31 dicembre 2024

"Giorno di vacanza" di Inès Cagnati

 


di Marigabri

"Sono nata, ormai, da così tanto tempo che ho avuto modo di abituarmici”.

       I temi, l’ambiente e le voci narranti che prendono forma dalla felice penna di Ines Cagnati sono sempre gli stessi: famiglie miserabili che vivono ai margini della società civile, bambine o ragazzine che si ingegnano a sopravvivere in assenza di una famiglia accudente, una campagna ostile e necessaria al tempo stesso che diventa oggetto di un rapporto viscerale e quasi di un culto animico, perché il legame tra l’infanzia e la terra sostituisce quello con la madre.

       Giorno di vacanza, bisogna ammetterlo, è forse il più lugubre fra i racconti di Cagnati. Qui ‘vacanza’ traduce la parola francese congé che però ha un richiamo semantico più ampio e getta un riverbero (ma di luce sinistra) verso il nostro “congedo”, forse nel senso di una separazione, di un allontanamento e finanche un addio.

        La quattordicenne Galla, contro la volontà della sua ruvida e sbilenca famiglia, ha cominciato a frequentare il liceo, nonostante la miseria che non le permette di avere un grembiule rosa come le altre allieve (il suo è vergognosamente verde, eredità penosa di una -odiata- zia morta) e nonostante i 35 chilometri che la separano dalla scuola e che lei percorre ogni quindici giorni con la sua bicicletta, oggetto animato di vita riflessa: quella vita che la ragazzina proietta su ogni cosa che lei ritienga degna d’amore.

       Amata è soprattutto Fanny, compagna di banco ricca e felice dal volto ridente pieno di luce, una fanciulla leggiadra, bella e buona … di sicuro perché è stata voluta, di sicuro perché è stata amata, al contrario di Galla, solo un impiastro fra le tante sorelle che riempiono l’inospitale casa in mezzo al nulla e sembrano tutte venute al mondo per sbaglio o per caso.

          È un venerdì il giorno di vacanza in cui Galla torna a casa, sperando come sempre di trovare un po’ di calore umano ad accoglierla. Ma l’unico affetto che incontra, l’unico afflato materno, è quello della cagnetta Daisy che, insieme al suo piccolo appena nato, si prenderà cura anche di lei.

Tutto il resto è da scoprire.

      Ma soprattutto è la voce di Galla, i suoi ragionamenti ben radicati nell’esperienza della sventura, l’odio motivato e la repulsione verso gli adulti inetti, ipocriti e violenti, la consapevolezza che l’aridità umana è senza speranza, al contrario della vitalità animale; è soprattutto questa voce affilata e cristallina a rendere la narrazione il miracolo che è, e perfino a farci sorridere, paradossalmente, ascoltando le riflessioni di Galla, mentre sprofondiamo in una inguaribile, paludosa tristezza.

Inès Cagnati. Giorno di vacanza. ACagnati delphi.

 

 

30 dicembre 2024

"Vi avverto che vivo per l'ultima volta" di Paolo Nori

 


di Giulietta Isola

"Leggere le poesie in traduzione è come fare la doccia con l'impermeabile". 

       Questa è la difficoltà: i lettori di questo romanzo faranno un po' di docce con l'impermeabile. Ma forse non cambia moltissimo: a me sembra che nelle poesie di Anna Achmatova piova così forte che ci si bagna anche con l'impermeabile.

       Né romanzo, né memoir, né saggio di critica letteraria, né biografia. Paolo Nori parla, attraverso Anna Achmatova, di noi e lo indica chiaramente nel sottotitolo Noi e Anna Achmatova, una lettura non semplice ma coinvolgente. 

       Nel primo capitolo conosciamo Anna : non bella ma più che bellissima, capace di spiccare ovunque andasse, di riempire i luoghi in cui entrava, ha imparato l'italiano solo per leggere Dante in originale e si chiamava Gorenko. Scelse il nome di Achmatova prendendolo in prestito da un suo avo, perché il padre le impedì di "disonorare" il suo cognome con un'attività così discutibile come lo scrivere poesie. Fu perseguitata dallo stalinismo che le imprigionò il figlio e fucilò il marito, una che voleva essere chiamata poeta e non poetessa. «Capisco» diceva «che ci debbano essere i bagni maschili e quelli femminili, in letteratura però no, non funziona così». Achmatova fu esclusa dall'Unione degli Scrittori in un disperato tentativo di bloccare la sua libertà di espressione, il Potere in pieno delirio pensava di riuscire a ingabbiare la letteratura o usarla per fare schieramenti ideologici proprio come fa oggi. 

        Nori lucidamente riflette su Russia e Ucraina, negli anni che erano di Anna e in quelli attuali, va oltre la contingenza e gli schieramenti, alla radice della "bestialità" che l’uomo mette in campo , quella espressa in queste pagine è una riflessione che lascia spazio al silenzio delle lacrime ed ai non lo so. 

        Interessante la riflessione sul furore iconoclastico , dopo l’annullamento dei seminari su Dostojevski alla Bicocca. Qui Nori racconta tra divertimento e spaesamento la marea di inviti che gli sono piovuti dalla Cina, dagli USA, dall'Unesco, dalla Persia, da tutte le parti, mentre in Italia e in Occidente si vietano mostre e balletti, concerti e proiezioni per quelli che, al pari di Dostoevskij hanno avuto «la sfacciataggine di nascere in Russia». Niente di nuovo, ad Anna Achmatova avevano messo dei microfoni in casa, per spiarla. Lei, in compagnia di una amica, parlava a voce alta di cose banali, chiacchierava del tempo, e intanto su un foglietto scriveva i suoi versi e li passava all'amica, che li imparava a memoria. Poi bruciava il foglietto. Quei versi , in questo modo, sono arrivati ad allietare e dare forza ai prigionieri nei gulag.

           Il romanzo di Nori è disordinato, vaga per sentieri che niente hanno a che fare con la via principale, ma poi improvvisamente una citazione o un ricordo personale ci riportano in carreggiata ed al punto giusto in cui dovevamo arrivare. 

       Scrivere dell'Achmatova, è riflettere sulla libertà dell'arte, sull'umanità della poesia e sul ruolo dell'intellettuale. In questo momento buio della civiltà l’intellettuale deve "Scrivere delle cose belle" e “lottare contro la censura, di ogni natura e qualsiasi potere la sostenga. Io sono un feroce partigiano di questa libertà e dichiaro che uno scrittore che possa farne a meno somiglia a un pesce che dichiara pubblicamente di poter fare a meno dell'acqua” come dissero Brodskij e Bulgakov.

Il miele selvatico sa di libertà,

La polvere, di un raggio di sole,

Di Viola, la bocca di una vergine,

E l'oro, di niente.

D'acqua, sa la reseda

E la mela sa d'amore

Ma noi ormai sappiamo già

Che il sangue solo di sangue sa.

Quel mutismo trascendeva la sua persona e arrivava come il grido pietrificato di una storia tragica: la sua e quella del suo popolo e di tutta l’umanità straziata dall’arbitrio e dalla violenza di un’epoca fatale”.

VI AVVERTO CHE VIVO PER L’ULTIMA VOLTA di PAOLO NORI MONDADORI EDITORE


24 dicembre 2024

"Il mio primo libro: I figli del capitano Grant" di Luciano Luciani

 


Una recensione col senno di poi

 

        Il primo libro della mia vita di cui abbia sicura contezza? Ovvero, riesca a ricordare quando e dove l’acquistai, e poi l’autore, l’argomento e magari anche il prezzo… La memoria mi restituisce un Jules Verne, I figli del capitano Grant, in edizione non integrale, rivisitata e corretta per l’infanzia, copertina lucida e colorata, volumetto comprato a Roma in una piccola cartolibreria che affacciava sulla via Nomentana, a pochi passi dalla celeberrima Porta Pia. 

       L’anno? Mah, sicuramente alla fine delle scuole elementari… Ancora di là da venire la televisione casalinga, la lettura, a pari merito col cinema quando si dava, costituiva non solo il mio divertimento preferito, ma la mia gioia più intensa, più intima, più mia… 

        Ad alfabetizzarmi erano state le buone suorine dell’asilo privato del Preziosissimo Sangue di Gesù posizionato proprio davanti alla basilica di Sant’Agnese fuori le mura: ben presto tradite perché alle loro letture, a dir poco devozionali, ne avevo ben presto preferite altre assai più mosse e  accattivanti: Topolino, l’Intrepido, il Monello… E anche qualche libro. Inavvicinabili perché seriosi i pochi della dotazione familiare, decisi che avrei messo da parte i soldi per comprarmi le pagine degli autori dei quali, da qualche parte, pure avevo sentito parlare e “Giulio” Verne era tra questi. 

        Lette, ne ricavai qualche motivo di soddisfazione. C’era tutto quello che mi aspettavo: luoghi ancora remoti, inesplorati e inaccessibili, da conoscere e civilizzare, giovinetti eroici alla ricerca del padre disperso, adulti generosi ancora capaci di proteggere ed educare amorevolmente, buoni versus malvagi ai quali, però, viene comunque lasciata qualche speranza di redenzione. Primo capitolo della trilogia che sarebbe continuata con Ventimila leghe sotto i mari per concludersi con L’isola misteriosa, che avrei letto, l’uno e l’altro, qualche anno più tardi,  

         I figli del capitano Grant non mi deluse e, soprattutto, mi lasciò la voglia di continuare quel modesto esperimento di autonomia intellettuale: leggere quello che mi pareva, ricorrendo, stante le dimesse risorse economiche, al mercato dell’usato, allora fiorente in rivenduglioli e bancarelle improvvisate. 

        Subentrava velocemente una nuova stagione, quella della fantascienza: le esplorazioni spaziali e le saghe stellari comprese negli agili fascicoletti dei romanzi di “Urania”, in un veloce volgere di tempo, avrebbero sostituito i fumetti, Verne e i suoi succedanei salgariani. 

       Bussava alle porte della Storia Grande, e anche a quelle della mia privatissima, un tempo nuovo che appariva ricco di promesse, di inedite occasioni, di possibilità fino a quel momento sconosciute. Saltai bravamente tutte le letture canoniche proprie dell’età bambina (i Giannettini, i Minuzzoli, Cuore, e financo Pinocchio…), lessi, con qualche commozione, I ragazzi della via Paal, la storia amarognola della guerra tra due bande di ragazzi di Budapest per il possesso di uno spazio libero per i loro giochi. 

      Ormai il mio immaginario era tutto preso dalle apparizioni degli UFO e dalla “rossa” conquista, a piccoli passi, di porzioni sempre più larghe di spazio: prima con lo Sputnik, ottobre ’57, poi con l’astronauta sovietico Yuri Gagarin, aprile ’61, eroe della corsa alle stelle e primo uomo in orbita. Ricerca di un’autonomia di letture, gusto per l’avventura, fiducia, senz’altro ingenua, nel potere della scienza, della tecnologia e della politica per garantire a tutti un mondo più giusto e ordinato sia pure all’interno della perenne dialettica tra Natura e Civiltà… Non lo sapevo ancora, ma a tutto ciò fece da battistrada la lettura partecipe e appassionata de I figli del capitano Grant, sfortunato comandante scozzese della nave Britannia.


23 dicembre 2024

" L’alfabeto a memoria" di Sandro Bartolini

 



di Marisa Cecchetti

        “L’intera nazione in quegli anni si spostava dai campi all’edilizia e all’industria, Tutta l’Italia marciava, in Vespa, Lambretta, motocicletta, una a famiglia, non di più. Le case nascevano dietro gli angoli, finito il tetto la bandiera tricolore sventolava in aria, trionfante, la cena col capomastro era d’obbligo”.

         Cesare, il protagonista de L’alfabeto a memoria, alter ego dell’autore, aveva quattro anni quando la sua famiglia lasciò il podere per trasferirsi in quel di Tirrenico, nome di fantasia di un paese della Maremma toscana: “Capitava di frequente che d’autunno, tutte le colline marittime fossero investite da un turbinio d’aria fredda. Arrivava dal nord, il vento di tramontana, il preferito nella sua asprezza. Che gusto  sentir dire: oggi tira una tramontana che porta via! Tirrenico è un paese della Maremma pisana, la Maremma del nord, per capirci, ridente paese sulle colline, a trecento metri scarsi sul livello del mare […] Da lì Volterra appare, austera […] dignitosa, ferma nel voler difendere la propria bellezza”.

        Sandro Bartolini fa rivivere la comunità di quegli anni, riportando alla memoria di chi è un po’ avanti con l’età usi e costumi di allora, quando mancava tutto, in inverno le case erano fredde e umide e infestate dalle piattole, i letti gelidi, l’acqua si prendeva al pozzo, la cucina povera, le case e il gabinetto - se così si può chiamare una buca o il campo aperto - era fuori; ci si spostava a piedi e in bicicletta, la vita era frugale per tutti, le maestre erano severe e colpivano col righello le gambe nude dei ragazzi. Ma i bambini erano liberi di scorrazzare tutto il giorno, dopo la scuola, di imparare dalla natura, di inventare giochi - i tappini delle bibite, le palline - anche giochi pericolosi come la fionda, con quella creatività e fantasia che erano d’aiuto quando non c’erano giocattoli a disposizione. Un richiamo della madre al momento di mangiare, e tutti correvano a casa. Non c’era la televisione e la sera Cesare, che aveva imparato a leggiucchiare, andava da due anziane vicine a leggere per loro qualche pagina di rivista.

        Bartolini accompagna Cesare Stefani negli anni, oscillando tra presente e passato, ogni nuovo capitolo recante una lettera dell’alfabeto evidenziata tra le prime parole, e racconta attraverso una serie di quadri, trascinando dentro case, strade, piazze, a condividere quella vita. Lo fa con sottile precisione, con un po’ di nostalgia e una spolverata di ironia, con un registro linguistico che scova parole che solo i toscani riconoscono: c’è la brusta, il brusotto, ci sono i morecci, c’è la coltella ben distinta dal coltello, c’è la strombola, la pulenda che si girava a lungo nel paiolo appeso al camino… Ritroviamo la raccolta delle chiocciole e i piatti che se ne facevano; troviamo le donne insieme al lavatoio che tornano con la tinozza in capo di panni lavati; rivediamo sulla battigia le file ordinate di maschi  e femmine delle colonie estive che attendono di fare il bagno sotto lo sguardo degli assistenti. Di quello stile di vita - che non era stile, bensì necessità, ineluttabilità, perché di meglio non si poteva - non si alza da nessuna parte un lamento, perché non si conosceva niente di diverso: tutti, con rare eccezioni che non facevano la regola, vivevano allo stesso modo.

         Conosciamo i paesi della Maremma, i turisti che li scoprono, vediamo Livorno e le isole dell’arcipelago all’orizzonte.  E poi c’è un personaggio felliniano, uomo di spettacolo, comico e cantante, che solca i teatri di provincia, circoli ricreativi e piazze, vive in un piccolo appartamento a Cecina, si sposta a piedi su per le colline, si ferma a salutare chi incontra, atteso e seguito come il pifferaio magico.

       Ricco di fatti, di persone, di storie, L’alfabeto a memoria dona la sensazione di tornare indietro, a decenni lontani, e magari rivediamo noi stessi sul sedile di una Lambretta, aggrappati al babbo, stretti stretti ed emozionati: “Gli Stefani partirono da via dei Gorili dopo cena, Cesare, infagottato in mezzo, Edoardo alla guida della Lambretta Innocenti 125 e Maura sul sedile posteriore. Il freddo era pungente! Imboccarono lo sterrato del Fiorino, la motoretta borbottava, Edoardo scalava le marce. Da lì presero per Tirrenico, la strada asfaltata s’infilava nelle macchie, il tepore degli alberi accoglieva gli Stefani e fu proprio in quel momento, tra il babbo e la mamma che Cesare si addormentò”.

Sandro Bartolini, L’alfabeto a memoria, Edizioni ETS 2023, pag. 144