperienza di diventare “altro” nella trance, fenomeno investigato partendo dal Salento, seguendo le tracce di De Martino, per poi proseguire in Kerala, Pakistan, Brasile, Mali, India, America, luoghi visitati direttamente dall’autore, viaggiatore solitario, sempre in grado di trasmettere il suo personale e totale coinvolgimento per le vicende narrate, senza mai cadere nel narcisismo autobiografico ma, anzi, preservando il lettore da certo astrattismo teorico che caratterizza molti testi di antropologia filosofica.

Paolo Pecere viaggia seguendo le tracce di un dio che danza e lo fa in una prospettiva transculturale.

Se si considerano globalmente le prospettive multiculturali delle civiltà analizzate nel saggio, si può giungere alla conclusione, necessariamente parziale, che i concetti occidentali di Io e di Persona, espressione di universi filosoficamente e giuridicamente delimitati, sono un’eccezione.

Il concetto di identità è un’entità complessa, molteplice. L’autore cita nel libro un verso di Walt Whitman: “Sono vasto, contengo moltitudini”, per spiegare non la reale molteplicità del Sé, ma per marcare la mancanza di orizzonti dell’esperienza del Sé che non si può circoscrivere entro confini netti, se non al prezzo di soffocarlo. L’esperienza di se stessi è dunque un processo mai concluso che ha bisogno di comprendere gli altri per comprendere se stesso. In questo senso si può interpretare l’affermazione: “Il sé è un danzatore”. Con l’immagine del sé danzante la metafisica scivaita indica una concezione mistica della natura che ha concepito un’identità tra io e natura, molto simile al panteismo della filosofia romantica europea. Il sé danzante è dunque, nietzchianamente, il dionisiaco, un impulso a varcare i confini ristretti dell’idea occidentale di identità, i limiti della quotidianità, la polarità tra apollineo e dionisiaco; per immergersi, almeno temporaneamente, nell’estasi della danza, per ritrovare il senso di un’unità primigenia.

Il furore dionisiaco è solo in apparenza contrario e distante dal razionalismo occidentale che, dalla res cogitans di Cartesio all’Io penso kantiano, ha individuato nella Persona il centro nevralgico della nostra identità che il filosofo definisce, felicemente, come un “composto di differenze”( basti pensare  al daimon socratico e alla tripartizione dell’anima operata da Platone nel Fedro).

Nella civiltà occidentale, tuttavia, sono state solo le istanze della psicoanalisi ad accogliere l’idea di una molteplicità del soggetto che, al di fuori, del contesto psicologico non è legittimata.

Nel libro l’autore si pone criticamente di fronte al problema di valutare la trance di possessione come tecnica psicoterapeutica. Lo fa analizzando la posizione di Lévi-Strauss che paragonò lo sciamanesimo alla psicoanalisi e quella di Jung che già nel 1918 aveva individuato nello sciamanesimo un precedente della psicoanalisi. La risposta di Pecere è negativa, in quanto le istanze della psicoanalisi tendono a reintegrare le pulsioni dell’Es all’interno dell’Io che, invece, nella trance di possessione si dissolve per scoprire e sperimentare nuove identità.  È questo uno dei punti più complessi e interessanti del saggio, in quanto il filosofo allarga l’analisi a una dimensione anche “politica” e sociale del fenomeno della trance da possessione, mettendo bene in luce un’ambivalenza fondamentale. Egli, d’accordo con il punto di vista espresso da De Martino nel Mondo Magico il quale sottolinea i pericoli di un ritorno indiscriminato al magismo, pone il lettore di fronte al rischio di ciarlataneria insito nello sciamanesimo che da pratica liberatoria e disinibitoria, può rivelarsi un contenitore in cui riversare la fragilità della coscienza individuale e collettiva, “una fuga dalla realtà nel mito”, distruggendo la coscienza critica che rischia di trovare rifugio nel fanatismo e nella personalità carismatica. In quest’ottica l’autore analizza il fenomeno della sciamanizzazione della Germania da parte di Hitler, ma anche le attuali politiche scellerate di personaggi grotteschi come Bolsonaro e Trump, espressioni dell’“uomo forte”. Emblematica e sinistra, a riguardo, diventa allora la visione dello “sciamano di Qanon” che il 6 gennaio scorso ha guidato l’assalto di un gruppo di manifestanti pro-Trump – suoi fedelissimi – al Congresso americano. 

Storicamente, il dionisiaco, l’ebbrezza, gli stati di incoscienza, sono stati necessari a farci sentire parte di un tutto più ampio, non etichettabile, in cui la nostra identità si perde per riscoprirsi trasformata. Come sottolinea Giorgio Colli nella sua introduzione a La nascita della tragedia di Nietzsche: “Per la liberazione la natura umana ha due strumenti, il mito greco ha due dei (…). Quegli dei non dispongono soltanto del sogno e dell’ebbrezza, come strumenti di liberazione. Prima d’ogni altra cosa, e in comune, possiedono l’uomo con la follia”.

La fisica quantistica, oggi, sta giungendo alle stesse conclusioni appena accennate, e lo sta facendo battendo vie assolutamente scientifiche. Non ci stupiamo, dunque, di scoprire che di fronte al CERN di Ginevra campeggia una statua gigantesca di Shiva che rappresenta la danza cosmica e anche il potere divino, Maya, di cui parla diffusamente Schopenauer nella sua opera principale: Il mondo come volontà e rappresentazione (1819): velo di natura metafisica e illusoria, che separa tutti gli esseri individuali dalla conoscenza della realtà profonda che si nasconde sotto questo eterno gioco ingannevole, per cui la breve esperienza della vita umana, compresa tra un nulla ed un altro nulla, si presenta come un vero e proprio sogno.
La fisica quantistica ci dà la stessa identica visione del mondo apparente in cui siamo immersi: la Realtà è un substrato universale costituito da “oggetti” immateriali ed inconoscibili, che chiamiamo “particelle” subatomiche, coinvolti in una eterna danza incessante di creazione e distruzione, base di tutto ciò che esiste.

Quando Paolo Pecere descrive le danze, le possessioni da trance a cui assiste, la sua scrittura riesce a riprodurre l’ebbrezza di quei corpi che si eccitano al ritmo del dionisiaco, che si contorcono, che girano vorticosamente, che diventano altro, che entrano in un altro. Le parole diventano menadi, il ritmo si fa ditirambesco, la prosa diventa una vera e propria semantica incarnata. Il lettore invasato “danza, danza, danza”.

A questo punto, l’autore tocca un punto fondamentale dell’opera: l’empatia impossibile verso i danzatori posseduti e finanche verso nei stessi. Contro le convinzioni dominanti, Paolo Pecere mette in luce la fragilità dell’empatia che contiene in sé straniamento e, al contempo, intensificazione del sé. Empatizzare, immedesimarsi può essere liberatorio e disturbante; può comportare una paralizzante perdita del sé o sfociare nell’identificazione così come nell’abolizione della differenza dell’altro. La posta in gioco di una riflessione sull’empatia sembra essere per l’autore la messa in discussione della globalizzazione, dell’uniformità come destino. L’empatia, dunque, come scoperta dell’altro e laboratorio di esperienze. 

Il rifiuto del filosofo della globalizzazione come destino riguarda un altro punto assolutamente essenziale dell’opera, di cui l’autore fa sentire tutta l’urgenza. Si tratta del problema ecologico che attraversa l’intero saggio come un leitmotiv teorico e poetico.

Le descrizioni della natura incontaminata, degli animali, dei nativi, producono nel lettore un sentimento molto simile al sublime kantiano. In queste descrizioni si avverte potentemente la tensione della narrazione di un Io viaggiante sospeso tra la ricerca dei posseduti e la ricerca di se stesso.

Paolo Pecere mescola sapientemente il sentimento estetico all’analisi scientifica, il pensiero ecologico alla critica delle politiche neoliberiste, richiamando le tesi del naturalista Alexander von Humboldt. Riporta al lettore le sue sensazioni stranianti della foresta come “esperienza sensoriale e corporea difficilmente descrivibile”.

La sua inquietudine ecologica si trasforma in una domanda esistenziale e politica che si radica nella mente del lettore come quelle radici descritte nel libro “filiformi o nodose che salgono da terra e scendono dal cielo”: è possibile un’altra vita?

La risposta a questa domanda mette in crisi la visione occidentale dominata dal capitalismo che vorrebbe investire anche luoghi e culture dominate da diecimila anni da un rapporto diverso tra uomo e natura, da una visione più ampia e complessa di morte e vita.

Alla fine di questo incredibile viaggio letterario e simbolico, nel lettore si insinua la voglia, simile a una smania dionisiaca, di viaggiare per sperimentare nuove vite e altre dimensioni del sé.

Ogni viaggio, tuttavia, deve partire da un unico porto: la conoscenza e il rispetto assoluto degli ecosistemi diversi dai nostri.

L’ecologia come forma insostituibile di libertà. 

Paolo Pecere. Il Dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni. Nottetempo. Euro 18,00.