29 luglio 2025

"Pitigliano 2025" foto di Gianni Quilici

 

di Rosanna Valentina Lo Bello

        È una foto molto particolare che mi ha trasmesso subito la forza della sospensione, superando egregiamente il peso visivo dell'intera inquadratura che, a primo impatto, potrebbe sembrare squilibrato . Oltre la metà del foglio, infatti, è occupato dalla sola geometrica pavimentazione; poi in alto la panca di pietra con questo corpo femminile disteso? poggiato in lungo lateralmente. No, non ha importanza ciò che si vede, ma ciò che si"sente"... e sento la sospensione muscolare di un corpo umano data dalla trazione di quel collo che sorregge la testa inclinata ...sospesa ... sento la meraviglia visiva di quel braccio poggiato sul gomito, piegato verso l'alto e come linee richiama la piegatura delle gambe che fanno intuire le ginocchia che spingono lateralmente. Mi sembra una posizione per niente comoda, ma sicuramente di assestamento. Bravo Gianni Quilici che ha colto l'attimo! Poi lo sfizioso gradevole completino bianco gonfio a palloncino, lasciando libere striature di pelle abbronzata ha fatto il resto per attrarre un occhio prevalentemente maschile.

Ma è la forza della sospensione della ragazza, che rendono questo scatto, a mio parere,  molto bello e interessante. Ho sentito subito questa foto viva, per niente immobile. Si muove nel pensiero emotivo e concettuale, ancora più veloce dell’immediatezza del visivo. E’ densa. Sembra di poterla toccare nella sua consistenza.

22 luglio 2025

Origine discendente di Marta Glenda Lugano



di Elisa Bertoni

“C’è una crepa in ogni cosa, ed è così che entra la luce”: questa è una possibile traduzione di un verso emblematico di Anthem, canzone di Leonard Cohen, che Marta Glenda Lugano inserisce all’inizio della sua raccolta poetica intitolata Origine discendente. L’inglese “crack” è crepa, è frattura, ma anche breccia, cioè possibilità che dal vecchio filtri la luce, un’illuminazione, una nuova possibilità. Questa duplicità antitetica caratterizza l’antiretorica poesia di M.G.Lugano; i suoi versi sono imbevuti di dolore, un dolore sia soggettivo, come smarrimento esistenziale e perdita di affetto, sia collettivo, come sbandamento sociale, politico, ambientale che si riverbera nello stile arduo per immagini originali e talvolta frammentato nei nessi sintattici, come riflesso della simbolica “crepa introduttiva”, che diventa altresì propulsiva fonte di ispirazione.

E’ proprio questa frammentazione che proietta la sua poesia in una dimensione immaginifica, a tratti onirica, che supera i confini della ragione.

Questo aspetto è immediatamente intuibile nella lirica che fa da incipit alla raccolta, Paesaggio astratto, una visione metafisica allineabile a certe figurazioni pittoriche di sperimentalismo novecentesco. Con una similitudine ardita che pone anche l’arte, rappresentata dallo stradivari, in una dimensione di estrema fragilità e liquefazione (“come uno stradivari nello strutto”) assistiamo alla presenza di “solidi e liquidi in un ovale”. Per usare una terminologia cara a Bauman, modernità e postmodernità paiono convivere: le costruzioni solide dell’età moderna si affiancano alla dimensione liquida priva di contorni nitidi e definiti della contemporaneità, in un ovale che potrebbe essere origine di una trasformazione, un uovo-nuovo che supera il postmoderno stesso anche nella produzione letteraria. In questa atmosfera che rappresenta “il senso del secolo”, la presenza “incorporata/scorporata” di un tu, che potrebbe anche essere un io, si apre “lievemente” ad un sorriso, la crepa di luce della consapevolezza. La vita diventa una sorta di immanenza impermanente, di presenza e assenza, una paradossale materializzazione smaterializzata come mezzo possibile per vivere senza un piatto adeguamento ad una conformistica globalizzazione.

Nella precarietà della società postmoderna anche il Verbo, celebrato e sacralizzato nel Cristianesimo e nella sacra religione dell’Umanesimo non può essere adorato; il verbo abusato, privato di sostanza, non è più in grado di fornire vera comunicazione; preferibile è dunque il silenzio o “parole sospese”, frammenti come “nuvole perse/in poveri campi rotondi”.

I versi di M. G. Lugano nel rifiuto della tradizione, allineandosi ad una sorta di espressionismo ermetico, deformano la realtà attraverso l’uso di immagini desuete di un potente impatto emozionale; il susseguirsi di analogie, talora di non immediata interpretazione, indaga lo smarrimento, l’angoscia esistenziale, la solitudine di una umanità dolente nell’apparenza boriosa di falsi miti. Ma in tale contesto non c’è stagnazione, si aspetta l’esplosione della luce (“corsari di nuvole”), la possibilità di un neo Romanticismo leopardiano nutrito di illusione e immaginazione (si veda Oceano), la memoria (il “cesto di viole” da annusare “nei momenti di sconforto”), il tentativo di trasformare “la miseria” del proprio destino “di pane e arance” in un “orto di sicurezze splendenti” (si veda Carme dell’addio).

La natura irrompe nei suoi testi non in modo naturalistico, ma è presenza che si sostanzia in nostalgia per il primigenio e per una immacolata semplicità, alla ricerca di una potenzialmente salvifica “origine discendente”, rappresentata attraverso la simbologia di fiori e frutti che si contrappone all’”orchidea di plastica” di Incubo n. 3 e alla “fragola non arrossata” di Crack: ecco irrompere le già citate viole e arance, l’uva fresca, i boccioli di camelia, l’alloro, le margherite, i giunchi nel lago, il grano, i licheni, il sambuco, ibischi sempre-vergini, la mela rossa, ciclamini, la rosella dischiusa, le violette, l’anemone e la salvia, la lavanda, i datteri.

Il tema della vanità e della velleità, espresso nel suo caratteristico stile ellittico e analogico, denso nella ricerca di rarefazione, è ravvisabile in vari testi. Ne prendiamo in esame tre.

1)         Prospettive: il paesaggio si traduce in un “cimitero di sonniferi” e le “chiacchiere imbandite come un pulviscolo sulle mense e sui vani” così come “le antiche credenze” sembrano tracciare strade che si rivelano mortifere, effimere velleità con l’apparenza di vittorie. “Solo il silenzio osserva gli attimi”: il silenzio, personificato, diviene la prospettiva virginea che ci lascia sulla soglia in un purissimo desiderante intentato “una tenerezza qua appare illecita!”. Ci troviamo in quella sospensione che rifiuta l’oraziano “carpe diem” e rimane in una sorta di inazione generata dal “timore di confondere il tempo acerbo”, come frutto non maturo, in contrasto con l’”istinto della creatura”.

2)        Visione: “Nascosta dal cobalto introverso/inseguo sogni di vana gloria,/improvviso vagabondaggi,/seminando lungo le vie dell’instabilità”. Il processo di scavo interiore, rappresentato attraverso la sintetica efficacissima immagine del “cobalto introverso”, quasi un mantello che ricopre la persona e la nasconde, produce improvvisi “vagabondaggi” che potrebbero rappresentare le sue stesse poesie individuate come erranze che seminano sulle vie dell’instabilità, nuova efficace rappresentazione del post-moderno. La poesia è dunque la chiave per superarlo, seminare comunque. La consapevolezza dell’instabilità che non tradisce la speranza (“vaneggiamenti in attesa del verde”) è accostata alla spensieratezza di un fanciullo che d’estate calcia un pallone: alla fine, pur protetto dalla spensieratezza, ne viene anche imprigionato (“la sua prigione di nuvola nel sole dell’Estate vuota”). Questo fanciullo è l’unico che si salva dallo sguardo impietoso di M. G. Lugano nel tratteggiare altre specie umane: dagli “anatroccoli compunti” fino ai “leoni “ con i loro “ruggiti vanitosi”, emblema della boria presente anche nell’ambiente intellettuale, e agli “onorevoli/inebetiti di chiaroveggenza”. Questa visione diviene quasi una profezia della debacle di un mondo fatto di arroganza e di saccenza, che si merita di mangiare “asfalto rovente”/”la più tenera pietanza che la propria categoria possa servirgli”.

3)        Ieri: Ieri chiude questa sorta di trittico dal sapore oracolare, una poesia che diviene esortazione a lasciare andare le certezze acquisite, “le casse vuote/usate per i nostri traslochi spirituali”. Dalle “rovine antiche”, dal “seme disperso” “si affacciano nuove maree e piovaschi secchi” nella possibilità nuova che anche l’aridità abbia un potere fecondativo (“letti di fiume aridi su cui passeggiare tra i sassi”), per uno sguardo rinnovato e un nuovo approccio al mondo (“allo scoperta di nuovi occhi nella terra in cui viviamo”).

Il malessere esistenziale, quasi un “crepitio di stomaco” (si veda Preghiera) è conseguenza di un mondo fatto di pochezza, e della necessaria ricerca di ciò che è spoglio, rozzo (“contadino scarpone”), arido, semplice capace di produrre genuinità, un Eden post-diluviano, un senso più profondo e vero oltre la comodità di consolazioni immaginifiche. Dentro l’autrice si muovono spinte di energia che da una parte diventano disincantate e quasi amare denunce della vanità di un mondo costruito su boria, potere e denaro, dall’altra spalancano visioni ribellistiche, come vediamo nel “cavallo maestoso” che “si ribella alla sua elegante postura” nella speranza di un suo “nitrire sciolto”, o nell’affermazione di Ferragosto in città: “Eppure mi sento di ribellarmi alla legge dei poli, ora uguale per tutti”. M. G. Lugano non si stupisce di fronte al destino di “una poesia dimessa, che nessuno saluta mai”. Poesia di solitudini esistenziali, dove “la cerniera chiusa sul seno” (da Il Giorno libero delle ninfe) pare il correlativo oggettivo di chi si protegge dai battiti scomposti del cuore e così facendo si preclude il cielo, in netta contrapposizione con l’”altrove” in cui la vita “riesce a dischiudersi”, un anelato varco montaliano che “si apre al senso”. L’autrice adesso non riesce più a naufragare nel mare dolce della sua immaginazione, perché “lo stagno è troppo piccolo per contenermi tutta. / E l’acqua è sempre più gelida all’entrarvi”).

Ma poesia è anche un approdo naturalissimo per l’autrice: “Bere al calice della poesia fu dunque/il più semplice passo in terra,/ un tuffo in aria alleata”, un affermativo atto di cura del sé (“curo ogni mio più puro sentimento”), che si nutre di oggetti quotidiani, di animali, dei già nominati frutti e fiori,  con potente valenza simbolica, ma anche poesia dotta con citazioni letterarie (ad esempio Caronte o il verso dantesco “tanto gentile e tanto onesta pare”), riferimenti colti (il paradosso di Olbers) il richiamo ad artisti come Frieda Kahlo.

E poesia di epifanie che illuminano oltre le crepe: “Ma c’è una ragazza inglese che danza/ nella mia stanza unica, /così, le foglie morte là,/ ora resuscitano verdi”. La ragazza inglese supera il suo anonimato per diventare, proprio come il bambino che d’estate gioca a pallone nei vicoli vuoti, un archetipo, in questo caso della spontaneità vitale, un dono gratuito sottratto alle deludenti attese, alle aspettative, alle ruminazioni della ragione. L’atto stesso del danzare per l’autrice è liberazione (si veda ad esempio in Dimitri Ihmetovic “ho bisogno di danzare anch’io”) e con essa guarigione: “Anche nello sconforto maggiore c’è sempre una luce che si dirama,/capace di trasportare le nubi in cieli danzanti/ di guarigioni libere” (si veda E pure nel più piccolo microcosmo). Si torna così alla citazione iniziale di Cohen. La crepa, sia essa morte simbolica o reale come la perdita dei genitori, non è fine a sé stessa; da lì scaturisce la luce della poesia con tutta la ricchezza di immagini impervie e simboliche nello loro icastica e allo stesso tempo complessa originalità che M. G. Lugano ci regala e ci offre come lettura-ricerca che ognuno può compiere, abbandonando le vie dell’ipocrisia e della appiattente apparenza. Amiamo concludere con i suoi versi tratti da La pentecoste. Promemoria in un alambicco, un’epigrafe che ha il sapore d’eternità:

Quando la morte si fa viva

mi faccio viva anch’io.

 

 

07 luglio 2025

"Raccontro tra il serio e il discreto" di Valeria D'Andrea

 




Racconto tra il serio e il discreto 

 di Luciano Luciani

Tra i piccoli-grandi piaceri della vita mi sentirei di annoverare la “scrittura libera”. Ovvero, seguire il filo, talora confuso e ingarbugliato, dei propri pensieri, cercando di riportarli sulla pagina bianca così come emergono alle soglie della coscienza, statu nascenti, poco prima / poco dopo la loro stessa formulazione. La ricerca delle parole più adeguate da portare sulla carta per esprimere una memoria, felice o dolorosa, un’intuizione nuova, un collegamento tra due contenuti lontani o lontanissimi e magari apparentemente contraddittori, rimane, almeno per chi scrive, a tutt’adesso, il gioco di maggiore soddisfazione intellettuale o emotiva. 

E tra le pagine di un piccolo libro, in un’edizione non recentissima, scopro che tale attività ludica la pratica da tempo anche Valeria D’Andrea, scrittrice romana e blogger: con leggerezza e ironia, senza fatuità e con una postura morale che le impedisce di scivolare nel banale, che, chi si confronta con la pagina lo sa, è perennemente in agguato, Valeria, una laurea in giurisprudenza e com’è destino della sua generazione tanti lavori e lavoretti, scrive e scrive. 

Quasi, il suo, uno stream of consciousness, un monologo interiore in cui, però, risultano fin troppo governate e controllate le incursioni dell’inconscio. Peccato, perché un più fluido “lasciarsi andare” avrebbe permesso ai Lettori, sempre curiosi delle vite degli altri, di saperne di più circa la scrittrice romana, la sua realtà, le sue fantasie, i sentimenti passati e presenti che la connotano. Insomma, viene poco o punto aiutato l’ingresso del Lettore nella vita interiore del suo personaggio, d’invenzione o autobiografico. 

La D’Andrea, invece, preferisce arrestarsi sempre un attimo prima dell’autoanalisi mordente, della confessione profonda e capace di esplicitare il magma confuso delle sue immagini, sensazioni, desideri, speranze, pulsioni… Al centro delle libere riflessioni dell’Autrice di Racconto tra il serio e il discreto il tema dell’Amore, che, nelle sue declinazioni sempre varie e inconsuete con Amicizia e Rispetto riesce - quasi - sempre a trovare la strada per scrollarsi di dosso cattiverie e bassezze, malignità ed egoismi. Ottimistico e positivo lo sguardo sul mondo della blogger romana: mai banalmente roseo, però, perché sempre conquistato con fatica, talora con pena. 

Un lacerto di scrittura di Valeria, così, tanto per farsi un’idea? Eccolo: “Sento che sta per accadermi qualche cosa di bello perché mi sento bene, ho piacevoli sensazioni e finalmente mi piaccio di nuovo quando mi guardo allo specchio.

Dio, Ti ringrazio e Ti chiedo perdono per tutte le accuse che ultimamente Ti ho mosso.

È che per tanto tempo il mio cammino è stato in salita e, anche se non è detto che mi trovi in prossimità di una discesa, sono qui e ho voglia di vivere”.

Eh già, cara Valeria, per dirla con Paul Valery nel suo luminoso Cimitero marino: “S’alza il vento!... Bisogna tentare di vivere.”

Sempre.

Valeria D’Andrea, Racconto tra il serio e il discreto, Collana Approdi, Editrice Vertigo, Roma 2018, pp. 40, Euro 9,50

05 luglio 2025

"L'unica moglie" di Peace Adzo Medie

 


 

Il peso della tradizione in Africa

di Giovanna Baldini

Alcuni giorni fa è arrivata da noi attraverso la stampa on line e di carta, la notizia che in Uganda le spose bambine continuano a esistere, a soffrire, a essere comprate per quattro o più mucche…

Il libro di Peace Adzo Medie, L’unica moglie, parla di questo. Non delle spose bambine, una piaga che ancora avvelena molti Paesi del Terzo Mondo, ma del peso della tradizione nella società africana. Simile al mos maiorum degli antichi Romani, alle cui leggi, non scritte ma tramandate oralmente, si attenevano tutti i cittadini di ogni convinzione, sesso, età, condizione sociale…

Il romanzo descrive la vicenda di tre persone, due donne e un uomo che, a modo loro, si impegnano per opporsi alla consuetudine per cercare di vivere la vita da individui liberi da compromessi e scelte imposte da luoghi comuni e pregiudizi.

La storia è ambientata nella capitale del Ghana, Accra, città che, a tutti gli effetti, può essere paragonata a una qualsiasi ricca metropoli del mondo di oggi.

L’Autrice, infatti, parla di quella parte della società benestante e opulenta di cui fanno parte Elikem e i suoi fratelli, imprenditori in diversi ambiti dell’economia della capitale.

Elikem, detto Eli, uno dei tre protagonisti, è un uomo moderno, ormai affermato nel lavoro, figlio prediletto di una madre esageratamente possessiva che, in nome dell’onore della famiglia, pretende di imporre la propria volontà sul futuro dei figli, e di essere ubbidita.

Eli ha una relazione con una ragazza liberiana, si amano e hanno una figlia. Muna, la ragazza straniera, non è accettata dalla famiglia e tanto meno dalla madre che ne ignora l’esistenza e, quando può, ne parla male.

Da questo piccolo granello, che inceppa l’ingranaggio del macchinario narrativo, nasce la nostra storia.

Il figlio non vuole disubbidire alla madre e nel contempo desidera mantenere il rapporto con la donna che ama. Di sua volontà la madre decide di farlo sposare a una brava ragazza del suo paese, scelta da lei secondo criteri insindacabili.

La famiglia della promessa sposa, Afi, che dà voce alla storia, scritta appunto in prima persona, accetta di buon grado il matrimonio conveniente non solo economicamente ma anche per il prestigio che ne deriva. Per Afi è un salto di qualità: si trasferirà ad Accra e comincerà a far parte della upper class della capitale.

Ma niente è come appare.

La scrittrice guida il lettore nei meandri della psicologia sociale del suo Paese, dove anche le giovani generazioni, sia pure vestite all’ultima moda, fanno i conti con la tradizione: le consuetudini familiari da rispettare, i pregiudizi, la sottomissione della donna al marito, l’educazione a sopportare i capricci di anziani e parenti.

Afi, lentamente, si accorge di essere stata usata, pedina inconsapevole in un gioco più grande di lei e si oppone. Sa di perdere tutto, ma va avanti.

Eli, marito a metà di Afi, come vuole la madre, non rinuncia a Muna. Potrebbe farlo, glielo consente la tradizione di avere due mogli, ma, in rotta col costume matriarcale, Afi chiede il divorzio: vuole essere l’unica moglie, come promesso dal contratto matrimoniale, stipulato dalle due famiglie. E, come si sa, al cuore (di lui) non si comanda.

Tutti e tre i personaggi principali si oppongono alla tradizione in nome della propria autonomia e lo fanno all’interno della società ghanese, una realtà culturalmente avanzata ed economicamente aperta alla modernità. Ma, nonostante le loro migliori intenzioni, non riescono nel loro intento.

La storia, espressa in uno stile brillante e spigliato, è divertente e appassionante. Per me ha rappresentato la conoscenza di un mondo che mi ha sorpreso: in una realtà digitale all’avanguardia esistono ancora intrecci e complotti familiari, accordi presi dalle madri per il “bene” dei figli, chi decide per gli altri e chi obbedisce sempre…

Giovani che vestono e vivono all’europea, immersi in un contesto rigidamente controllato dal mos maiorum ghanese che impedisce loro ogni libertà di scelta. Incapaci di liberazione personale perché il passato esiste e resiste e il prezzo pagato, alla fine, è altissimo e vanifica ogni personale aspettativa.

 L’autrice, Peace Adzo Medie, ha circa quarant’anni, insegna presso l’università di Bristol e scrive in inglese. L’unica moglie è il suo romanzo d’esordio. È merito della casa editrice Brioschi, sempre attenta alle voci letterarie provenienti dai quattro punti cardinali, averne proposto traduzione e pubblicazione.

 Peace Adza Madie, L’unica moglie, traduzione di Gabriella Grasso, collana Gli Altri, Brioschi editore, Milano 2022, p.269, euro 18,00

 

01 luglio 2025

" D’istanti e d’istinti" di Giacomo Bini

 


di
Elisa Bertoni 

Inutile sottolineare che una delle caratteristiche peculiari del linguaggio poetico è la consapevolezza con cui chi scrive gioca con i suoni: il titolo della raccolta di Giacomo Bini, D’istanti e d’istinti, attraverso un gioco di parole efficace nella sua immediatezza, evidenzia la ricerca costante dell’autore di trovare l’immagine giusta ed il suono giusto per rappresentare le sue emozioni.  Non solo un sofistico “lusus” per strappare un sorriso cerebrale, ma una sintesi perfetta di come la lingua possieda una carica di magia che i poeti scoprono e regalano a tutti.

 

Una delle forze più importanti della raccolta consiste nel definire in che cosa consista il poetico, dunque il libro possiede anche una naturale e spontanea funzione epistemologica.

1)  La poesia si collega all’attimo.

“D’istanti” marca l’importanza dell’attimo, quello che il poeta riesce ad estrapolare dal flusso continuo del tempo attraverso l’attenzione perspicua concessa al piccolo, al minuto, all'apparentemente insignificante e alla lente di significato attribuita alla memoria con la sua capacità di setacciare e conservare quello che davvero conta.

 

2)  La poesia nasce dalla mancanza.

“Distanti”, senza apostrofo, omofono del primo, vuole soffermarsi sul riconoscimento di una distanza che può essere determinata da un’assenza temporanea, o da un lutto,  o ancora dalla diversità di ruoli, dalla crescita, dall’incomprensione;  in ogni sua manifestazione essa permette di focalizzarsi sulle emozioni che spingono appunto il poeta a scrivere e a trovare proprio nel cuore la fonte di ispirazione e la casa, l’inizio e la/il fine di ogni poesia.

 

3)  La poesia nasce dalla spontaneità e da un’urgenza espressiva.

“D'istinti”: la poesia si origina come moto spontaneo, non può essere asservita a fini utilitaristici, fosse anche solo assecondare una vanità. “D’istinti” rivela proprio l’immediatezza con cui le parole sono per il poeta un bisogno imprescindibile, una peculiarità per manifestarsi nella pienezza del proprio essere.

 

4)La poesia è ricerca ed illuminazione, in questo consiste la sua capacità distintiva.

“Distinti” rivela che quel moto istintivo da cui si origina la poesia non è ingenuo spontaneismo  ma filtrato dal connubio mente-cuore diviene discernimento nel trovare quel termine, quell'immagine che offra in modo icastico la migliore rappresentazione di uno stato d'animo, di una situazione, di una esperienza da salvare alla inflessibile caducità della vita.

 


Si può ritrovare tutto questo fin dalla prima poesia della raccolta, dedicata alla figlia, quasi un salmo laico scaturito dall'amore paterno.

Il tema della mancanza è messo in risalto dalla ripetizione del verbo “mi manchi” coniugato in varie forme che cadenza strofa dopo strofa l'amore del padre; lungi dall'essere possessivo, accetta il cambiamento e il distacco senza il superbo orgoglio di chi ostenta imperturbabile strafottenza, ma con il fiero coraggio di rivelare l'attaccamento, espresso in quegli istanti estrapolati dalla memoria che hanno sedimentato l'affetto:  il ricordo degli abbracci notturni per rassicurare i suoi pianti bambini, le passeggiate fianco a fianco, le coccole intorno al focolare, ma anche le discussioni che provocano ferite fino alla commovente dichiarazione: “all'assenza di te non c'è un altrove”.

Nel dare accento alla mancanza il poeta è come sottolineasse la visione platonica dell'amore, figlio di Penia, la Povertà e di Poros, la Risorsa: amore non è un sentimento perfetto e completo ma possiede una forza dinamica che si muove tra bisogno e possibilità. La risorsa per sopperire all'assenza diviene proprio la poesia, mezzo divino per esprimere l'istinto, il sentimento, nel tentativo di ricomporre la distanza, cantando l'assenza stessa. E chiare, distinte sono le immagini anche forti e dolorose che emergono nelle similitudini: “...mi manchi/come manca la spada alla ferita/che per la sua estrazione si dissangua”; “Mi manchi così tanto figlia mia;/come l'acqua alla sete del deserto”.

 Il libro è dunque un viaggio nel poetico con il suo linguaggio vibrante di immagini senza cerebralismi che lo allontanino dal quotidiano ma con forte pregnanza visiva e addirittura tattile, perché la delicatezza e la spiritualità di questa poetica non si esprime al di fuori della materia ma fa proprio di essa sostanza creativa.

Emblematica è la lirica intitolata Le labbra degli amanti: le parole del poeta acquistano un potere magico. Già l'atmosfera crepuscolare in cui si apre il testo “Appesa ai lampioni se ne sta la sera” proietta il lettore in una dimensione notturna, cara agli amanti, che si carica di aspettativa e di sogno. Parole come “soffio” e “tremolio” accostati alla concretezza di un “plenilunio” o del “canto delle cicale” riescono con poche pennellate ad immergerci nel fiabesco intriso di desiderante attesa, perché “la memoria/del vostro sogno non abbia palpebre”. Anche gli elementi immateriali, come “memoria” e “sogno” sono accostati a termini corporei, come le palpebre, che in questo caso devono sparire perché si possa raggiungere la piena realizzazione del desiderio. Ma la poesia è solo un'ancella del silenzio (“accorderò al silenzio di questa calda notte/il canto delle cicale...; “Il ritmo che canta dalle mie frasi/risvegli ogni vostro nascosto desiderio/e che infine ogni mia parola taccia”) e ciò che rimane è l'immagine dei baci nel loro primo sbocciare come evocati dall'incantesimo del poeta nato “dal cerchio del cuore” in un'anima che conosce il dolore.

Sembra di rivedere Paolo e Francesca o Catullo nell'ebbrezza dei baci di Lesbia in un delicatissimo inno all'amore che riecheggia a tratti anche Prevert ne “I ragazzi che si amano”.

E la più esplicita dichiarazione di poetica la troviamo in Cercami: l'anafora di “cercami” che apre le prime due strofe rivela il luogo dove dimora e regna il poeta “Cercami in ogni tuo anelito d'Amore...”...”Cercami nelle pieghe dell'anima...” “Io vivo lì/nell'anfratto più recondito del tuo cuore,/lì è il mio regno./Io sono un Poeta”. La poesia non può nascere se non nell'autenticità di chi vive a stretto contatto con le pieghe più profonde della sua anima, di chi non nasconde neppure “ricordi più intimi” “speranze incoffessabili”, non ricerca all'esterno e nel grandioso, ma fruga nelle “pieghe”, negli “aneliti” dove il trono non è esibizione e potere ma purezza di sentire.

Troviamo conferme di come la poesia si genera da un acuto sentire anche nella lirica Nelle mie mani dove la tenerezza e l'amore superano il senso di stanchezza e di dolore per intrecciare in “notti insonni” instancabili “alate parole”. Le parole sono alate perché devono essere veloci a catturare “emozioni/in fuga dagli angoli acuti dei tetti”, a volte si smarriscono, a volte tornano “a sanguinare/ i sentimenti” tanto che la capacità di versificare può anche apparire un tormento, una condanna, una sfida in cui al centro c'è lo svelamento all'infinito della propria essenza “come/fosse soltanto/un'eterna partita a scacchi/con l'anima mia”.

E così in Aloni di luce: “I poeti sono come un canto/struggente e lontano/che il vento però non consuma./...Traducono in parole/i loro purissimi pensieri/per poi ascoltarsi/guarendo al contempo/la smemoratezza dei nostri fragili giorni”. Il poeta riceve in dono la parola che è lui il primo a dover riascoltare, quasi ad indagarne il senso più profondo, nel tentativo di combattere l'oblio per tirare fuori ben “distinti” dall'irriducibile furia del tempo gli “istanti”che costituiscono “la sacra pergamena dei sogni”. E l'ossimoro in chiusura “accecanti aloni di luce”è una calzante metafora per il ruolo affidato ai poeti che pur nell'attuale marginalità sociale (“aloni”) possono accecare e diventare un prezioso antidoto persino alla cattiveria umana, perché le loro parole non possono essere attorbate una volta scaturite da limpide fonti (“I poeti sono come accecanti aloni di luce/che neppure l'oscurità/della cattiveria umana/è in grado di celare”).

Una nuova dichiarazione di poetica è presente anche in La casa della poesia non ha porte ad indicare che essa si proietta in alto e per questo ha solo grandi finestre che catturano “tutta la luce”, ma anche “tutta la notte”. E' la verità integrale ad interessare un poeta nonostante spesso declami “inascoltati poemi”. La poesia costruisce altari alla divinità dell'inutile perché non si pone come populistico obiettivo quello di sedurre, manipolare e catturare folle. “Possiede anche uno stupefacente giardino/nascosto da siepi di orbaco e ciclamino/dove sono fiori le meditazioni/i dolori forti radici/e l'erba regala sensualità per i pensieri/spogliati alle menzogne del mondo./L'aria satura dei mille profumi dell'amore/e la fragranza delle anime inebria ogni cosa vivente”.

In questi versi troviamo riassunte le parole chiave della sua raccolta: ricerca di sé, dolore, sensualità, verità, amore, vitalità. Questa è la sostanza che colora il giardino della poesia e permette l'immaginifico sbocciare dei versi dalla loro inebriante fragranza.

Esiste tuttavia una malia: una volta entrato nella casa della poesia ne rimani eternamente catturato, a significare che chi si scopre poeta grazie alle ali dei propri voli non può più tornare indietro, se non abiurando alla propria stessa natura; essere poeta diviene una caratteristica della propria carta di identità.

“La casa della poesia non ha porte/entrare non puoi se non sai volare/e per uscire/devi rinunciare per sempre alle tue ali”.

Ed è proprio grazie alla capacità di immaginazione che, quasi riproponendo le riflessioni pascoliane del saggio “Il fanciullino”, Bini scrive in Sentimenti caduti: “Non invecchia il poeta col passare del tempo”; egli, dotato di attenzione ad ogni attimo, è capace di “cogliere sentimenti caduti”, in un giocoso e sempreverde preludio d'amore con la sensualità dell'estate “che filtra dalle finestre/ad illuminare candidi seni di ragazze”.

Il poeta è l'adulto ma è anche il bambino in una sana scissione identitaria che troviamo anche in Così volle mia madre: “Da allora,/accanto a me,/respira sempre un altro./Ed io,/dall'uno passo all'altro./E più non so/chi sono io/se sono lui”. Dalla curiosa doppia data di nascita (22 marzo piuttosto che 21 marzo) nasce quasi una pirandelliana crisi identitaria che si configura tuttavia come possibilità di evitare rigidità e fissazioni in una apertura mentale che diviene inscritta all'anagrafe.

Le poesie di Bini non sono urlati canti di gallo che schiudono il peso di un'assenza svegliando di soprassalto dai sogni di fanciullo (si legga Da bambino odiavo il gallo), ma piuttosto sono sobrie e delicate canzoni che dall'assenza, dalla distanza hanno imparato a ricavare luce e distinzione in una voce che dilata l'istante mescolando l'uomo al bambino, nella costante certezza che “per fissare i ricordi/ho sempre usato il cuore”( Ricordi).

La raccolta termina con una sorta di apologo in cui Menzogna e Verità si trovano a camminare affiancate “sulle tortuose strade degli esseri umani”. Menzogna procede molto più rapidamente e sembra cavalcare la velocità, ma all'appuntamento con la meta Verità può affermare: “con sgomento mi vedrai già oltre il confine, che ti attendo, nuda giovane e bellissima, proprio come nel lontano tempo in cui iniziai il mio cammino”. Verità diviene un alterego della Poesia, la quale nel nostro mondo può apparire una sconfitta dall'era dell'apparenza, del potere, del denaro, della tecnologia, rapidi a riscuotere successo e pubblico, ma essendo lei la custode dei sentimenti più profondi che nascono nel cuore, dei bisogni più autentici che appartengono all'umanità dall'origine dei tempi, non potrà che vincere, rimanendo “nuda”, segno della sua inscalfibile autenticità, “giovane” perché l'anima e l'immaginazione non hanno bisogno di trucchi e plastiche che simulino la giovinezza e “bellissima”, perché non c'è niente di più bello di ciò che dischiude la verità, anche quando è dura e dolorosa. Se così non fosse, sarebbe la distruzione dell'umano.

D'istanti e d'istinti è un libro dunque semplice e ricchissimo che immetterà chiunque lo voglia leggere nella magia silenziosa del linguaggio poetico, riscoprendo la bellezza del sentimento che abbraccia ed accarezza le nostre preziosissime fragilità.