22 dicembre 2005

SANDINO, IL GENERALE DEGLI UOMINI LIBERI di Maurizio Campisi

di Nadia Davini
“Dedicato a coloro che almeno una volta nella vita hanno lottato per un ideale”. -


Ogni tanto, più o meno ogni due anni, dalla Costa Rica torna in Italia un figlio della città di Rivoli che ha scelto di fare l’emigrante al contrario e di trasferirsi all’ombra del tropico. Per andarsene da un Paese che non gli ispirava più fiducia, soprattutto. Per amore, anche. Maurizio Campisi ha più di quarant’anni (Rivoli, TO, 1962). Vive al tropico, vive da «tico», cioè da costaricano verace, ed è la dimostrazione che, in fondo, giornalisti non solo si nasce o si diventa, ma si rimane.

Campisi è stato cronista del giornale “Rivoli15” negli anni Ottanta, direttore della “Gazzetta di Venaria” (di cui è stato co-fondatore) e di “Rivoli15” tra il 1991 e il 1992. Nel 1993 ha lasciato l’Italia, destinazione San Josè e collaboratore di “Dario”, “Narcomafie”, “D di Repubblica”, oltrechè corrispondente dall’America Centrale per il quotidiano “La Juventud” di Montevideo. Nel 2002 ha pubblicato, per Fratelli Frilli Editori di Genova, “Centroamerica – Reportages”, una raccolta dei suoi lavori giornalistici.

È in uscita, per lo stesso editore, la sua traduzione in italiano di Adiós muchacho, memoria della rivoluzione sandinista scritta da Sergio Ramírez, ex vicepresidente del Nicaragua sandinista. E proprio su Sandino, eroe nicaraguense simbolo della lotta rivoluzionaria, Campisi ha concentrato le sue ultime attenzioni letterarie scrivendone la biografia Sandino, Il generale degli uomini liberi. Eroe tragico e romantico, Sandino è entrato negli anni passati nella storiografia marxista. Invece il Sandino di Campisi viene proposto in una nuova veste, che ne riscopre il significato popolare, il suo spirito nazionalista ed anti-imperialista. Augusto César Sandino, è stato il precursore della lotta all’Impero. È cresciuto in un Paese occupato che ha preso le armi per reclamare il diritto all’autodeterminazione del suo popolo. Una figura attualissima nel panorama internazionale.

Riscoprire Sandino è come rivedere, alle origini, l’azione di una potenza imperialista, gli Stati Uniti, che a distanza di un secolo continua ad usare gli stessi metodi e la stessa politica di inizio Novecento. Oggi come ieri, lo scontro tra gli Stati Uniti e i suoi nemici è uno scontro tra culture, una che vuole predominare su un’altra, imponendo prima con la persuasione e poi con la forza le proprie prerogative. Una biografia ricca di particolari, in cui spiega in modo chiaro le intricate vicende della guerra civile nicaraguense. A delineare la figura di Sandino sono le sue gesta, ma anche le corrispondenze e gli scritti lasciati, da cui trapela il radicatissimo amore per la propria terra e per l’ideale cui voterà tutta la vita. In moltissimi lo seguirono e ancora oggi il suo nome è un simbolo ed una bandiera. Sandino, però, non fu mai un mito irraggiungibile: Campisi ce lo descrive piuttosto come un eroe popolare, concreto e testardo, “il generale” degli uomini e delle donne comuni, capace di restituire unità e identità a un popolo provato da decenni di sudditanza nei confronti dello straniero e dei tiranni locali ad esso venduti. Forse la magia di Augusto Cesàr Sandino stava proprio in questo: i suoi tratti regolari non denunciano una bellezza cinematografica; ha il volto segnato di qualunque contadino centroamericano; il cappello, poi, bianco alato con una striscia alla base, è quello di tutti i lavoratori che si recano a lavoro sotto le stelle mattutine. La sua grandezza è la sua ribellione.

Sandino imparò a dire di no agli americani in Messico, coi rivoluzionari di quel paese, e vide che si poteva mantenere la dignità e la vita contemporaneamente. Avvolto nella sua dignità, Augusto Cesàr Sandino va incontro alla morte. Lo uccidono di notte, sotto il cielo pieno di stelle, e la sua figura resta sospesa, come un’aura sopra la testa dei suoi uccisori. Conoscere la storia di questo eroe semplice è imparare cos’ è il Centroamerica e dove scorrono le sue arterie più nascoste, là dove la gente ricorda e recupera il suo statuto di umanità. È per questo che il libro di Campisi riempie una necessità, e allo stesso tempo, racconta in uno stile scorrevole, piacevole e incantato la storia di un orgoglio e di una libertà.

Maurizio Campisi, Sandino, il generale degli uomini liberi, Fratelli Frilli Editori, Genova 2003, pp.191, euro 13,50.

La prova del pozzo di Mbacke Gadji, Kelefa,

Un romanzo per raccontare l’incomprensione tra le culture - recensione di Nadia Davini

Mbacke Gadji ha 39 anni, è nato a Nguith, in Senegal e si è scoperto scrittore dieci anni fa, quando è approdato in Italia dopo essere vissuto già otto anni in Francia. Kelefa La prova del pozzo è il suo quarto titolo, dopo Numbelan: il regno degli animali, Lo spirito delle sabbie gialle e Pap, Ngagne, Yatt e gli altri. Libri che tessono leggende, ariose o cupe, del suo Senegal, con il tema fondamentale dello straniamento e del confronto tra culture, sviluppato con la sensibilità di chi si pone come mediatore tra due mondi diversi con il timore di essere estraneo a entrambi. “Cerco di essere un interprete” spiega infatti Gadji. È partito dal suo paese natale con un diploma di maturità in tasca, in Francia ha preso una laurea breve in economia e qui, in Italia, ha cominciato a scrivere, mosso da un sentimento/risentimento, dalla voglia di tornare alle sue origini e informare su idee e affetti che nel nostro paese talvolta sembrano non essere capiti o peggio accettati.
Kelefa La prova del pozzo è la conferma della frustrazione del patrimonio culturale di una generazione: Kelefa Sane è il nome di una famiglia che ha avuto una grande importanza nella vita delle popolazioni del Senegal meridionale. Un passato glorioso rispetto al quale gli esponenti del mondo attuale reagiscono in modi diversi: disinteresse o passione; indifferenza o fastidio, negando oppure cercando nel recupero delle tradizioni un radicamento più profondo perché, come afferma uno dei personaggi, “ la storia e il passato dell’umanità devono avere uno spazio nella nostra vita, non sono né da rimuovere né da riscrivere, vorrei tanto che potessimo pescare in questo patrimonio per fronteggiare i nostri problemi di esistenza”. Così cultura e tradizione si scontrano con il mito del progresso creando una lacerazione profonda e conflitti sulle possibili prospettive di sviluppo.
La prova del pozzo non è solo un ritorno al passato alla riscoperta di antenati e di verità, ma può essere letta anche come una metafora che coinvolge tutto il libro dalle prime descrizioni. Infatti, gli abitanti dei luoghi descritti dall’ Autore vivono ammassati gli uni ridosso agli altri come se fossero racchiusi dentro a un pozzo. Le nostre certezze (banalmente un distributore, una rete autostradale) spesso sono messe in discussione perché sulle strade africane è dai carretti dei bambini, dagli asini e dalle pecore, dalle buche profondissime, dal caldo impossibile che devi guardarti e soprattutto abbandonarti.
Non sono scivolati via i lunghi anni di colonialismo che ancora oggi, anche se in modo non diretto, influenzano la vita di queste persone fino a far apparire il modello occidentale come l’unico possibile. Per questo spesso l’obiettivo diventa la migrazione, la ricerca di fortuna da parte di almeno un membro della famiglia, capace poi, attraverso il lavoro e il nuovo status non sempre ottenuto facilmente, di contribuire al mantenimento di tutti. Ma tutto questo ha un costo: si cambia e spesso non si è riconosciuti dalla nuova comunità di appartenenza e neppure né da quella d’origine.
Il romanzo documenta anche questo. Racconta di come ciò che era è stato perso, e ciò che è sia lontanissimo da quello che si è diventati per necessità e sopravvivenza. Ecco la difficoltà, ma anche l’interesse, che può suscitare la lettura di un libro scritto da un autore senegalese, immigrato da molti anni, con il cruccio di tornare, prima o poi, a vivere nel suo Senegal.
Il libro è pervaso da un senso nostalgico nei confronti della tradizione: si valorizza più l’investitura di un re su un trono fittizio e un regno frantumato in mille pezzi piuttosto che accertare la potabilità dell’acqua o impegnarsi a limitare le povertà diffuse in ogni angolo del paese. Di grande interesse la descrizione del percorso quasi rituale, attraverso il quale il lettore sperimenta e comprende la sensazione di spaesamento, di perdita di punti di riferimento che l’immigrato sconta nel momento in cui si confronta con un paese diverso e così distante dal suo e al quale spesso non può tornare. Ci si può adattare senza perdere i propri valori? Si può rimanere ancora intimamente legati alla propria terra, pur permeati dalla cultura occidentale? Si rifletta sulle parole del protagonista del libro: “se moderno è rimuovere la storia e sviluppo è fare solo ciò che produce ricchezza, io mi astengo dalla creazione di una tale società”.

In grandi città come Roma o Bologna, libri come La prova del pozzo vengono venduti per strada, senza passare per l’intermediazione della libreria, dagli stessi immigrati che si trasformano in piccoli imprenditori: comprano uno stock di copie della casa editrice al cinquanta per cento del prezzo di copertina e alla vendita guadagnano l’altro cinquanta per cento. Insomma, con sei euro e novanta, abbiamo comprato un bel libro, sostenuto un modo originale di praticare l’ editoria e fatto guadagnare tre euro e quarantacinque centesimi al “libraio” senegalese. Che, prima di uscire per strada a proporre la sua merce, i romanzi di Mbacke Gadji se li deve leggere e meditare: perché, forse, sono stati scritti proprio per lui.
Nadia Davini



Mbacke Gadji, Kelefa, La prova del pozzo, Edizioni dell’Arco-Marna, Milano 2003, pp.125, Euro 6,90.

"Storie di senegalesi inToscana" di Giuseppe Cecconi

di Nadia Davini

La parola è molto più ricca di quanto appaia. Ogni parola è una sinfonia di suoni, reca potenti depositi storici e racchiude un intero mondo di concetti. Il suo vero significato ci appare nello momento stesso in cui la pronunciamo. È l’apice della maturità di ogni processo, il grado ultimo della soggettività e il primo dell’oggettività. I nomi propri hanno perfino una natura metafisica, si presentano con un’energia intrinseca e, dal punto di vista ontologico, con un essere proprio: perciò occorre che il nome acquisti fama e gloria.
Sulla storia di ogni parola si potrebbe scrivere un libro.

Questo è ciò che fa Giuseppe Cecconi, nato nel 1947, nome datogli dal padre forse in onore di Stalin, oppure per riconoscenza nei confronti di un frate camaldolese che gli salvò la vita, aiutandolo a ottenere una provvidenziale licenza, mentre era sul fronte iugoslavo nella seconda guerra mondiale.
La sua raccolta di storie dei senegalesi in Italia: Le parole per guardarle è un romanzo che racchiude in ogni sua espressione, in ogni sua singola parola, un mondo vastissimo, colorato e pieno di vita benché grande sia il disagio per l’ambientazione in un nuovo paese.
È un sapiente, Eraclito l’Oscuro che si proclama scopritore e possessore di una legge divina che incatena gli oggetti mutevoli dell’apparenza e lui, per primo, dà il nome di logos a questa legge.
Stando agli studi di Ivan Illich ( Nella vigna del testo) questo intreccio tra il fisico e il metafisico continuerà fino al 1128, quando il teologo Ugo da San Vittore, compilò il suo Didascalicon con il sottotitolo De studio legendi ( Le disciplina del leggere).

Per lui la pagina non era la registrazione della parola, ma la rappresentazione visiva di un pensiero e la lettura era una forma di pellegrinaggio, un atto di incarnazione anziché di astrazione. Il libro, a quel tempo, veniva portato solennemente in processione, come un oggetto di culto o una reliquia degna di adorazione. Durante la liturgia lo si illuminava con un cero particolare e era onorato con l’incenso. Ugo, però, si trova alla fine di una tradizione di lettura mormorata, meditativa, gustativa, che ha inizio con i Padri della Chiesa, specialmente con Agostino. Anche se fu proprio lui che una notte fece la scoperta che era possibile leggere in silenzio. Dopo Ugo cessò l’epoca della lettura borbottata dei libri, quando il denso del discorso restava nascosto nella pagina come dentro uno spartito musicale, finché non diventava fiato e suoni. Il libro che in precedenza si poteva leggerlo solo dall’inizio alla fine, ora diventa accessibile in qualsiasi punto e chi legge si sente spinto talvolta a abbreviare i passaggi. Così la scrittura perde la sacralità e si degrada a comunicazione.
Perciò, ogni qual volta che le parole sono di nuovo composte per essere mostrate e divengono cioè parole da guardare, è come se riacquistassero mille significati e profumi.

Nel libro di Cecconi, le parole da guardare sono quelle che il vecchio e saggio Kèbè (un personaggio del libro), scriveva sulla sabbia per suo nipote Tala, quando questi ripartiva dal Senegal per tornare a fare l’immigrato in Italia. Si tratta di alcune importanti frasi del Corano che chi parte deve fissare con gli occhi, un istante prima di andarsene, per essere sicuro di far ritorno a casa. Dunque Tala scrutò quei segni tracciati per terra, quasi specchiandocisi, poi, in ottemperanza agli antichi dettami, li saltò a piè pari e partì per mondi sconosciuti. Per questo ragazzo, mentre è in procinto di partire, la parola torna a essere un oggetto contemplato, egli può sorvolare sul suo contenuto specifico che è una traduzione diretta e perciò frammentaria e impropria dell’inesprimibile. Il tratto vale ormai l’espressione e basta soltanto un’occhiata che penetri lo scritto nel suo significato primario di ricordo e ammonimento, a fargli scoprire la trama nascosta delle cose; quell’occhiata cantata da Pindaro come il più diretto consigliere che tutto conosce e che nessuno può ingannare né con opere, né con disegni. D’altronde, secondo Pasolini, le impressioni visive hanno perlomeno la stessa dignità scientifica del sogno linguistico e per dimostrarlo, egli porta l’esempio personale del primo ricordo della sua vita: una tenda bianca e trasparente che pende da una finestra, sopra un vicolo triste e scuro. Secondo il punto di vista dello scrittore, quell’immagine stampata in modo indelebile nella sua mente, riassumeva alla perfezione, senza infingimenti o censure, l’universo borghese della sua casa natale di Bologna e la cultura perbenista della sua famiglia.
Guardare la figura un istante, senza leggere sarà stato quello che ha fatto Tala al momento della partenza. Lui per tutto questo tempo era stato zitto, lì in piedi accanto al nonno, e ha avuto quindi la possibilità di vedere le parole che, stando piegato a capo chino, quello vergava per terra.
E, mentre le guardava, chissà come avrà sgranato gli occhi.




Giuseppe Cecconi, Le parole per guardarle. Storie dei senegalesi in Italia, Bandecchi & Vivaldi Editori, Pontedera 2004, pp. 97, Euro 9,00.

Il buio sotto la candela di Giampaolo Simi

di Luciano Luciani

Lo aveva promesso e, dai e dai, è riuscito a mantenere l’impegno preso con tanti lettori appassionati di noir… Ebbene sì, Giampaolo Simi, per il Natale 2005 e l’anno che verrà, ci ha fatto davvero un bel regalo. Stiamo parlando della riedizione di quel Buio sotto la candela, la sua opera prima che, apparsa dieci anni fa per la viareggina Baroni editore, aveva sorpreso i critici e affascinato i lettori per la novità dei contenuti e la freschezza delle scrittura che in maniera del tutto originale mixava ingredienti assai diversi tra loro: l'horror noir, l'impegno civile, la memoria... La nostra migliore, quella dell'antifascismo e della Resistenza, calata nella concretezza di vissuti umani che grondano ancora sangue e, a oltre sessant’anni di distanza, chiedono finalmente verità e giustizia.
Al Male che sotto le apparenze paternalistiche ed efficientiste della metà degli anni '90 (siamo all’indomani della prima, scioccante affermazione elettorale di Berlusconi e i suoi alleati), si presenta in tutta la sua prepotente arroganza agli scarsi abitanti di un paesino sulle Apuane, luogo cinquant'anni prima di una delle più efferate stragi naziste, pochi hanno la forza morale di opporsi: non le istituzioni, compromesse quando non corrotte; non le autorità che latitano e si rifugiano dietro le lentezze della prassi burocratica o i fumi di un linguaggio politichese... Pochi resistono: un pugno di anziani che non vogliono e non possono dimenticare e alcuni bambini. Questi i deboli, fragili, incerti eroi positivi che si troveranno a gettare sabbia negli ingranaggi di quella che non è solo un'iniziativa di speculazione edilizia e finanziaria. Si tratta, invece, una vera e propria "trama nera" che coinvolge vecchi nazisti alla Priebke e giovani naziskin, estremisti di destra di mezza Europa e spregiudicati manager rampanti locali, invisibili perché sotto gli occhi di tutti.
Un progetto eversivo che non riuscirà, per ora, a realizzare i suoi obbiettivi solo per la tenace opposizione di pochi anziani dalla memoria forte e di tre bambini legati da un' altrettanto forte amicizia. E i mandanti e gli esecutori del disegno eversivo saranno costretti a venire allo scoperto, a svelare il loro vero volto violento ed ottuso, favorendo così la loro sconfitta finale: nel fuoco di un'esplosione rigeneratrice, come per ogni romanzo "di genere" che si rispetti.
Alla banalità del male si oppone e vince, per questa volta, la banalità del bene. Sarà però una vittoria pagata a caro prezzo, con costi umani alti e dolorosi. Come sempre, come ha insegnato la storia del nostro secolo e di tutti i tempi.
Il buio sotto la candela è, insomma, un romanzo politico aggiornato all'oggi travestito da romanzo horror: perché, per dirla con le parole di Brecht, "il ventre della bestia è ancora fecondo" e l'orrore si annida là dove meno te lo aspetti, tra le pieghe e gli anfratti del quotidiano, dell'ovvio, del banale.
Il testo è costruito per schegge, per frammenti che progressivamente, senza parere, particolare dopo particolare, addensano i materiali narrativi e svolgono i nodi dell'intreccio. Gli scenari sono quelli famosi della Versilia tra il monte e il mare, bella sì ma miasmatica per il passato tragico, velenoso ed irrisolto che ancora l'avvolge, e capace di generare solo pochi, modesti anticorpi: tre bambini e alcuni anziani che riescono faticosamente a prevalere perché sanno giocare con intelligenza le carte della cultura, dell'informazione, dell'amicizia.
Dieci anni fa, al suo esordio, l'autore pagò con misura qualche pedaggio a scrittori come Stephen King e William Golding, e non mancavano suggestioni da Calvino, Benni, Pennac. Ma già allora, e questa riedizione lo conferma, la materia narrativa appariva originale, disinvolta e priva di complessi. Anche i modi della scrittura di Simi, appaiono programmaticamente scelti tra quelli della narrativa popolare: il linguaggio, dunque, risulta volutamente basso e quotidiano nel lessico, denso e problematizzante nello scavo psicologico dei personaggi e delle situazioni, incalzante e precipite nei momenti giusti, lirico quando necessario.
Luciano Luciani
Giampaolo Simi, Il buio sotto la candela, Dario Flaccovio editore, Palermo 2005, pp.301, E. 14,00

06 novembre 2005

IN PIETRA ALPESTRE E DURA di Mattei - Vergnano

L’eredità di Michelangelo nei bacini Apuani In pietra alpestre e dura da Luciano Luciani



Libro suntuoso questo In pietra alpestre e dura, volume voluto e promosso dalle Amministrazioni Provinciali di Lucca e Massa Carrara, fotografie a colori, davvero mozzafiato, del fotografo piemontese Augusto Vergnano e testi poetici di Sauro Mattei, poeta di Arni. Al centro dell’ispirazione dei due Autori, ognuno per la sua parte, le Apuane, montagne vere e non Alpi minori, e, ovviamente, le cave: luogo dell’anima, universo onnicomprensivo popolato di presenze ma anche di assenze, di voci e silenzi, ombre e luci, memorie e desideri, forme ardite e sagome essenziali. Il Fotografo e il Poeta umanizzano la montagna e la cava, interpretandole come se gli uomini, che le percorrono da millenni fin dai tempi remoti degli Etruschi, avessero ceduto una porzione non piccola della propria anima in cambio della faticosa ricchezza del marmo, dell’ “oro bianco” strappato “per forza di levare” ai severi e gelosi luoghi alpestri.
Prosciugati ed essenziali, nudi e sobri come certe lineari geometrie di cava che Augusto Vergnano riprende e valorizza nel necessario, pulito rigore delle sue tavole fotografiche, i versi di Sauro Mattei ripropongono il tema di un’umanità temprata da prove durissime protrattesi per generazioni, avvezza alla solidarietà, educata al ricordo orgoglioso delle proprie tradizioni e della propria professionalità.
Recondita, ma non indecifrabile, la consonanza tra due fatiche: quella del poeta che con sofferenza libera le parole dal buio e dal caos e le porta alla luce e quella del cavatore, che, con pena antica, strappa alla montagna i mezzi necessari ad una decorosa esistenza. I testi del poeta di Arni, alla sua prova più matura e convincente, raccontano liricamente di bacini e ravaneti, di “vie di lizza” e formidabili luoghi montani, possenti e talora arcigni, ma sempre colti nella loro intima, segreta, sottile armonia. I versi di Sauro Mattei non si rivolgono, però, solo all’uomo apuano, impegnato nella dura attività che la Natura e la Storia hanno voluto assegnargli, ma si rivelano capaci di dilatare la propria voce fino ad attingere a significati più ampi e profondi, idonei ormai a parlare a tutti coloro che, in questi tempi incerti e inquieti, siano impegnati in una sincera ricerca di senso.
Attraverso i versi e le immagini, sospesi tra presente e passato, tra natura e mondo degli uomini, gli Autori possono così anche proporre anche una condivisibile visione del futuro: che sarà degno d’essere vissuto solo se se sarà nutrito di memoria, di lavoro decoroso e rispettato, di simpatia piena d’amore per un ambiente ancora capace di incomparabili suggestioni, di fiori, di vento, di nuvole…

Luciano Luciani





Sauro Mattei – Augusto Vergnano, IN PIETRA ALPESTRE E DURA L’eredità di Michelangelo nei bacini apuani, a cura di Jacopo Cannas e Sabrina Mattei, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2004, pp. 158, Euro 48

25 ottobre 2005

Maremma rossonera di Leonardo Conti

di Luciano Luciani

Maremma rossonera, ovvero dodici racconti più un romanzo breve: dodici più uno uguale a tredici, numero da sempre infausto, per vari motivi… D’altronde, il rossonero del titolo rimanda al Diavolo, quello milanista, e quindi tutto torna… Insomma, dodici racconti più un romanzo breve che trattano di sport, o meglio di tifo: non quello violento, cupo e cattivo degli ultras, piuttosto quello degli innamorati dello sport come metafora della vita, il calcio, ma non solo; quel sentimento che porta ad intrecciare la presenza costante sulle gradinate o nelle curve degli stadi con l’impegno, che è sociale e culturale insieme, nei campionati minori o addirittura minimi degli allievi, degli esordienti, dei pulcini, degli amatori…; piccole squadre di periferia, vivaio delle formazioni più grandi e più importanti, laboratori non solo di agonismo, ma di faticosa educazione alle complicatezze della vita civile. Leonardo Conti è tra i pochi, anzi pochissimi, in grado oggi di raccontarci questi mondi che sono tanta parte della nostra esistenza quotidiana. E lo fa intanto con la ragione e con un cuore nutrito di memoria sportiva: dalle sue pagine riaffiorano figure mai dimenticate dell’immaginario sportivo collettivo, dirigenti, giocatori e allenatori, grandi campioni e onesti lavoratori del pallone. Oriali e Bordon, Bulgarelli e Fraizzoli; Angelo, Marco, Bedi Moratti e Peppino Prisco; Lippi e Collovati; il sampdoriano Chiappa; Domenghini e Facchetti, Helenio Herrera e Mazzola, Giuliano Sarti e un maledetto pallone lubrìco, Antonio Valentin Angelillo e Fabrizio Casazza, portiere blucerchiato non proprio celeberrimo, senza obliare l’indimenticabile Ernesto Cucchiaroni e Paolo Rossi. Nomi che ci dicono come l’occhio di Leonardo sia ancora pieno delle geometrie calcistiche dei formidabili anni Sessanta e Settanta, come il suo sentire calcistico si alimenti soprattutto di campioni e imprese del passato: non è senza significato che il suo primo racconto Intervista a un tifoso inizi con un “Ormai allo stadio vengo poche volte”: sfiducia nel calcio di oggi? Forse: certo è palpabile nelle sue storie un velo, ma lieve, di struggimento e di nostalgia. Ma chi l’ ha detto che una punta di rimpianto sia un male?
Tra i pregi di Maremma rossonera, titolo che nasce da uno dei racconti più intensi della raccolta, quello di non aver appiattito tutta l’ispirazione sportiva alla sola nobile arte della pedata: c’è posto, infatti, anche per il ciclismo (due racconti, On pense a toi e La prospettiva di Franco, dedicata a Franco Bitossi) e un bellissimo omaggio (Una specie di Dalai Lama) a uno degli sport più duri e trascurati, il rugby. Poi, onore al merito, Leonardo Conti non esita a contraddire la consolidata, banale e diffusa equazione del tifoso come tipo umano volgare e ignorante: i suoi racconti sono ricchissimi di riferimenti a tutta la cultura letteraria della seconda metà del Novecento. Pasolini e Volponi, Oreste Del Buono e Beppe Viola, poeti raffinati come Berto Bellintani e Vittorio Sereni, Mario Soldati e Luciano Bianciardi. Il cui spirito, agro e anarchico, maremmano e milanista, aleggia su tutte le pagine di Maremma rossonera e, Leonardo Conti non me ne voglia, ne ispira le migliori. Per esempio, quelle di Fiorenza bianca e nera, racconto lungo col respiro del romanzo, ricostruzione, con la mentalità di un tifoso della Fiorentina dei giorni nostri, della storica battaglia di Campaldino (1289) tra guelfi fiorentini e la coalizione ghibellina guidata dagli aretini. “Il vero evolversi di uno dei più importanti eventi del nostro Medioevo”, narrato, mediante uno straordinario corto circuito passato/presente, col linguaggio becero di Foresto Fedi, amico per la pelle di Dante Alighieri, Guido Cavalcanti e Lapo Gianni e fondatore di uno dei primi nuclei organizzati della tifoseria viola d’allora… Un’operazione del genere, finora, l’aveva tentata, e con successo, solo Luciano Bianciardi nel suo indimenticabile Aprire il fuoco: Leonardo ci riprova e realizza le pagine più godibili del suo libro.
Luciano Luciani

Leonardo Conti, Maremma rossonera, edizioni Il Grandevetro/Jaca Book, collana I Vagabondi, 2004, Euro 9,00, pp.128

Jacopo Corso Cresti, Le latitudini dello stupore

Quando l’horror si fa splatter  


di Luciano Luciani



In libreria da poche settimane, Le latitudini dello stupore, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2005, opera prima di Jacopo Corso Cresti, appare in grado di offrire più di un motivo di curiosità ai lettori: le undici storie che costituiscono la raccolta appaiono sospese tra la magia del viaggio (verso altre latitudini, ma anche nel passato remoto o nella memoria familiare recente) e gli stupori, le sorprese non sempre piacevoli che ogni esplorazione del nuovo porta con sé. Può sembrare paradossale, ma oggi, nell’era della rivoluzione delle comunicazioni e dei trasporti, non c’è più un posto sicuro dove andare o dove stare: dalla capillare diffusione della microcriminalità al terrorismo, dai nuovi virus in circolazione alle crescenti tensioni sociali e internazionali, tutto concorre a rendere insicuri non solo i nostri movimenti, ma anche la nostra dimora. L’Autore, fiorentino, neppure quarantenne, rielabora allora questa incertezza diffusa e la trasforma in spunto letterario, in ispirazione per pagine che trattano dell’orrore senza nome che, consapevoli o meno, ci cammina accanto dovunque: nel Sud-Est asiatico, come nel Mato Grosso; in un ristorante di Pechino come nel deserto del Maghreb o tra i “pueblo” della Baja California. Ma non è necessario spingersi così lontano per incontrare i “buchi neri” che si aprono d’improvviso nel nostro quotidiano: può accadere in una villa misteriosa di Forte dei Marmi o in una grotta, di quelle frequentate la domenica dagli spelelogi dilettanti; oppure, per averne nozione forse basta scorrere la liste delle più famose pop star scomparse negli ultimi trent’anni…
Tra cronaca e fantasia, Jacopo Corso Cresti si muove con la sicurezza del narratore di razza: attualizza antiche paure, le aggiorna agli inizi del millennio e, quindi, le “globalizza”. Così, un dono, un idolo esotico acquistato nella lontana isola di Bali e portato alle nostre latitudini per fare colpo su un donna tanto bella quanto disattento si trasforma in un orribile e feroce strumento di morte… E non è particolarmente raccomandabile neppure la ricerca dei ristorantini tipici e dei cibi caratteristici nella Pechino dei nostri giorni in bilico tra comunismo, capitalismo e un tempo senza tempo che crea creature da incubo… Insomma, anche se l’orrore dimora agli antipodi c’è poco da stare tranquilli e fin dal primo racconto il lettore si rende conto che la paura e l’inquietudine possono raggiungerti sempre e dappertutto. Temi propri del folklore e leggende metropolitane si mescolano nelle storie di questo affabulatore di talento, insieme all’idea, antica e modernissima, di una Natura organismo vivente che, se indagata, sondata, esplorata senza simpatia e senza amore, si ribella a quanti vorrebbero usarla e strumentalizzarla volgarmente: allora reagisce e rifiuta con ferocia ogni modernità, ogni omologazione grossolana e volgare
I materiali con cui Jacopo Corso Cresti costruisce le sue storie splatter (parola inglese onomatopeica che fa riferimento al calpestio, allo spiaccichio che, se produce una sensazione di schifo pure, al tempo stesso, ci attrae) provengono da appassionate e reiterate letture di fumetti, di romanzi di Urania, di telefilm americani e giapponesi, di film del genere B movies, di cartoni animati unitamente a preoccupazioni ecologiste corredate da un’informazione scientifica non disprezzabile: un back ground ancora poco conosciuto e meditato, ma che ha contribuito potentemente a plasmare gli immaginari collettivi di intere generazioni di giovani occidentali che in queste storie e nelle immagini relative hanno trovato il modo di esprimere i turbamenti, le paure e le inquietudini dei loro tempi complicati e difficili.

Luciano Luciani

Jacopo Corso Cresti, Le latitudini dello stupore, prefazione di Mario Spezi, Collana Via Lattea, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2005, pp.160, Euro 12

11 ottobre 2005

ILARIA ALPI. UNA DONNA. LA SUA STORIA

ILARIA ALPI. UNA DONNA. LA SUA STORIA.
a cura di Mariangela Gritta Grainer
160 pp., 210 x 130 mm, italiano
ISBN 88-88769-10-2 eur 12,00

Ilaria Alpi: tutti la conoscono come vittima di quell'agguato in cui,
insieme a Miran Hrovatin, fu assassinata a Mogadiscio,
oltre undici anni fa, il 20 marzo 1994.
Non si conosce ancora la verità sul duplice delitto. O per lo meno
non tutta la verità. Si sa che si è trattato di una esecuzione.
Di lei Ilaria Alpi, la donna, la giornalista, invece, si sa poco.
Ma conoscere "chi era Ilaria" è, in fondo, la verità.
Il racconto di Luciana e Giorgio Alpi, il ricordo degli amici
del premio televisivo Ilaria Alpi, gli articoli pubblicati da
Ilaria prima di entrare in Rai, la "sua Somalia", quella che
emerge dai reportage delle missioni precedenti a quella che
le sarà fatale, alcuni degli ultimi appunti ritrovati e due
interviste inedite a personaggi chiave della Somalia e forse
anche della storia tragica di Ilaria: da queste pagine emerge
per la prima volta il profilo di una donna appassionata e di talento,
il ritratto di una donna a tutto tondo, una donna giornalista:
difficile distinguere la donna e la giornalista.

Mariangela Gritta Grainer, presidente dell'associazione DonnaSi, è stata
componente della Commissione bicamerale d'inchiesta sulla cooperazione; è
attualmente consulente della Commissione d'inchiesta sulla morte di Ilaria
Alpi e Miran Hrovatin. Ha scritto, insieme
a Luciana e Giorgio Alpi, Maurizio Torrealta: L'Esecuzione, inchiesta sulla
morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Kaos edizioni, 1999).

I proventi delle vendite saranno destinati a sostenere progetti di
solidarietà per i bambini africani.

Per acquistarlo in contrassegno rivolgersi a:
ali edizioni
loc. monte sante marie
53041 asciano - siena
tel. + fax 0577.700020-43 r.a.
www.ali-edizioni.com
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09 ottobre 2005

Il giovane Holden di J. D. Salinger

di Gianni Quilici

Leggo per la prima volta un classico, anti-classico Il giovane Holden e ne rimango conquistato. Vorrei, però, rileggermi almeno un capitolo con la penna in mano, per cercare di chiarire razionalmente le impressioni suscitate, perché leggendolo ne sono rimasto, quasi sempre, travolto.
Invece decido di fare come Holden: scrivo ciò che penso immediatamente.

Primo: Salinger riesce a diventare Holden in tutto e per tutto, non solo nel pensiero, ma anche nel linguaggio tanto da fargli scrivere non ciò che pensa dopo averlo ben sistemato, ma quello che appena intuisce. I pensieri- racconti di Holden risultano così freschi, perché in una certa misura incerti, insicuri, non totalmente decifrati, stupefatti.

Secondo: Salinger fornisce una straordinaria galleria di personaggi e di situazioni, stampate sulla carta in modo incredibilmente vivo, fotografico.
Esempi: la sorellina Phoebe, Jane, Ackley, il professore che lo accarezza, le due suore, la prostituta, l’amico violento, i due taxisti, il seduttore, le tre ragazze del ballo. Comprese naturalmente le “famose” anatre del laghetto di Central Park

Terzo: il linguaggio evita di annoiarsi innanzitutto con se stesso come personaggio, e si rivolge direttamente al lettore, dialoga con esso, saltando discorsi già scontati o abbreviandoli, usando formule, inseguendo sogni o soggiacendo a tic. Un linguaggio di tipo dialogico, che in questo senso rifiuta ogni compromesso e che per questo si inventa. Un io narrante che non sa tutto, che non capisce, che ha i suoi (non dello scrittore) limiti.

Infine: ciò che emerge è una realtà soffocante, chiusa in se stessa, violenta, priva di libertà, di immaginazione, perfino di vera fraternità. Holden rivendica senza veramente saperlo un altro ordine di cose, un’utopia…

J. D. Salinger. Il giovane Holden. Einaudi 

04 ottobre 2005

Sognando The Dreamers” a cura di Fabien S. Gerard

di Gianni Quilici

Non ho letto la sceneggiatura del film; film diverso da quello poi realizzato, che avrei dovuto, tuttavia, rivedere per ragionare un po’ seriamente sulle differenze…
Ho letto, invece, il resto: i prologhi di Bertolucci e di Gilbert Adair, sceneggiatore ed autore del romanzo, da cui è tratto “The Dreamers”, brani del diario di lavorazione del curatore del libro suddetto, Fabien S. Gerard, ed un dibattito finale sul cinema di questo ultimo trentennio, a cui partecipano curatore, regista e scrittore.

Impressione: un libro ricco di dettagli, di spunti narrativi, di idee, sempre interessanti, raramente originali; realizzato forse velocemente, mescolando materiale eterogeneo, però, a tratti, ancora informe.

Il libro è tuttavia intrigante per ciò che prefigura.
Innanzitutto ( e anche solo per questo varrebbe la pena procurarselo) per le numerose foto bellissime del film e del set, realizzate, queste ultime, da Séverine Brigeot, sparse in ogni dove e in tutte le dimensioni; e poi perché prospetta quello che dovrebbe essere oggi un libro su un film: un percorso, cioè, che vada oltre la sceneggiatura: diari di lavoro, immagini, interviste a più voci. Un libro,
insomma, che andando oltre la pellicola, restituisca davvero la realtà del fare cinema, la sua inimmaginabile fatica, ieri come oggi.
Non sono nuovi questi tipi di libri, ormai: merito, molto, di una casa editrice come ubulibri, sensibile alla questione e, in generale, all’aspetto visuale di qualsiasi opera pubblicata.
C’è, infatti, in questo “The Dremears” una cura e resa fotografica insolita.

Sono i testi che non sempre sono all’altezza di quelle immagini. Penso, come contraltare, e per fare qualche esempio, ad altri tre libri: il diario di lavoro di Lars Von Trier per “Idioti”; quello, poco conosciuto, una sorta di magnifica avventura, di Brizio Montinaro: “Diario Macedone” -Edizioni il Formichiere-, sul set di “Alessandro il Grande” di Theo Anghelopulos; e infine nello splendore del bianco e nero “Lo zio di Brooklin” di Daniele Ciprì e Franco Maresco –Bompiani-
Libri più poveri, ma che hanno una necessità più stringente.

Sognando The Dreamers” a cura di Fabien S. Gerard ubulibri € 29,00

02 ottobre 2005

“E’ filo di seta”. Marisa Cecchetti

di Gianni Quilici

Sono così tanti, sono così poco comprati, sono così poco letti i libri di poesie e le poesie, che quelle che per forza, per incanto sono tali [versi, cioè, che hanno un cuore, una necessità, un ritmo, un’apertura] andrebbero preservate, messe in evidenza, non fatte morire.

Così è, a mio parere, per “E’ filo di seta” di Marisa Cecchetti, insegnante di scuola media fino a due anni fa, narratrice e poetessa lucchese-pisana.

Sono un centinaio di poesie, raccolte in cinque capitoli, sorta di diario privato, che diventa, in qualche modo, pubblico, cioè ci riguarda. Un diario poetico in progress di chi dialoga, si esplora, impara, lascia la sua vita aperta, nonostante traumi incancellabili.

Filo comune: la voce appassionata, radicata, angosciata, imprigionata e liberata, che emerge dalle poesia stessa; e le storie (forse la storia), che si dipanano: il figlio che non c’è più, ma che è scolpito per sempre; la voce della figlia che “scava gli abissi dell’essere”; “la speranza di un battito nuovo, che incrini il manto di gelo”; “le parole di bimbi ancora”, gli alberi che hanno tagliato, “ (l’)inverno di guerra che non conosce parole congrue”, la scelta del sole...

Prendiamo una poesia, per dare appena la motivazione di questo mio dire:

Devo imparare
a tacere.
Le scoperte
sono impercettibili
a occhio nudo
e l’emozione
può rivelarsi
uno sbaglio.
C’è in questi versi un pensiero sottile, che diventa aforisma, che per verità del senso, per essenzialità e secchezza del verso, perentorietà e scansione del ritmo diventa poesia. Del resto provate a impararla a memoria. Vi terrà compagnia. Diventerà vostra.
Gianni Quilici

Marisa Cecchetti “E’ filo di seta”. Edizioni Del Cerro. € 8.

30 settembre 2005

Bastardo in flash, Memo (Domenico Izzo)

da Luciano Luciani

Declinavano i Cinquanta
Declinavano i Cinquanta “ poveri, ma belli” (per chi c’era, però, soprattutto poveri) e covavano già le ragioni dei formidabili Sessanta, quelli dopo i quali niente sarebbe più stato come prima: gli uomini raggiungevano lo spazio; i lavoratori italiani cominciavano a prendersi qualche modesta rivincita delle batoste subite per un decennio; i socialisti strizzavano l’occhio ai democristiani, i democristiani ai socialisti. In proposito, l’arcigno cardinale Ottaviani, prefetto della Congregazione del Santo Uffizio, lanciava terribili anatemi ma erano sempre meno quelli che se lo filavano… L’Italia aveva il vento nelle vele e saliva nella considerazione internazionale: ad Emilio Segrè, allievo di Enrico Fermi veniva assegnato il Nobel per la fisica, a Salvatore Quasimodo quello per la letteratura. L’autorevole “The Financial Times” conferiva alla nostra povera liretta di allora l’ “Oscar” delle monete per il 1959. Era il riconoscimento del “miracolo economico italiano”e in giro si respirava l’euforia dei tempi nuovi. Intrecciate con libertà e possibilità fino a poco tempo prima sconosciute, inedite ingiustizie si aggiungevano a quelle antiche. Aumentavano le aspettative, crescevano i bisogni: però, i mezzi per soddisfare le une e dare risposte gli altri restavano insufficienti.
Alla periferia della piccola città di provincia, Lucca per intenderci, dove quarant’anni fa viveva l’autore di Bastardo in flash, di tutte queste trasformazioni, quelle vere e quelle desiderate, arrivavano appena gli echi, attutiti dalla quotidiana fatica di esistere. Molto simile a quella dell’anteguerra la vita concreta delle famiglie al confine tra proletariato e piccola, piccolissima borghesia: i vestiti si “rivoltavano” e passavano senza soluzione di continuità da una generazione all’altra, di padre in figlio, dal maggiore al minore; un pacchetto di sigarette costituiva un lusso e allora si acquistavano sfuse; parchi, e anche qualcosa di più, anzi di meno, i consumi alimentari; non tutte le abitazioni usufruivano di servizi igienici degni e il Comodo era tale solo di nome.
Si era poveri, dignitosamente poveri, secondo un decoro sociale conquistato a fatica e mantenuto con le unghie e con i denti. Né, d’altra parte, cattolica, paternalista e benpensante la Città, avrebbe permesso forme di indigenza più marcate: la Chiesa faceva da “collante sociale” e, allora come oggi, recuperava lacerazioni e squilibri, garantendo assetti sociali e di potere sempre uguali, sempre nelle mani delle solite famiglie. Insomma, in cambio di un vivere civile placido, blando, un po’ addormentato non mancavano modeste ma dolorose prevaricazioni, soprusi piccoli e grandi, vessazioni minori e maggiori che hanno bruttato quel periodo che riesce a tornare caro alla memoria solo nella “tenerezza feroce del ricordo”.
Tutti questi problemi, però, non sfioravano nemmeno la vita del Nostro Narratore, allora troppo impegnato a crescere e tutto preso dalle minute ma serrate trame della vita familiare e amicale in un quartiere popolare che, per quanto caldo d’affetti e di attenzioni, pure non faceva sconti a nessuno, tanto meno ai “figli della mediocrità e della povertà” come i giovani e i giovanissimi abitatori del Bastardo. Che pieni di curiosità e capaci con le mani, intraprendenti e spregiudicati staccano di parecchie lunghezze gli adulti e il loro mondo, più convenzionali, intrisi di luoghi comuni, scontati nella loro moralità impacciata e incapace di sogni e desideri forti.
Erano davvero così gli adulti di allora? Forse no. Certo, però, così apparivano agli occhi chiari del bambino che oggi, ultracinquantenne, sempre in bilico tra la ragione documentaria e il sentimento del passato ci racconta un frammento di storia della Città di appena ieri. E non sarà senza significato ricordare che proprio il confronto tra giovani e adulti, tra vecchie e nuove generazioni – uno dei tanti temi di Bastardo in flash, ma quello che lascia il segno più marcato, più deciso nella coscienza de lettore - negli anni appena successivi, diventerà, nell’economia come nella musica, nella politica come nei media, il terreno privilegiato del cambiamento. Nel bene e nel male quello che ha reso il mondodi appena ieri simile al nostro difficile presente.
Luciano Luciani

Memo (Domenico Izzo), Bastardo in flash, DARIS - Libri e stampe, Lucca 2005, pp. 50. E. 5

Il libro si può richiedere a DARIS – Libri e stampe, Via Cenami, 23 55100 Lucca
tel. e fax 0583 469328
www.darislibri.it
info@darislibri.it

Breve storia di “Lucca beat” di Enzo Guidi

di Gianni Quilici

Apro e leggo e subito vengo rapito da una scrittura fluente, che fonde la Storia con la Narrativa con un sorriso sottile, a volte acre, ma mai “al di sopra”.
Ecco Breve storia di “Lucca beat” di Enzo Guidi a questo riesce: ricostruire la vicenda del movimento beat lucchese (1965-68) ed insieme raccontarla come se fosse un romanzo che ha un inizio, uno sviluppo, una conclusione.

Come ricostruzione storica Enzo Guidi è fedele ai fatti, puntigliosamente documentati, e diventa, nell’analisi di essi, ora cronista appassionato, ora sociologo disincantato, ora sottile semiologo fino a lasciare trapelare molto liberamente interpretazioni simboliche che stanno tra la psicanalisi ed il magico-antropologico.

Come narratore Guidi, pur disciplinato dalla volontà di ancorare le parole ai fatti, ha lo stile: precisione di linguaggio, ritmo incalzante, figure ben profilate, sintesi illuminanti. Si veda la nitidezza con cui ci appare Barabba: “Dapprima si piantò davanti a noi, calandosi minacciosamente di spalla il sacco d’ordinanza, poi sorrise a tutti con la sua tenera rapacità da beduino, lisciandosi la barbetta nera. “Sono Barabba –disse un po’ minacciosamente- che ci fate voi qui con quei capelli lunghi a giornate sane?!…” Oppure a proposito del posto dove stare. “Tutto insomma portava alle viscere della città e Lucca è città di mistero, di viscerali cantine e di vertiginose altane, di spazi segreti e morbosi angolini. Dunque bisognava andare sotto nel buio, nel grembo, nel segreto della penombra primordiale, per poter essere così diversi, per il desiderio di trasgredire liberamente, per cospirare contro il mondo o per conoscersi meglio: per rinascere forse”.

Infine la storia del beat a Lucca penso che abbia davvero i caratteri dell’unicità.
Se considero il movimento del ’68 lucchese lo trovo carente di creatività sia interpretativa che prepositiva, per non parlare di quella estetica. Di vero nel ‘68
c’è soprattutto una grande liberazione di parola, di movimento, di spazi…
Nel movimento beat, oltre a questo, c’è il coagulo di alcune personalità fuori del comune per autonomia personale e creatività artistica. Prendete dal primo giornalino
“Noi la pensiamo così… via” la poesia dello stesso Guidi “Illuminazione Zen”.
Bellissima per visionarietà, impasto linguistico, magia sonora, perentorietà del ritmo, senso smisurato, ma dialettico, dell’io.
Per questo la storia del beat a Lucca è stata più inventata che mutuata e questo libro ha il grande merito di dimostrarcelo.

Enzo Guidi. Breve storia di “Lucca beat” (Ediz. ETS, Pisa 2002, pag. 144, € 10

Storia del popolo americano di Howard Zinn

Ciao Marcantonio, vorrei segnalare un libro che sto attualmente leggendo e mi sembra interessante e di piacevole lettura.

Il libro si intitola Storia del popolo americano di Howard Zinn ,edizione Il Saggiatore ,costo 22 euro.
Pur essendo un bel librone di storia di circa 450 pagine è abbastanza scorrevole nella lettura ed è una storia "dal basso" degli Stati Uniti dal 1492 (quindi comprende anche il periodo coloniale britannico) ad oggi. E' un testo rivolto soprattutto agli stessi giovani statunitensi come alternativa alla storia ufficiale abitualmente somministrata nelle scuole, pertanto forse dà per scontata una certa cronologia degli avvenimenti e inoltre non è dotato di cartine; quindi non è male se uno vi si approccia avendo già un'infarinatura storica del periodo e una cartina del Nord America sott'occhio. Per il resto ,come ho già detto, pur essendo un libro di storia, la lettura è molto piacevole. Il prezzo è un po' alto........ma ne vale la pena.

Ciao, Gian Paolo

19 giugno 2005

Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani

da A rivista anarchica

Anarchici in un dizionario
di Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele e Pasquale Iuso


È uscito, per i tipi della BFS di Pisa, i due volumi del Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani. Eccone la premessa scritta dai docenti universitari direttori del progetto.

Negli ultimi trent’anni la storiografia sull’anarchismo ha compiuto significativi progressi, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo. Opere di vario genere hanno gettato luce su figure, aspetti, momenti e problemi della storia libertaria italiana e internazionale, ampliando e approfondendo il quadro generale della sua conoscenza. Quasi tutti questi lavori, tuttavia, hanno posto l’attenzione sui personaggi e sugli avvenimenti più noti ed emblematici, con l’inevitabile conseguenza di delineare un quadro «elitario» del fenomeno. Mancava cioè, fino ad oggi, una storia «di base», una storia di quelle migliaia e migliaia di oscuri militanti che hanno costituito in gran parte il tessuto connettivo del movimento. Il presente dizionario, ovviamente, non può colmare tale lacuna; costituisce però, con le sue duemila voci, uno strumento fondamentale per progredire in tal senso. Gran parte dei personaggi qui biografati sono, infatti, «portati alla luce» per la prima volta, permettendo una conoscenza più ricca del fenomeno anarchico. Si tratta di uno squarcio della storia politica e sociale italiana del tutto inedito, che allarga notevolmente lo sguardo generale sul movimento operaio e socialista e anche, naturalmente, sulla storia del sovversivismo nazionale e internazionale. Complessivamente esso copre un arco temporale che va dalla metà dell’Ottocento alla fine degli anni Sessanta del Novecento, con alcuni prolungamenti biografici giunti fino ai nostri giorni.

Tre anni di lavoro

Frutto di un lavoro archivistico e bibliografico che per tre anni ha impegnato a vari livelli oltre un centinaio di studiosi, esso presenta alcune caratteristiche delle quali è necessario dar conto. Come si può vedere dalle fonti utilizzate, la ricerca si è mossa in varie direzioni, al fine di offrire uno spaccato documentario e interpretativo il più vario e articolato possibile. Sono stati utilizzati innanzitutto i documenti relativi al Casellario Politico Centrale depositati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, che, come è noto, offrono la possibilità di ricostruire l’attività e i movimenti principali dei soggetti sottoposti al controllo; questi documenti sono stati integrati con altre carte di polizia e di prefettura provenienti da fonti diverse. Naturalmente la ricognizione è avvenuta sulla base della consapevolezza che tali testimonianze presentano due fondamentali caratteristiche: da una parte l’aspetto descrittivo e burocratico, dall’altra quello ermeneutico e storiografico.
In generale, lo storico dell’anarchismo è interessato solo alla prima caratteristica. Questa, infatti, se gli informatori sono dei veri professionisti, è costituita dalla somma – a volte anche copiosa – delle relazioni stese dagli investigatori sull’attività dei soggetti sottoposti a sorveglianza. Possiamo così avere una mappa abbastanza dettagliata degli spostamenti e delle relazioni dei militanti, acquisendo anche la conoscenza del contesto sociale e geografico entro cui tutto ciò è avvenuto. Va tuttavia tenuto presente che queste stesse fonti non sempre sono attendibili perché la pura registrazione dei fatti svoltisi nel tempo e nello spazio dice comunque poco rispetto alla trama effettiva d’azione e d’intenti che animava veramente i protagonisti. Il movimento anarchico, infatti, è stato fin dal suo inizio un movimento antilegalitario e rivoluzionario: senza dubbio, in generale, il più antilegalitario e il più rivoluzionario dell’intero sovversivismo italiano. Data questa inequivocabile natura, molte azioni e, ancor più, molti intenti d’azione, non avendo avuto un seguito concreto e visibile, sono rimasti ignoti ai contemporanei e ai posteri. Gli stessi anarchici, poi, quasi mai hanno ricostruito le varie vicende che li hanno visti protagonisti. Naturalmente queste considerazioni non implicano affatto l’idea che tali zone d’ombra costituiscano la parte più interessante della storia dell’anarchismo: la parte più interessante e più importante della storia dell’anarchismo è quella che già conosciamo. Detto questo, vanno comunque considerati degni di studio tali anfratti storici ed è ovvio, a questo punto, che le uniche fonti utili per far luce su di essi siano fornite dagli archivi della questura, della prefettura e della magistratura.

15 giugno 2005

Operazione Foibe - Tra storia e mito

Da Maurizio Fatarella - ARCI LUCCA

Operazione Foibe
Tra storia e mito
di Claudia Cernigoi



Lo studio di Claudia Cernigoi vuole fare chiarezza sulla storia delle nostre terre, vuole rendere giustizia ai morti di tutte le parti, finora strumentalizzati a scopo di propaganda; vuole mettere fine a quella continua creazione di elementi di tensione politica in un’area di confine delicata come la nostra e, oltretutto, potrebbe servire a liberare finalmente anche gli Sloveni e la sinistra da quel senso di colpa che si portano dietro come “infoibatori”, accusa che viene loro mossa incessantemente da sessant’anni senza che d’altra parte si tenga minimamente conto dei vent’anni di dominio fascista e snazionalizzazione forzata subita dai popoli “non italiani” e dei successivi anni di guerra con massacri feroci perpetrati contro le popolazione dell’Istria, della Slovenia e di tutta quell’area che viene chiamata Venezia Giulia.

“Il libro di Claudia Cernigoi, Operazione Foibe. Tra storia e mito (Kappa Vu Edizioni), arricchito con documentazione in parte inedita, pone il discorso sulle foibe nei dovuti limiti storiografici. Non pensiamo che tutto questo basterà a tacitare la propaganda antipartigiana che continua con toni sempre più violenti, anche da parte di alcuni autori ritenuti fino a qualche tempo fa vicini alle tematiche della Resistenza. Vorremmo però che almeno gli studiosi che agiscono nell’ambito degli Istituti storici del Movimento di Liberazione, nel parlare di questo libro lo facciano con il dovuto rispetto storiografico, tenendo conto della documentazione presentata” (Alessandra Kersevan)

“Questa seconda edizione del libro era quanto mai necessaria perché ci aiuta a comprendere più a fondo cosa sia stato il fenomeno delle foibe e come esso sia stato usato e strumentalizzato. In questi sette anni (il tempo trascorso dalla prima edizione del libro) l’autrice ha approfondito la sua conoscenza della questione con ricerche in archivi italiani ed esteri, seguendo attentamente gli sviluppi della campagna propagandistica sull’argomento. Ha cioè fatto quello che ogni storico che si rispetti dovrebbe fare prima di lanciare giudizi” (Sandi Volk)

Claudia Cernigoi è nata a Trieste nel 1959. Giornalista pubblicista dal 1981, ha collaborato alle prime radio libere triestine e oggi dirige il periodico “la Nuova Alabarda” (il sito è www.nuovaalabarda.tk). Ha iniziato ad occuparsi di storia della seconda guerra mondiale nel 1996, e nel 1997 ha pubblicato per la Kappa Vu il suo primo studio sulle foibe, Operazione foibe a Trieste. In seguito ha curato una serie di dossier (pubblicati come supplemento alla “Nuova Alabarda”) su argomenti storici riguardanti la seconda guerra mondiale e sulla strategia della tensione. Nel 2002, assieme al veneziano Mario Coglitore, ha pubblicato La memoria tradita, sull’evoluzione del fascismo nel dopoguerra (ed. Zeroincondotta di Milano).


Info: Mauro Daltin – Ufficio Stampa Kappa Vu Edizioni
Tel: 0432530540
info@kappavu.it

Recensione pubblicata sul sito dei Wu Ming: http://www.wumingfoundation.com

Claudia Cernigoi, Operazione "Foibe" tra storia e mito, Kappa Vu, Udine 2005, pagg. 300, euro 16,00

http://www.resistenzastorica.it, http://www.kappavu.it, info@kappavu.it


Un libro fon-da-men-ta-le, che deve circolare, che va diffuso con ogni mezzo necessario e letto dal maggior numero di persone possibile. La lettura spalanca il mondo davanti agli occhi. Questo saggio è uno strumento di lotta, è un'ascia di guerra dissepolta, alfine.
Claudia Cernigoi, dopo anni di ricerche, ha riscritto e ampliato la sua opera del '97, Operazione "Foibe" a Trieste. Ora il libro parla anche dell'Istria e si chiama Operazione "Foibe" tra storia e mito, lo ha pubblicato la Kappa Vu di Udine nella collana "Resistenza storica". Trecento pagine fitte e documentatissime, costa sedici euro e sono ben spesi. Mooolto ben spesi.

Cernigoi ha passato a pettine tutti gli archivi consultabili di qua e di là del confine. Il suo libro smantella con rara e lucida spietatezza le dicerie, le falsificazioni, le leggende contemporanee e le buffonate che, modellate dalla propaganda nazionalista sul confine orientale, si sono fatte strada nell'opinione pubblica senza mai essere messe in questione, fino a spingere il Parlamento a istituire una giornata commemorativa. Nel mentre, si è realizzata una fiction campionessa d'ascolti basandosi su fandonie che i vari "foibologi" hanno preso di pacca da Questo è il conto!, opuscolo in lingua italiana diffuso dai nazisti sul Litorale Adriatico, subito dopo i venti giorni del "potere popolare", nel 1943.
Operazione "Foibe" tra storia e mito deve diventare IL testo di riferimento per chi voglia occuparsi di "foibe" in modo scientifico, e non sto parlando di geologi.

Cernigoi dimostra che le liste degli "infoibati" sono state oggetto di pesanti manipolazioni. In quegli elenchi, gli pseudo-storici delle "foibe" (molti dei quali neofascisti: chi proveniente da "Ordine Nuovo", chi coinvolto nel golpe Borghese etc.) hanno infilato tutti i dispersi, compresa gente che nel frattempo era tornata a casa, non con le gambe in avanti o dentro un'urna bensì viva e vegeta. I "foibologi" hanno aggiunto anche i nominativi di partigiani e civili uccisi dai nazifascisti. Come spiega molto bene l'autrice, l'infoibamento fu teorizzato, evocato, minacciato dal nazionalismo italiano fin dall'inizio del secolo, per esser poi messo in pratica durante l'occupazione nazifascista. Va aggiunto che molti nomi di "infoibati" sono doppi o addirittura tripli, sovente la stessa persona figura "infoibata" in posti diversi, e in un caso tre nominativi di presunti "infoibatori" (Malvagi Partigiani Slavo-Comunisti) figurano pure nella lista dei relativi "infoibati"! Della serie: se la cantano e se la ridono.
Una lista in particolare, quella degli "infoibati" (in realtò comprensiva di tutti i dispersi) della provincia di Trieste, dopo attento esame registra una percentuale d'errore superiore al 65%. Su 1458 nomi, ben 961 si rivelano sbagliati!

Tutti gli altri caduti (e nemmeno questi furono tutti "infoibati") erano torturatori della Milizia di Difesa Territoriale o della X Mas, massacratori vari, collaborazionisti, delatori, etc. Di molti di costoro Cernigoi fornisce il cursus honorum, ricavato da documenti e fonti d'epoca. A conti fatti, viene smentita la propaganda sugli ammazzati "solo perché italiani". I motivi erano ben altri. Il "feeling" non era antitaliano, ma antifascista.
Quanto alla soppressione del CLN di Trieste da parte dei "titini", spesso citata come esempio di politica fratricida tra nemici del fascismo, Cernigoi spiega in modo chiaro che - a causa della repressione tedesca - in città si susseguirono ben tre CLN, molto diversi l'uno dall'altro, l'ultimo dei quali composto da loschi figuri di destra, anche ex-X Mas. Col paravento dell'antifascismo, costoro cercavano addirittura alleanze con residui del regime fascista in funzione nazionalista e anti-slava, inoltre preparavano - e in alcuni casi eseguirono - attentati e azioni armate contro i partigiani di Tito. Risulta abbastanza normale che questi ultimi abbiano deciso di arrestarli, portarli a Lubiana e colà processarli.

Per quanto riguarda i finti "infoibati", è particolarmente buffo (si fa per dire) il caso di Remigio Rebez, "il boia di Palmanova", tenente della X Mas e feroce torturatore. Condannato a morte dopo la Liberazione, gode dell'amnistia di Togliatti (o meglio, della sua interpretazione estensiva da parte dei magistrati) e si trasferisce a Napoli, dove muore addirittura nel 1996. La stampa triestina dà notizia del suo decesso, gli dedica distici elegiaci, ma si guarda bene dal dire ai lettori che il suo nome figura sulle liste degli "infoibati" fornite da vari storici di destra come Papo, Pirina etc.

Un altro esempio di chi e cosa si possa trovare in quegli elenchi: viene presentato come "vittima degli slavi" tale Eugenio Serbo, "capitano 57° Rgt. Art. Div., rimpatriato dalla Germania fu catturato dagli Slavi e deportato nei pressi di Lubiana; risulta deceduto il 14/12/44 a Leitmeritz".
Lapidaria, Cernigoi: "Leitmeritz è però il nome tedesco di Litomerice, cittadina che si trova nell'attuale Repubblica Ceca nei pressi di Terezin, praticamente a metà strada tra Praga e Dresda. Ci pare difficile che i non meglio identificato 'Slavi' nominati da Papo siano riusciti a deportare il capitano Serbo a Lubiana e farlo morire nel 1944 in un lager tedesco".

Anche soffiando e gonfiando e gonfiandosi, come la rana che vuol competere col bue, i "foibologi" non sono mai riusciti a presentare elenchi plausibili. L'ammontare complessivo delle "vittime" non superebbe le 500 persone tra Venezia Giulia e Litorale Adriatico. Il resto ("decine di migliaia di vittime" etc.) è fantasy, non c'è nessun riscontro documentale. L'anno scorso il ministro Gasparri parlò addirittura di "milioni di infoibati", ma la verità è che siamo ben lontani da quel "genocidio per mano rossa" cercato disperamente dalla destra per contrapporlo alla Shoah e poter ricorrere al "benaltrismo" ogni volta che si parla di leggi razziali, Salò, stragi etc.
Cernigoi non nega che vi siano state vendette personali ma, ricostruendo il contesto e riportando alla luce materiali d'archivio, dimostra che si trattò di azioni individuali e sporadiche, non certo di una politica di sterminio o "pulizia etnica" da parte dei partigiani jugoslavi.

Altre truffe sono i resoconti degli scavi avvenuti nel dopoguerra, a opera di società speleologiche che stavano alla destra fascista come il negozio di fiori sta al Gruppo TNT. Più ci si allontana nel tempo, più si moltiplicano i morti trovati nella data foiba. Se, putacaso, nel '46 erano otto, si può star sicuri che oggi si dice che erano ottanta, e così via. La stessa foiba di Basovizza, divenuta monumento nazionale e frequente location di picchetti e commemorazioni, è più un oggetto di propaganda che di seri studi storici. Non è stato dimostrato in alcun modo che in fondo a quella cavità carsica sia finito "un numero rilevante di vittime, civili e militari, in maggioranza italiani, uccisi ed ivi fatti precipitare". Alla sola Basovizza, Cernigoi dedica un capitolo che pare la messa in scena di una lunga, macabra pochade.

La "tragedia delle foibe" è una truffa ideologica, e la cosa peggiore è che studiosi come Cernigoi e Sandi Volk (autore di un altro saggio importante e recensituro, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell'italianità sul confine orientale, Kappa Vu, 2005) sono praticamente i soli a confutarla con gli strumenti della storiografia. La propaganda di destra viene accettata a cresta bassa anche a "sinistra", Bertinotti compreso. Tutt'al più si tratteggia vagamente il contesto, si fanno dei distinguo, gli eredi del PCI se ne chiamano fuori dicendo "Noi coi titini non c'entriamo niente" etc.

Invece andrebbe smantellato tutto, ma proprio tutto, e senza alcun indugio.

"Open non è free"

Il libro "Open non è free - Comunita' digitali tra etica hacker e mercato globale", a firma Ippolita,

E' presente alla libreria di Pergola (Milano) da ieri, e verra' presentato ufficialmente all'hackmeeting, in un seminario che vorrebbe parlare delle comunita', piu' che del libro in quanto tale.

E' il primo saggio di un autore collettivo (scritto a 10 mani)
copyleft in italiano sotto licenza creative commons scaricabile
integralmente dalla rete prima dell'uscita in libreria; anzi, stiamo
continuando ad accumulare materiali e percosi sul sito e ospitiamo gia'
nuovi progetti di scrittura collettiva. L'esperienza infatti non si e'
fermata al testo cartaceo, ma e' stata l'humus attraverso il quale e'
nato ippolita.net un server indipendende dedicato alle "comunita'
scriventi" e al tema della libera circolazione dei saperi.

La copia da scaricare si trova qui
http://ippolita.net/content/progetti/prj.php?document=open

Qui ci sono i materiali del libro
http://ippolita.net/content/progetti/prj.php?document=open

E qui i documenti più "teorici"
http://ippolita.net/content/main.php?document=disclaimer
http://ippolita.net/content/policy.php

Scheda libro:
Gli hackers fanno molto e dicono poco. Ma, nell'era della
tecnocultura, hanno molto da insegnarci: la passione per la tecnologia,
la curiosità che li spinge a "metterci sopra le mani", a smontare per
comprendere, a giocare con le macchine, a condividere i codici che
creano. Essere pirati informatici significa essere pirati della realtà.
Essere protagonisti attivi, agire e non subire il cambiamento; usare la
tecnologia per soddisfare i propri bisogni e i propri desideri; porsi in
un continuo dialogo con il flusso di informazioni delle reti,
informatiche e umane. L'etica hacker, le pratiche di condivisione e
cooperazione interessano ora anche il mercato, che ha assunto il metodo
di sviluppo delle comunità hacker per risollevarsi dopo la bolla
speculativa della net economy. I termini cambiano poco, da software
libero (free software) a software aperto (open source), ma in realtà
cambia tutto. Il passaggio è doloroso: la curiosità per il nuovo diventa
formazione permanente, la fluidità delle reti diventa flessibilità
totale, la necessità di connessione per comunicare diventa lavoro 24 ore
su 24: semplici ed efficaci slogan del mercato globale. La cultura
hacker cerca allora di elaborare nuove vie di fuga, insistendo sulla
forza delle comunità e sulla responsabilità delle scelte individuali.

L'autore:
Ippolita è un luogo dedicato ai pirati della realtà. Ippolita è un
cyborg mutante: è una macchina, un server indipendente per progetti
editoriali e spazi di scrittura collettiva (ippolita.net). È anche
l’autore collettivo di questo libro, una comunità di scriventi, un
crocevia per condividere strumenti e competenze tra i linguaggi del
digitale e i linguaggi della scrittura.
ippolita.net

STORIE MANDALICHE (a cura di A. Balzola e A.Monteverdi), Nistri-Lischi, Pisa, nella collana Mediamorfosi diretta da Sandra Lischi.

Il libro racconta il lungo laboratorio di creazione dell'omonimo spettacolo di tecnonarrazione di Zonegemma (Balzola-Verde-Lupone-Monteverdi) e l'approdo alla versione definitiva Storie mandaliche 3.0. (con animazioni in Flash) inaugurata nel febbraio 2005; il libro contiene il testo letterario integrale e l'ipertesto drammaturgico di Andrea Balzola, le riflessioni degli autori su suono, immagine e interattività, ed infine alcuni saggi scritti appositamente da Alfonso Iacono Antonio Caronia e Oliviero Ponte di Pino.
Un intervento critico su Storie mandaliche è stato presentato a maggio al MIT di Boston da Erica Magris.
Info dal sito di My media
http://www.mymedia.it/storiemandaliche.htm

Per informazioni sul libro e per richiedere copie per recensioni:
info@nistri-lischi.it
a.monteverdi@arte.unipi.it

“La guerra come menzogna" di Giulietto Chiesa

di Gianni Quilici


Che cosa manca, che cosa mi manca in questa fase terribile che sta attraversando il pianeta Terra?

Una visione d’insieme, una ipotesi di lettura e un confronto, che ci permettano di vedere non solo il presente, ma anche una parte, non piccola, del futuro.

Perché “viviamo in un sistema delle comunicazioni, e non solo delle informazioni, che non ci restituisce neanche lontanamente il mondo in cui viviamo, anzi ci offre un mondo totalmente falsato, impedendoci di vedere ciò che accade”
Da qui l’importanza di un librino come questo di Giulietto Chiesa, che raccoglie e rielabora una relazione da lui tenuta al Circolo Agorà di Pisa.

Perché condensa la complessità di una lettura globale e di una previsione sul futuro del nostro pianeta in poco più di 40 pagine, con una serie di ragionamenti analitici e al tempo stesso sintetici e con lo stile discorsivo e colloquiale di un intervento, che possono essere letti e “digeriti” da tanti.

Giulietto Chiesa infatti collega l’11 settembre alla crisi americana e alla necessità di trovare un nemico, Bin Laden e l’Islam. Nemico intermedio e transitorio, perché il vero nemico degli Stati Uniti, secondo Chiesa, è la Cina, unica potenza in grado in una decina di anni di competere con gli Stati Uniti, o meglio con quella superclasse globale di super-ricchi di ogni angolo di globo.
Ma Cina vorrà dire un miliardo e trecento milioni di persone presenti sul mercato con le nostre stesse esigenze di consumo, mentre oggi siamo arrivati ai limiti dello sviluppo. Da qui la “guerra (nucleare) infinita”, che l’amministrazione Bush ha teorizzato e iniziato. Non ci può essere posto, infatti, per due Americhe, una bianca, l’altra gialla e il tenore di vita del popolo americano non è negoziabile.

Si può dissentire da questo tipo di lettura e di previsione, molto schematicamente riassunto, ma non c’è dubbio che i termini delle questioni ci sono tutti e che ciò che è in gioco è il destino dell’umanità.
Si richiede una consapevolezza globale diffusa, capacità di scelte controcorrente, forme di lotta mai viste.


Giulietto Chiesa “La guerra come menzogna”, pp. 46, € 3, i sassi nottetempo, 2003.

"FRAGILI, RESISTENTI. I messaggi di piazza Alimonda

"FRAGILI, RESISTENTI. I messaggi di piazza Alimonda e la nascita di un
luogo di identita' collettiva"

Dal 20 luglio 2001, data dell'uccisione di Carlo Giuliani duranti gli
scontri del G8 di Genova, sono stati lasciati sulla cancellata di piazza
Alimonda centinaia di messaggi. Persone di ogni eta' e condizione, toccate
nel vivo da un'uccisione intollerabile, hanno sentito il bisogno di
alimentare la memoria e lasciare una traccia del proprio passaggio. Parole
scritte su pacchetti di sigarette, biglietti del treno, tovaglioli,
sacchetti del pane. E poi agende, quaderni collettivi, cartoline, disegni
di bambini.

Oggi la cancellata e' stata "bonificata". L'"Archivio ligure della
scrittura popolare" ha raccolto i messaggi e li ha salvati dalla
distruzione. Ne abbiamo fatto un libro perche' siamo convinti che il gesto
di scrivere i propri pensieri e andarli a mettere in una piazza pubblica,
fatta di asfalto e persone, dica di una passione per la democrazia che e'
un crimine cancellare.

Il volume contiene i contributi dell'antropologo Marco Aime, del linguista
Lorenzo Coveri, della sociologa Donatella Della Porta e dello storico
Antonio Gibelli.

Per informazioni:

Terre di Mezzo Editore
p.za Napoli n. 30/6 - 20146 - MILANO
02.48953031 - <>redazione@terre.it

31 maggio 2005

Povertà e miseria di Majid Rahnema - Ediz. Einaudi

da Aldo Zanchetta

Premessa

“Coloro che hanno causato i problemi non sono le persone più adatte a risolverli” (Albert Einstein)

Alla vigilia di una nuova grande campagna mondiale contro la povertà legata agli 8 obbiettivi del Millennio fatti propri dalle Nazioni Unite (”No excuse 2015”) - fra questi prioritariamente quello della lotta alla povertà che in Italia sarà lanciato con la Marcia di Assisi dell’ 11 settembre prossimo con lo slogan “stop alla povertà”- una riflessione approfondita sul tema mi sembra del tutto importante.
Non possiamo infatti non interrogarci sul fallimento dei vari megapiani lanciati fino ad oggi a livello mondiale che hanno visto la povertà accrescersi e trasformarsi sempre più in miseria. Ricordate l’ affermazione con cui si chiuse verso gli anni 70 un imponente congresso della FAO a Roma: “entro 10 anni non ci saranno più nel mondo bambini che vanno a letto con la fame” ? Il messaggio attualizzato della stessa FAO all’ inizio del nuovo millennio ci ha detto che le persone che nel mondo soffrono la fame sono “ancora” 830 milioni (e assai, assai di più quelle in povertà) e che l’ unico obbiettivo realistico è il loro dimezzamento entro il 2015, obbiettivo legato però al verificarsi di 3 condizioni che invece non si stanno puntualmente realizzando: se non ci saranno guerre importanti, se non ci saranno grandi disastri naturali, se le nazioni ricche riporteranno allo 0,7% del loro PIL l’ aiuto allo sviluppo.

A questo punto una seria riflessione è consigliabile prima di gettare altre energie nella fornace delle disillusioni. E’ ovvio che questi 8 “obbiettivi del millennio” sono condivisibili e da perseguire. Ma farlo ripetendo politiche già fallimentari o semplicemente riverniciandole e che hanno ottenuto come principale obbiettivo quello di aumentare la ricchezza di una sempre più ristretta minoranza (grosso modo pochi anni fa l’ 80% della ricchezza prodotta nel mondo era appannaggio del 20% della porzione più ricca mentre oggi sempre l’ 80% si avvia ad essere posseduto dal 15%, cioè da un numero ancor più ridotto) potrebbe essere un grave segno di irresponsabilità. Forse non sarebbe male legare il lancio di nuove campagne ad una seria preventiva riflessione che tenga conto delle esperienze fatte in questi anni e soprattutto ascoltare il parere dei diretti interessati, i “poveri”. In occasione del recente “II Forum della solidarietà lucchese nel mondo” la dichiarazione finale, costruita assieme ai circa 30 rappresentanti dei partners coi quali le varie realtà lucchesi lavorano nelle ‘periferie del mondo’, termina così: “Facciamo nostra l’ esortazione di Jean Leonard Tuadì che ci invita, prima di fare cooperazione con i popoli del sud del mondo, ad imparare a camminare con loro.” Mi pare una evidenza fino ad oggi dimenticata e malamente supplita dall’ accordo di presunti rappresentanti cooptati allo scopo e non riconosciuti dalle proprie basi (vedasi la “Dichiarazione finale del II Vertice dei popoli indigeni americani” riuniti a Quito nel luglio 2004).

Il contenuto del libro

Ad oltre 2 anni dalla prima edizione francese il prossimo 31 maggio uscirà nelle librerie edita da Einaudi la traduzione italiana di un libro che certamente farà molto discutere e che a mio avviso ogni persona impegnata nel mondo della solidarietà internazionale e della lotta alla povertà potrebbe utilmente leggere, quale che sia il suo accordo o disaccordo finale con le tesi dell’ autore.
Iniziamo la presentazione traducendo dal testo francese, in attesa di quello italiano ormai imminente, una lunga serie di interrogativi iniziali ai quali l’ autore cerca di rispondere lungo le 322 pagine di tale edizione. (“Quand la misere chasse la pauvreté – Fayard / Actes Sud – 2003)

“Cosa è in effetti la povertà? Una costruzione dello spirito, un concetto, un vocabolo? Un modo di vita, la manifestazione di una mancanza, una forma di sofferenza? Si contrappone alla miseria o ne è il sinonimo? E’ una soglia arbitraria stabilita dagli esperti per distinguere i poveri dai non poveri o ancora una delle frontiere che separano i comuni mortali dai santi o dai ‘poveri di spirito’ che ne hanno fatto una scelta? E quanto al personaggio chiamato arbitrariamente il povero, è esso questo ‘caimano’ ‘fatto con la merda del diavolo’ (Roman de Renart) o il felice sfortunato che trova nella morte l’ unica ricompensa: essere invitato alla tavola di Dio? Che sia l’ uno o l’ atro egli deve essere abbandonato alla propria sorte oppure soccorso? E’ veramente possibile aiutarlo, e come, in un mondo dove l’ aiuto si trasforma spesso in minaccia e non serve troppo spesso che al suo promotore? Infine come spiegare l’ aumento del numero di uomini e donne segnati dalla miseria e dall’ aggravamento della propria situazione proprio quando non cessano di moltiplicarsi i grandi progetti di aiuto ai poveri e allorché l’ economia dispone di tutti i mezzi necessari per assicurare almeno la loro sopravvivenza?”

Il libro nelle parole dell’ autore è “il frutto di una conversazione ad alta voce….non pretende essere il lavoro di uno ‘specialista’ della povertà. Non è il prodotto di alcuna disciplina scientifica. E’ il risultato di uno sguardo personale e di una interrogazione libera e aperta su un mondo complesso, un mondo dove vivono queste persone che, le une e le altre noi chiamiamo a nostro modo, i poveri.” E’ piuttosto il tentativo di “condividere col lettore le prospettive e i punti di vista costruiti nel corso di una vita che mi hanno aiutato a comprendere i silenzi e a decifrare i linguaggi fino ad allora a me sconosciuti.”

Questa la genesi del libro di Majid Rahnema dal titolo italiano malamente “Povertà e miseria” malamente tradotto non rendendo la pregnanza del titolo francese “Quand la misère chasse la pauvreté”. In risposta alle citate domande la tesi centrale del libro, dottamente costruita e documentata, è la seguente: “una economia il cui principale obbiettivo è quello di trasformare la rarità in abbondanza non tarda a divenire essa stessa la principale produttrice di bisogni che generano nuove forme di rarità e, in conseguenza, di modernizzare la miseria.”

Tesi non nuova, già sostenuta da Ivan Illich nei lontani anni ‘70 nel suo libro ‘La convivialità” e splendidamente condensata nella sua conferenza del 1980 a Yokohama “Le paci dei popoli” e riportata nel libro ‘Nello specchio del passato’ (entrambi i libri riediti recentemente e contemporaneamente in Italia da due editori ora in lite giudiziaria fra loro circa i diritti col rischio che essi possano essere fatti scomparire dalle librerie per provvedimento giudiziario dalla vertenza in atto). Di Illich infatti l’ autore si dichiara amico e debitore e il quale “fino alla sua morte che ha coinciso con il termine della scrittura di questo libro fu per me un amico nel senso più esigente della parola e compagno di strada instancabile del quale nulla poteva alterare lo sguardo penetrante che portava sull’ opacità di questo mondo. Molte delle prospettive che ho potuto scoprire nel corso del mio pellegrinaggio in terre di povertà mi sarebbero passate inavvertite senza il suo aiuto fraterno.”

Tesi non nuova, ripeto, ma alla quale Rahnema contribuisce sostanzialmente con una analisi penetrante e riccamente documentata ed alla quale è dedicata la parte centrale del libro, preceduta da una prima parte destinata alla descrizione di come è cambiata nella storia, dall’ età della pietra ai giorni nostri, la percezione della povertà. Infatti “il rispetto del passato è indispensabile alla reinvenzione costante del nostro presente, sia che l’ eredità ci provenga dai tempi antichi o dall’ età dei lumi…..le società del dono o quelle che hanno visto nascere le povertà conviviali ci insegnano tanto quanto quelle che hanno prodotto la rivoluzione industriale, è dunque essenziale per noi il portare uno sguardo ‘archeologico’ su tutte le acquisizioni di questa eredità comune al fine di utilizzare tutto ciò che contengono di arricchente per il nostro presente.”

Nella terza e ultima parte, dopo l’ esame di una casistica di situazioni attuali nelle quali i ‘poveri’ del mondo stanno affrontando dal basso una soluzione realistica e ‘conviviale’ dei propri problemi (Roraima in Brasile, Anand Nagar in India, Dahar in Senegal, Oyo in Nigeria, gli ayllus del Perù etc ma senza dimenticare riferimenti ai maya del Chiapas, i sem terra del Brasile e altre esperienze oggi rilevanti), l’ autore giunge infine alla “riformulazione di certi interrogativi…..volta ad una migliore comprensione della sorte dei ‘poveri’ dell’ epoca moderna e all’ esame approfondito delle soluzioni proposte in un contesto diverso. Se questo libro tenta di effettuare un bilancio dei grandi programmi di lotta alla povertà, il suo obbiettivo è innanzi tutto quello di permettere al lettore di porre la problematica della povertà nel contesto generale dei grandi squilibri nati da un sistema produttivistico sempre più dissociato dall’ ambito sociale”.

Impossibile ripercorrere il lungo e documentato cammino intellettuale ricostruito nel libro dall’ autore, oggi anche caro amico, ma concludo queste note proponendo le righe finali:
“Nelle mie frequenti conversazioni con amici resi sensibili all’ avanzare della miseria e alla degradazione continua della condizione dei poveri, mi si chiede spesso se io sono pessimista o ottimista sull’ avvenire. La mia risposta è sempre la stessa: nessuna delle due posizioni mi sembra ragionevole.
E’ certo che le tendenze attuali rafforzano la tesi di una polarizzazione mondializzata ancor più spint a delle società e delle violenze strutturali che ne sono le conseguenze inevitabili. Noi potremmo quindi andare verso una catastrofe generalizzata e, probabilmente, verso uno sprofondamento violento del sistema che rischierebbe di far scivolare la maggioranza degli uomini e delle donne in una povertà subita o direttamente nella miseria.
In alternativa è anche possibile immaginare che un pullulare di azioni individuali o collettive orientate verso dei modi di vita semplici e verso una povertà conviviale favorisca e rinforzi percorsi opposti. Noi abbiamo visto che le donne e gli uomini che, qua e là, hanno fatto localmente queste scelte sembrano ‘vincenti’ su molti piani: la loro vita più ricca ha loro consentito di sfidare la miseria che li circonda e il loro esempio apporta l’ aiuto più prezioso che vi sia per il loro prossimo.

Aldo Zanchetta

27.05.05


(*) Antico ministro dell’ istruzione del suo paese, l’ Iran, ne è stato successivamente rappresentante all’ ONU per poi divenire membro del Consiglio esecutivo dell’ UNESCO e infine rappresentante residente delle Nazioni Unite in Mali. Da 20 anni si è consacrato ai problemi della povertà. E’ autore con Victoria Bawtree del libro “The Post-Development Reader”, di numerosi studi ed articoli pubblicati in riviste di vari paesi.


Nota : Sul sito della Scuola per la Pace della Provincia di Lucca è reperibile il testo della Lezione di apertura dell’ anno 2004-2005 della Scuola stessa, testo che può essere inviato in forma cartacea su richiesta (www.provincia.lucca.it/scuolapace).

Il numero The Ecologist italiano

da Aldo Zanchetta

PRESENTAZIONE II numero The Ecologist italiano

di Giannozzo Pucci

Questo secondo volume dell'Ecologist italiano è dedicato al criterio con cui è possibile valutare il livello di cultura, costumi, evoluzione morale e materiale di una società. Tale criterio è rappresentabile con termine tecnico "simbiosi", cioè il miglior rapporto possibile fra comunità degli uomini e comunità ecologica, portando quest'ultima allo stadio climax (cioè di massima ricchezza di forme vitali) e mantenendolo con continue variazioni. In altre parole, la presenza umana in simbiosi con la biosfera cura le ferite della terra, moltiplica le forme di vita, arricchisce i mondi animali e vegetali, permette a tutti di avere il necessario per la sussistenza, traendone il migliore nutrimento materiale e spirituale. Si tratta di un argomento che finora ha avuto poca o nulla cittadinanza nel dibattito scientifico, culturale e politico in Italia, anche fra i tanti che parlano di sostenibilità. La nostra economia aumenta sempre più il suo peso erosivo sulla natura, avvalendosi delle iniziative tecnologiche messe in atto per ridurre i danni. Non ci si riferisce soltanto alle mafie dei rifiuti, ma anche a quelle attività di riciclaggio a cui si accompagna un aumento dei consumi. Curare le ferite della terra è possibile solo con un passaggio di ampie fette di attività alle economie di sussistenza, come la produzione alimentare e artigianale su piccola scala per mercati locali. Infatti la simbiosi è realizzabile unicamente nell'ambito di una cultura di sussistenza, l'opposto della globalizzazione dei mercati. Abbiamo iniziato dedicando una riflessione alla tragedia dello tsunami nel sudest asiatico perché è uno dei pochi casi in cui la natura ha conquistato per alcune settimane le prime pagine di tutti i mezzi di comunicazione di massa con il carattere del flagello. È interessante confrontare il modo in cui le culture tradizionali hanno spiegato l'evento con il modo con cui ha reagito la religione scientifica che permea l'ideologia della società tecnologica. Le pr0me hanno dato una giustificazione simile a quella che dette san Francesco al popolo di Gubbio sulla presenza del lupo feroce e di altri disastri naturali: è la cattiveria umana ad attirare il castigo, che impone un cambiamento di vita personale e sociale, una grande conversione. La società tecnologica, invece, non contempla conversioni, errori radicali, l'unico errore è la mancanza di collegamento fra gli scienziati che avevano previsto con ore di anticipo e le popolazioni interessate. Per il resto solo due ritornelli ideologici: la natura matrigna a confronto con la tecnologia salvifica, Dio indifferente a confronto con l'uomo scientifico salvatore. Se si sommano i morti per incidenti d'auto, per malattie dovute all'alimentazione, all'azione degli inquinanti chimici e radioattivi, e per le altre cause dirette della civiltà tecnologica, probabilmente il numero dei morti, ad essere ottimisti, supera nel mondo uno tsunami l'anno, eppure è considerato un costo accettabile per i benefici della civiltà del benessere, la quale non sarebbe mai matrigna. Al beneficio della natura creata invece non si concedono costi. L'intervento di Vandana Shiva chiarisce a questo proposito che lo tsunami è stato una prova generale delle conseguenze naturali degli abusi tecnologici, in primo luogo il riscaldamento dell'atmosfera. L'altra tesi dell'indifferenza di Dio non fa poi che confermare l'impianto ateo della civiltà dei consumi che nemmeno di fronte alla catastrofe in atto è disposta ad ammettere un suo limite, ma progetta nuove megatecnologie di rassicurazione e controllo, evitando ogni redenzione autocritica e il corrispondente cambiamento. Ma soprattutto la reazione progredita è solo razionale e scientifica, non risponde in nulla all'anima, cioè a quelle parti profonde che più sono toccate di fronte alla morte. Infatti il problema ecologico è un problema complessivo, come sottolinea Edward Goldsmith nel saggio introduttivo, cioè di collegamento fra l'anima della comunità e la madre terra. La società tecnologica in realtà, con lo sradicamento dalla natura che ha diffuso a livello delle grandi masse, è estremamente vulnerabile, mentre si dimostrano molto più solide davanti allo tsunami le culture indigene che invece, come la natura stessa, rischiano di avere i loro danni maggiori proprio dagli aiuti economici del mondo sviluppato, con nuove malattie, intromissioni, imposizioni ecc. Questa capacità dei popoli tribali di difendersi dagli eventi naturali per una competenza tradizionale diffusa è la rappresentazione simbolica di una conoscenza democratica che nel mondo moderno è stata soppiantata da una religione scientifica nelle mani degli esperti, i quali trasmettono le loro verità agli ignoranti. Gli incidenti di comunicazione fra scienziati e cittadini costituiscono, molto più di un problema tecnico, il vizio strutturale di una conoscenza antidemocratica che combatte quella tradizionale ed è disponibile a essere guidata solo dai grandi gruppi economici. Dal saggio di Goldsmith che dà il sottotitolo al volume e che è complementare a quello di Haussmann, senza far riferimento alcuno all'etica ebraico-cristiana, si desumono i caratteri essenziali di un'etica della biosfera:

1) prima di tutto la natura è un'autorità morale fondante l'etica umana, per cui l'universo contiene in sé, già prima e indipendentemente dall'esistenza dell'uomo, delle istruzioni intrinseche che hanno un carattere morale, anche se solo l'umanità è capace di fare scelte secondo o contro quelle indicazioni; l'essere della natura è il dovere dell'uomo;
2) le istruzioni della natura sono gerarchiche, cioè alcune sono più generali e altre, a loro sottostanti, più particolari: tutte sono finalizzate a uno scopo, quantomeno quello di mantenere la stabilità della biosfera;
3) i principi etici della natura sono immutabili, almeno nel breve periodo (che nella biosfera comprende parecchi secoli), e ciò è essenziale al mantenimento della stabilità e continuità ecologica;
4) l'intelletto è uno strumento forgiato per lo scopo specifico di stabilire buoni rapporti con le cose;
5) il principio di autorità. Le affermazioni non vengono accettate nel mondo reale, né dagli scienziati, né dai bambini, per il fatto di essere state verificate o perché sono falsificabili, ma perché si adattano a un particolare paradigma o visione del mondo. Ciò che rende accettabili le istruzioni fino ad adottarle come principi etici ispiratori, è il fatto di essere sanzionate, autenticate, convalidate, santificate da qualcosa di più importante di noi stessi e che riconosciamo autorevole;
6) il comportamento etico deve mettere in condizione un essere vivente di inserirsi nel mondo della natura, di comportarsi come parte di essa e perciò rispettarne le leggi e i limiti;
7) l'etica della biosfera ha il compito di razionalizzare e convalidare la tutela e l'arricchimento del mondo naturale da cui dipende in ultima istanza la nostra sopravvivenza;
8) il razzismo non ha posto nell'etica della biosfera e tutti gli uomini hanno la stessa dignità, che siano primitivi o moderni: la conoscenza non comincia con l'uomo moderno ma esiste in altre forme, molto diffuse e profonde fra i cosiddetti primitivi (vedi la conoscenza che ha permesso agli Jarawa di salvarsi dallo tsunami);
9) tutti gli uomini hanno il libero arbitrio della scelta e il male è presente in ogni epoca e società, con la differenza che la tecnologia ne accresce le conseguenze e lo istituzionalizza nella tecnosfera;
10) tutti i benefici e le risorse, l'energia, il cibo, le materie prime derivano dalla biosfera;
11) il mondo naturale è in generale una vasta comunità, rispetto alla quale l'individualismo è una realtà particolare ad essa subordinata.
Questi caratteri, come nota Goldsmith, si ripetono nell'etica di tutti i popoli vernacolari, in quella del mondo greco antico, nel Tao cinese, e possiamo aggiungere che in molti casi corrispondono all'impianto della teologia morale medioevale di santa Ildegarda di Bingen e di san Tommaso d'Aquino. Anche per loro la natura è un'autorità fondante per l'etica umana, cioè l'universo contiene in sé, già prima e indipendentemente dall'esistenza dell'uomo, delle istruzioni intrinseche che hanno un fondamento morale, anche se soltanto l'umanità è capace di scelta secondo o contro quelle indicazioni. ciò corrisponde alle parole della Genesi secondo cui Dio vide che tutto ciò che aveva creato prima dell'uomo era buono, cioè già conteneva un messaggio etico. Il peccato di Adamo non cambia la natura della creazione, che si vela e gli rende la vita più difficile, ma mantiene intatta la propria bontà. Nella sostanza simili concezioni costituiscono la base comune dell'identità profonda di tutti i popoli. Gli scritti presenti nella seconda parte di questo volume aiutano a illustrare la necessità e il modo con cui riprendere la via etica della biosfera e della simbiosi con la natura, pur provenendo dall'interno della tecnosfera. Il modello è l'oasi, perché si parte da una situazione di natura devastata, ma proprio questo è lo scopo principale del lavoro delle prossime generazioni.

La guerra è la malattia non la soluzione di Eugen Drewermann

da Aldo Zanchetta

[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) per questo intervento.
Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. E' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recente edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org.

Eugen Drewermann e' un illustre teologo e psicoterapeuta; tra le sue opere segnaliamo almeno: Psicoanalisi e teologia morale; Il vangelo di Marco; Psicologia del profonde e esegesi (due volumi); Parola che salva, parola che
guarisce; Il cammino pericoloso della redenzione; Il messaggio delle donne, L'essenziale e' invisibile; I tempi dell'amore; Cenerentola; Il tuo nome e' come il sapore della vita; Il cielo aperto, Parole per una terra da
scoprire; tutte presso la Queriniana, Brescia; Guerra e cristianesimo, la spirale dell'angoscia, Raetia, Bolzano; La fede inversa di Eugen Drewermann, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2033; La guerra e' la malattia non la
soluzione, Claudiana, Torino 2005]

Di questo libro di Drewermann (Eugen Drewermann, La guerra e' la malattia non la soluzione, introduzione di Gianni Vattimo, Editrice Claudiana, Torino 2005, pp. 208, euro 17,50) oserei correggere il titolo: non piu' "La guerra e' la malattia, non la soluzione", ma, addirittura, "L'esercito e' la malattia, non la soluzione".
Molti sono i temi di questo lavoro appassionato del famoso psicoanalista e teologo cattolico: guerra e terrorismo, tecnica e terrore, l'immagine del nemico, l'islam, il pacifismo, Israele e palestinesi, il fondamentalismo, la
cultura di pace, i maschi e la guerra, la nonviolenza, le religioni e la pace, guerra giusta, guerra santa, psicoterapia e violenza, educazione alla pace. Ogni tema e' discusso in dialogo-intervista con Juergen Hoeren, con apertura di orizzonti, sguardo all'attualita' seguita all'11 settembre (l'edizione originale e' del 2002), liberta' critica, impegno umano di liberazione, e forte senso evangelico. Drewermann indica che il discorso della montagna di Gesu' e' praticabile nella storia.
Ma dicevo dell'esercito. Per poter fare la guerra bisogna plasmare gli uomini con lo stampino dell'esercito, che non e' diverso dalla disumanizzazione del fanatico. E' questo il tema psicologico piu' insistito nel libro. "L'esercito, il servizio militare, non consiste in null'altro se non attivare il lato criminale presente negli stessi esseri umani, che viene poi istruito e strumentalizzato per combattere la criminalita' (sia internazionale, sia interna). Cosi', pero', non ci se ne libera, ma la si rende eterna" (p. 58). Papa Pio XII affermo' che "nessun cattolico avrebbe avuto il diritto di
rifiutare il servizio militare appellandosi alla sua coscienza", e teologi cattolici illustrarono nel Parlamento tedesco questa opinione, che un cattolico responsabile deve essere (le parole sono di Drewermann) "disponibile a fare la guerra", deve "imparare a uccidere a comando" (pp. 54-55). Dopo, la coscienza cattolica ha fatto un cammino.
Nell'addestramento militare "non e' solo importante distruggere l'autostima, bisogna anche abbattere l'inibizione a uccidere... L'esercito e' un'arcaica e barbara orda di uomini, un ostacolo alla civilta'" (p. 62).
"Cio' che produce l'esercito non e' sicurezza, ma una paranoia reale, un apocalittico Armageddon, la perpetuazione nella storia del mondo di Caino e Abele" (p. 70). "E' chiaro che, attraverso questo comportamento [la guerra Usa in risposta all'11 settembre] i terroristi troveranno conferme piuttosto che smentite riguardo alla loro visione dell'Occidente... Ripeto, ogni guerra e' di per se stessa terrorismo" (p. 75). Non sono "realiste" le persone che pretendono di stabilire la "pace" con la minaccia di omicidi di massa: "ai miei occhi si ha a che fare con potenziali
stragisti, con criminali del piu' alto rango, con terroristi di Stato, con pazzi di ogni tipo" (p. 73).
"Non appena viene pronunciata la parola guerra, qualsiasi mezzo viene giustificato... Leggiamo, per esempio, che dobbiamo distruggere i talebani "con tutti i mezzi"... Nulla e' cosi' santo da rendere tutto il resto giustificabile, altrimenti avremmo fatta nostra la mentalita' dei terroristi. A quel punto l'ideologia dello Stato sarebbe identica a questa mentalita' e con essa intercambiabile. Sarebbe la stessa follia della coscienza" (p. 99).
Riguardo al conflitto Israele-Palestina, Drewermann osserva che l'apporto delle religione renderebbe possibile "un discredito dell'intero, folle apparato militare, che in effetti gia' solo attraverso la sua esistenza assorbe tutti gli elementi capaci di cultura... C'e' una carenza di parole nel nostro mondo che ci chiude. La violenza e' una lingua sostitutiva motivata dal rifiuto del dialogo" (pp. 102-103).
"La guerra... non e' degna di noi. Ripeto: dovremmo rimuovere in primo luogo i campi di addestramento militare, il lavaggio del cervello fatto nelle caserme di ogni citta', e non solo presso i terroristi in Afghanistan.
Bisognerebbe cominciare qui, da noi" (p. 112). "Rispettando l'obbligo dell'obbedienza all'esercito, gli esseri umani
vengono del tutto annullati come persone in quanto essi si identificano completamente con la centrale di comando. A questo si aggiunge il fatto che viene creato un pensiero sostitutivo, non piu' soggetto al controllo
emozionale" (p. 120). L'autore mostra con vari esempi atroci di quali nefandezze normali in guerra diventano capaci i soldati eccitati ad uccidere, privati dei normali sentimenti umani. "La sola realta' dell'esercito uccide quotidianamente molti piu' esseri umani di quanti non ne possiamo 'salvare'" (p. 122). Sento qui l'eco del grande Kant: "La guerra fa piu' malvagi di quanti ne toglie di mezzo". Il grande valore dell'islam autentico, e delle altre religioni monoteistiche, e' l'affermazione che "Dio e' grande", che e' "piu' grande del potere stabilito". Allora, chiede Drewermann: "Che cosa accadrebbe se ci fossero esseri umani che dichiarassero: proprio perche' Dio e' piu' grande, non prendo ordini per andare in guerra, non prendo ordini per fare il soldato?" (p. 143). Ecco la grande possibilita' e responsabilita' delle religioni, forza eversiva della violenza, liberatrice di umanita' nella storia. Forza non usata. Forza non creduta. Dio e' assoggettato ai poteri stabiliti.
"La violenza distrugge moralmente colui che la utilizza". Fatto l'esempio attuale di un soldato istruito ad essere un killer professionista, l'autore chiede: "Quanti sensi di colpa lo assaliranno? E se non ne ha piu', ancora peggio. Quante reazioni della sensibilita' umana devono essere state eliminate in lui, affinche' possa essere un assassino?" (p. 153). "Chiunque faccia il soldato deve essere pronto a utilizzare veramente le cose che gli sono state insegnate in caserma. L'epoca delle scuse morali e' finita" (p.160).
L'esistenza dei cappellani militari, che assicurano la "consolazione morale" dei soldati, pone il problema: o "religione di popolo", confortato ad obbedire ai potenti, oppure religione profetica, percio' critica dei poteri assolutizzati, e dunque istigante il popolo alla indipendenza morale e alla possibile disobbedienza, percio' perseguitata dai potenti e, probabilmente, rifiutata dalla maggioranza succube (cfr p. 161).
A proposito dei famosi esperimenti di Milgram (dimostrazione che persone normalissime per rispettare l'autorita' e la scienza diventano potenziali assassini), scrive Drewermann: "Nell'esercito non viene semplicemente fatto affidamento a questa 'obbedienza media', ma l'obbedienza viene addestrata duramente, con paura e sotto giuramento, affinche' di fronte ai superiori tutto questo venga continuamente automatizzato in gesti di sottomissione" (p. 174).
Richiamando Freud (ma qui c'e' un errore: non si tratta della lettera ad Einstein, che e' del 1932, ma del saggio del 1915), per il quale "la morale del singolo e' ormai molto superiore alla 'morale' dei potenti", e Einstein nel 1950, per il quale "l'uccidere in guerra non si differenzia per nulla da un omicidio efferato", Drewermann aggiunge: "Tuttavia, raramente si troveranno omicidi con una considerazione di se' pari a quella dei soldati" (p. 175).
Drewermann riferisce l'impressionante testimonianza di un soldato statunitense in Vietnam (1). Era quasi impazzito per le conseguenze interiori dei suoi omicidi a decine, commessi in guerra. Guarito da un monaco buddhista, ora e' monaco lui stesso. Egli riconosce "che il mondo in cui aveva vissuto e' follia pura: addestrare esseri umani a uccidere... e il peggiore aspetto di questa follia e' che esiste una societa' che non solo non vuole alcuna riflessione su queste presunte necessita', ma che le vieta". Il cristianesimo occidentale e' impreparato a curare "questa follia apparentemente normale, perche' si tiene ancora troppo allineato all'autorita' statale" (pp. 181-184). Il primo dei cinque punti che Drewermann propone per educarci alla pace e' la necessita' di liberarci dall'ostacolo che sta "nella disponibilita' all'obbedienza, nella capacita' di cedere la propria responsabilita', di
richiamarsi a ordini dati da altri" (p. 185). "Caratteristica dell'essere soldato e' il fatto che egli si debba annullare
come soggetto per essere disponibile all'annullamento di 'materiale umano' insito nel nemico, e all'omologazione nella propria truppa" (p. 187). "L'esercito e' la condizione marginale o di catastrofe della vita civile, e tanto piu' a lungo questo sopravvive, tanto piu' diviene catastrofe per tutta la nostra vita" (p. 189). Ha scritto Teresa Sarti, di Emergency: "Finche' la guerra sara' tra le opzioni possibili, la guerra ci sara'" ("Il manifesto", 12 marzo 2004). La
principale alternativa alla guerra che Drewermann propone e' il dialogo profondo, preveggente, preventivo, autocritico, col "nemico". Solo la parola seria guarisce i rapporti umani.
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Vorrei terminare con una orrenda esperienza personale, che ho gia' riferito in numerosi articoli e in piu' di un libro. Il 29 marzo 1996, durante un dibattito sulla guerra in un teatro torinese, pieno di studenti di scuola media superiore, il generale Carlo Jean, allora come oggi alto comandante militare, disse letteralmente (prendevo appunti sotto dettatura): "Nell'esercito e' necessaria la disciplina... perche' combattere significa uccidere. Occorre l'esecuzione automatica dell'ordine". Ora, dove c'e' esecuzione automatica non c'e' coscienza, dunque non c'e' piu' un essere umano. Mi pento di non avere denunciato il generale per corruzione di minorenni. Le tesi di Drewermann (che gia' anticipava Kant, a proposito di eserciti permanenti) sulla disumanizzazione dei soldati, imposta per usarli
come strumenti di omicidio, e' confermata da un alto militare italiano.
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Note
1. Si tratta, con tutta evidenza, di Claude Thomas, venuto piu' volte in
Italia, di cui abbiamo qualche scritto, come l'opuscolo Un cammino di
liberazione. Dalla guerra in Vietnam alla pace nel cuore, pubblicato da La
Rete di Indra, Roma 1996 (per richieste: e-mail: indra@alfanet.it, tel.:
068079090). Ne ha parlato anche "L'Unita'" del 6 maggio 1997.